La famiglia nel processo migratorio, tra distanze e ricongiungimenti

Il Convegno La famiglia nel processo migratorio, tra distanze e ricongiungimenti, programmato in occasione della 20° Giornata Internazionale della Famiglia, si è svolto il 9 maggio 2014 a Roma, presso la Sala del Mappamondo della Camera dei deputati. È stato promosso dall’onorevole Khalid Chaouki, in collaborazione con A.D.R.I. – Associazione delle Donne Romene in Italia – e SOLETERRE, Strategie di Pace ONG Onlus.

Nello scenario delle migrazioni internazionali, la mobilità familiare è diventata un fenomeno sempre più rilevante: famiglie che si separano e che si ricongiungono, tracciando e animando spazi sociali transnazionali, segnati da relazioni a distanza (di natura affettiva, culturale ed economica) che impattano sullo sviluppo tanto dei Paesi di origine che di destinazione.

Il fenomeno a livello internazionale – e in particolare in Italia – è aumentato significativamente negli anni per effetto di una crescente migrazione femminile: donne, madri, che emigrano per prime e da sole, in vista di una prospettiva economica migliore, al fine di un inserimento lavorativo nel settore domestico e dei servizi di cura alla persona. Le possibilità di conciliazione con la vita familiare nel paese d’origine sono però scarse o nulle. Si lasciano indietro, infatti, nel proprio Paese di origine, figli, mariti, genitori anziani, per il cui sostentamento economico affrontano le fatiche di un lavoro gravoso e della distanza emotiva e di cura dai propri cari.

Questo fenomeno ha portato a quella che molti psicologi chiamano «Sindrome Italia», una grave forma di depressione sempre più diffusa che colpisce non solo le donne che svolgono mansioni da badanti in Italia ma anche i loro figli «orfani bianchi» di una madre assente, bambini che crescono con i nonni e vengono messi a letto via skype da una mamma a 3.000 chilometri di distanza.

Questo malessere sociale delle madri migranti chiede di essere riconosciuto e fronteggiato a livello internazionale. I figli sono i familiari più vulnerabili nel Paese di origine e si ritrovano privati della risorsa educativa e di cura principale rappresentata dalla mamma. Accanto a questo profondo disagio bisogna però riconoscere e sostenere la potenzialità della famiglia migrante e transnazionale come attore di inclusione sociale e sviluppo economico.


Il Programma del Convegno può essere consultato cliccando qui.



Letteratura e migrazione romena in Italia

Quando la realtà della migrazione diventa letteratura possiamo tutti condividere gioie e tristezze in cui ci si può a volte anche riconoscere. È così nelle storie raccontate nel volume bilingue Satul fără mămici / Il villaggio senza madri (Rediviva Edizioni, 2012) di Ingrid Beatrice Coman, di cui è tratto il racconto che qui pubblichiamo.

«L’alfabeto sdentato» di Ingrid Beatrice Coman

Florin aveva scritto per tutta la mattinata: le a e le b e le c disposte in fila sulle linee del quaderno a righe come fazzoletti stesi ad asciugare.
Ce la metteva tutta a rabbonire la maestra, in collera con lui fin dalla prima ora, la faccia rossa di rabbia e le mani piene di gesti minacciosi, e il tintinnio dei braccialetti color argento accompagnava, in modo stridulo e cacofonico, la sua voce carica di pedanti rimproveri.
Non era cattiva, la signora Maricica, Florin le voleva bene come a una zia ed era sicuro che anche lei, a modo suo, gliene voleva. Ma non sopportava che qualcuno le disubbidisse  e allora  strabuzzava gli occhi  e la  vena sopra il colletto bianco pulsava, violacea, come se avesse voluto saltar via dal suo posto e colpire a destra e a sinistra. Florin faceva di tutto per non offenderla, ma a volte era inevitabile quanto una pozzanghera di fango spuntata in mezzo alla strada in un giorno di pioggia in cui devi inzupparti le caviglie per passare oltre.
Quella mattina la pozzanghera sembrava più profonda del solito; mentre incideva frenetico la carta con il pennino, Florin si domandava se avrebbe varcato il guado pure questa volta o sarebbe rimasto per sempre intrappolato nell’occhio d’acqua sporca. Si sentiva come se ci fosse seduto dentro, con tanto di panchina, quaderno e pennino, immersi nel fango melmoso che pareva persino infastidirlo nello scrivere.
Guardava le lettere allineate, la testolina appena inclinata verso destra, e si chiedeva se non avrebbero potuto magari venirgli in aiuto, come delle ciambelle di salvataggio, tirarlo fuori per le mani e toglierlo dai guai.
Con la coda dell’occhio osservava quella donna imponente misurare il pavimento della classe in lungo e in largo con il rumore scandito dei suoi tacchi, fermandosi, di tanto in tanto, ad avvolgere con lo sguardo tutti gli alunni in un’invisibile  ragnatela. All’altezza del suo banco, il rumore dei passi si acquietava, segno che la maestra si fermava a spiare il suo tema, e Florin sperava sempre di sentirle dire: «Va bene, ragazzo, basta così». La maestra invece riprendeva il ritmo opprimente dei tacchi sul pavimento, come due instancabili picchi, tanto che Florin non si sarebbe stupito di scoprire una scia infinita di buchi seminati in mezzo ai banchi.
Nonostante la mano tremolante sul pennino, diventato appiccicoso per il sudore delle dita, e le lettere simili a uccelli nell’aria vibrante di un giorno di calura, Florin sapeva che non gli era concesso smettere di scrivere. La signora Maricica pareva aver esaurito tutta la scorta di buona volontà quella mattina e Florin sapeva perché. Conosceva la sua colpa come un compagno di gioco. La sua colpa era una coperta calda in una fredda notte d’inverno. Era il suo talismano. La sua colpa era...
«La lettera m, Florin! Voglio vedere la lettera m nel tuo quaderno!»
Ecco, l’aveva beccato anche questa volta, come un ladro a rubare pasticcini. Si era sforzato per tutta la mattina a colmare come meglio poteva quel vuoto tra la l e la n, allargando il ricciolo della l e gonfiando la pancia della n, nella speranza che forse la maestra non si sarebbe accorta o l’avrebbe perdonato, abbonandogli quell’assenza nell’alfabeto e sorridendogli, comprensiva, come il giorno in cui aveva perso il dente e si aggirava per la scuola  sdentato, coprendosi la bocca con le mani ogni volta che doveva parlare, per paura che gli altri bambini ridessero di lui.
Invece no, la signora Maricica, china sul suo quaderno, l’aveva paralizzato con il suo fare autorevole e con il suo profumo di amarene, puntando l’unghia laccata di rosso nel punto esatto dove avrebbe dovuto stare di diritto la lettera m, e tirando una riga sfregiata, di una violenza inutile, con una matita rossa che pareva scaturita direttamente dalla sua unghia.
«La lettera m!» aveva ripetuto, con una punta minacciosa nella voce, che gli ricordava quella del cocchiere al mercato: la voce di chi sa di avere in mano la frusta ed è pronto a usarla, fendendo l’aria e la schiena dell’animale con la lingua ruvida di pelle intrecciata.
«Non posso...» aveva piagnucolato Florin, come un coniglio braccato nella sua tana e tirato fuori per le orecchie.
Dio, che parole poteva trovare per spiegare a quella donna dalle unghie rosse che la m non poteva scendere sulla carta, di fianco alle altre lettere, perché ce l’aveva legata al cuore con una promessa inviolabile, un giuramento che gli pulsava nel petto e lo aiutava a respirare, nei giorni in cui la malinconia si faceva cappio spietato e minacciava di strappargli via l’anima.
«Dove sei arrivato, tesoro, con l’alfabeto?» gli aveva chiesto sua madre il giorno in cui, pensierosa, stava piegando le cose da mettere in valigia.
«Alla f» le aveva risposto svogliato.
«La f? Ma tu guarda!» aveva esclamato lei smettendo per un attimo di impacchettare e abbracciandolo.
«F come fiore, f come farfalla; f come Florin, dolce farfallina della mamma...» l’aveva vezzeggiato lei, baciandogli la testa. A Florin non stava molto simpatica la f, contorta e scivolosa come una strada di campagna, ma la voce di sua madre gliel’aveva mostrata di colpo sotto una luce diversa, e da quel giorno le era affezionato, come se qualcuno l’avesse messa, lì nell’alfabeto solo perché lui potesse scrivere il suo nome!
Avevano giocato a lungo, passandosi il pennino dall’uno all’altra e disegnando, sul foglio, ogni sorta di animale al posto delle lettere più bizzarre, quelle che gli davano del filo da torcere.
Poi il loro tempo era finito, come il filo del fusto della nonna, e la mano di sua madre si era staccata dal pennino per attaccarsi alla maniglia della valigia, lasciandolo con l’alfabeto zoppicante a metà pagina, come un animale raggiunto da una freccia avvelenata.
Florin aveva sentito un groppo in gola e aveva stretto forte il pennino nel pugno, sbattendo le palpebre per non piangere. Era arrivata l’ora di quel viaggio lungo, che temeva più del buio in cantina.
«Vieni a dare un bacio alla mamma, Florin!» l’aveva esortato a lei con la sua voce vellutata, «tornerò presto, te lo prometto!»
Lui aveva annuito senza alzare lo sguardo: d’un tratto la testa gli si era fatta di piombo e i pensieri, buoi dalle zampe legate, inciampavano l’uno nell’altro.
«Sai una cosa?» aveva proseguito sua madre, cercando un modo per lenire il dolore della separazione.
«Conserva una lettera per me – m, come mamma – e quando tornerò, la scriveremo insieme dove vorrai tu: sul  quaderno, sulle  pareti,  sull’asfalto,  persino  sulla Bibbia della nonna! Ci divertiremo un mondo! Ma non dirlo a nessuno, è il nostro segreto. Va bene, Fiorellino di mamma?» e, tremando, l’aveva quasi soffocato in un lungo abbraccio, stringendolo così forte da fargli credere di sbriciolarlo per farlo passare attraverso la sua pelle, là, nel petto, e portarlo con sé di nascosto.
«Va bene, mamma...» aveva risposto lui, e mentre la donna varcava la soglia, confusa e sconvolta, la lettera m era rimasta agganciata al pennino con gli artigli di un pipistrello spaventato, e Florin ci aveva steso la carta assorbente sotto la goccia d’inchiostro, asciugandola con cura, come fosse stata una lacrima.
Altre lettere sarebbero scese dal suo pennino ubbidiente, legandosi l’una all’altra, simili a dei bambini che si tenevano per mano, e formando ogni sorta di parole misteriose. Ma la m no, nessuno poteva chiedergli questo.
Non gli importava niente delle sue parole zoppe, lu-ino, al posto di lumino, oppure pri-avera, anziché primavera, che calligrafava con una dedizione quasi religiosa, per paura che gli sfuggisse, per sbaglio, qualche codino della lettera m.
«Che ne sa lei!» rispose, infine, alla maestra, che si era fatta insistente in un modo fastidioso e il cui profumo gli conficcava un sapore amaro in gola. «Mi lasci  in pace» aggiunse, con voce sussurrata, piegato sul quaderno con un gesto protettivo, per paura che la donna potesse infilare con la forza qualche lettera negli spazi lasciati bianchi. «Fra poco la mamma tornerà, e allora metteremo tutte le m ai loro posti...»

Suonò la campanella. Con il gesto di chi ne ha abbastanza, la signora Maricica  rinunciò  a sprecare altro tempo con lui e si affrettò a ritirare il registro. Tra grida e spintoni, i suoi compagni si dispersero verso l’uscita come pernici fuggite dalla gabbia, felici che un altro giorno di scuola si era concluso, mentre la luce tenue del pomeriggio disegnava sulla parete della scuola, con una mano tenera e sicura, il profilo di un ragazzino testardo e di un pennino gravido di una lettera misteriosa, come un sigillo sacro su una preghiera non detta.



(n. 5, maggio 2014, anno IV)