«La mia protesta verso Dio è una preghiera sincera e fedele». Intervista ad Ana Blandiana

In occasione della IX edizione del Festival letterario «Incroci di civiltà», tenutosi a Venezia dal 30 marzo al 2 aprile scorsi, la poetessa Ana Blandiana, una delle più grandi voci della poesia europea contemporanea, ha rilasciato a Cristina Gogianu l’intervista che qui pubblichiamo. 

«Incroci di civiltà» è il titolo del Festival cui Lei è stata invitata a partecipare in una città come Venezia che vive di incontri e intersezioni fra diverse culture. Ma considerando l’attuale panorama mondiale, non si dovrebbe parlare piuttosto di scontri di civiltà, parafrasando il titolo di un noto libro di Samuel Huntington?

Penso che il progetto della mondializzazione e del multiculturalismo non abbia presupposto all’inizio né l’incrocio delle civiltà, né un loro scontro, ma una loro fusione in un amalgama comune, di un colore indefinito e con lineamenti difficili da cogliere in prospettiva temporale. Un ottimismo, in grande misura irresponsabile, che non ha preso in considerazione il fatto che un tale miscuglio, programmato senza consultare le due parti, può generare uno scontro. E, a dispetto di tutte le buone intenzioni, sembra che oggi non ci si trovi molto lontani da ciò.

A fronte della grande complessità del nostro tempo, quale ruolo riveste ancora la letteratura, e in particolare la poesia?

Dostoevskij diceva che «la bellezza salverà il mondo». Speriamo che abbia ragione. In ogni caso è certo che solo un ritorno dalla materialità eccessiva ed esclusiva, che caratterizza la nostra società dei consumi, ai valori della cultura e della spiritualità costituirà la nostra salvezza. In questo senso, il numero sempre più fiorente di festival di poesia e le sale piene di gente accorsa qui per ascoltare poeti giunti da ogni angolo del mondo sono un buon segno. Credo che l’essere umano sia stanco dell’equazione secondo la quale si deve lavorare sempre di più per guadagnare sempre di più, per consumare sempre di più, finendo poi per dover seguire una dieta perché si è mangiato troppo, e così via. Come sempre un buon segno è anche il fatto che – in Romania, almeno – continuano a salire alla ribalta tanti giovani poeti, che pubblicano con grande difficoltà e spesso pagando di tasca propria la pubblicazione dei loro libri, ma che continuano a scrivere nonostante tutto, dedicandosi a un destino senza nessuna probabilità di successo in termini economici.

La poesia è considerata bene comune e valore universale da tutte le civiltà, indipendentemente dal tempo e dallo spazio. In tal senso, potrebbe assumere un ruolo di mediazione per riunirci attorno allo stesso tavolo, oppure lo spazio pubblico è già reso irrespirabile dal discorso politico?

Alcuni anni fa, all’inizio del ventunesimo secolo, è nata a Verona, sotto il patrocinio dell’Unesco, un’Accademia Mondiale della Poesia, che conta fra i suoi membri fondatori, 60 poeti di altrettanti 60 Paesi. Io ero una di loro e sono stata veramente commossa dal discorso inaugurale, in cui si affermava che scopo dell’organizzazione era quello di contribuire alla salvezza del mondo attraverso la poesia. L’assemblea fondatrice era stata generosamente sponsorizzata dal Comune della città di Romeo e Giulietta, e sono stati proposti straordinari progetti grazie al futuro contributo di tutti gli Stati membri dell’Unesco. Sfortunatamente, questo contributo economico non è mai arrivato, e la riunione di Verona è rimasta solo come l’inizio di un bel sogno che non si è più realizzato.

«I poeti non sono gli artefici del mondo su cui transitano. Se fosse stato creato dai poeti, il mondo avrebbe avuto tutt’altro aspetto». Così Lei ha detto recentemente, in occasione del conferimento del titolo di Doctor honoris causa da parte dell’Università Babeș-Bolyai di Cluj. Quale aspetto avrebbe un mondo così? Glielo chiedo pensando anche a come si presenta oggi il mondo delle lettere...

Quando dico «i poeti» non penso alle varie organizzazioni letterarie, con le loro lotte per il potere – che neanche esiste in realtà – con le loro invidie, i loro antagonismi e interessi, per nulla più degni di quelli politici. Del resto, di tali organizzazioni i grandi poeti e gli scrittori più importanti o ne fanno parte solo formalmente o non ne fanno proprio parte: sono sufficienti a sé stessi, e comunque hanno tempo solo per l’ossessione della propria creazione. In queste diatribe si lasciano trascinare solo coloro che sperano che le vittorie in questo campo possano compensare la mancanza di sicurezza e di fiducia nel valore della propria opera. Quando dico «i poeti» penso a una categoria ideale, quella capace di salvare il mondo attraverso la bellezza. Una categoria che non è composta da persone, nemmeno da personalità, ma da aureole attraverso le quali viene trasfigurata la realtà. Ho detto, e ne sono sicura, che il mondo creato da loro avrebbe tutt’altro aspetto, ma non so come sarebbe, né se i poeti sarebbero veramente capaci di crearne un altro.

Lo scorso anno è stato tradotto e pubblicato in Italia il suo volume di poesie che porta il titolo La mia patria A4. Una poesia con un evidente discorso religioso – anzi mistico, come hanno sottolineato alcuni – ma trattato in chiave eretica, come Lei stessa ha affermato. In che cosa consiste questa sua «eresia»?

La mia «eresia» sta nel fatto che mi rivolgo a Dio come a un essere alla pari, senza alcuna esitazione a muovergli rimproveri o a mettere in rilievo le sue contraddizioni. Ma tutti questi gesti sono prove di fedeltà più forti di qualsiasi pia preghiera, rappresentano un segno quasi violento della mia certezza. Goya vestiva i suoi angeli di vestiti frivoli con crinolina, mentre i pittori dei monasteri di Bucovina dipingevano la Vergine Madre con indosso le ie, le tipiche camicie contadine romene. Io parlo a Dio come se fosse vestito in jeans o in giacca e cravatta, un Dio non solo eterno, ma altrettanto contemporaneo quanto me. 

In che misura questo approccio «eretico» è influenzato dal paradosso del nostro mondo, testimone allo stesso tempo di un profondo processo di laicizzazione, ma anche di un'ondata di fanatismo religioso?

Questa mia fede non ha nulla a che fare con la secolarizzazione, che suppone una forma di distacco da Dio, mentre la mia «eresia» rappresenta, al contrario, una forma di riavvicinamento, di familiarità. Per ciò che concerne la coesistenza della secolarizzazione accanto al fanatismo religioso di tipo medioevale, non si tratta tanto del paradosso di un mondo, ma di due mondi diversi e opposti, il cui incontro assume forme sempre più inquietanti.

Sempre a proposito di questa sua ultima raccolta di versi, come è stata accolta dal pubblico italiano e, in particolare, da quello veneziano, venuto ad ascoltarla e a conoscerla di persona?

Di questo volume ho letto alcune poesie anche l’estate scorsa al Festival letterario di Sardegna, a Gavoi, e naturalmente anche qui a Venezia. Il sentimento che ho provato è stato quello di una inconsueta comunicazione: avevo quasi l’impressione di vedere le parole che scivolavano via da me planando verso coloro che mi ascoltavano, pendenti dalle mie labbra in uno stato di concentrazione così intenso da sembrare quasi miracoloso. D’altronde, gli organizzatori dell’Ateneo Veneto (in collaborazione con l’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia) mi hanno confidato di non aver mai assistito a una lettura eseguita in quel modo e a una comunicazione così intensa fra l’autore e il suo pubblico. Il che, devo riconoscerlo, mi ha fatto molto piacere.

Non è la prima volta che Lei si trova a Venezia, ormai diventata anzi una città familiare. Quali le tappe di questo suo legame, a cominciare dai viaggi prima dell'89?

Sono stata più volte a Venezia, e i miei ricordi sono estremamente diversi fra di loro, a cominciare dai viaggi intrapresi in gioventù, quando i nostri primi passi, una volta scesi dal treno, ci indirizzavano verso l’Ente Nazionale del Turismo, dove chiedevamo la lista degli alberghi ordinati in base al prezzo, per poter scegliere l’ultimo, quello più economico. Lì lasciavamo i bagagli e ci preparavamo i panini con il salame ungherese portato da casa, per poi partire in tutta fretta verso i musei, che già conoscevamo a memoria prima ancora di averli visti e in cui passavamo tutta la giornata immersi in uno stato di beatitudine senza paragone. Quei viaggi sono stati i più belli, ne serbiamo ogni dettaglio, e venivano dedicati interamente alle bellezze della città che, dopo la chiusura dei musei, percorrevamo a piedi per tutta la notte, in una sorta di trance. In un’altra occasione, arrivando da Roma, dopo una notte intera passata a dormire sui sedili di un vagone di seconda classe, siamo scesi dal treno e, rimandando di dieci ore la partenza dall’Italia, abbiamo passeggiato tutta la giornata, stanchi ma felici, passando per strade e canali, visitando varie chiese e campi, il mercato del pesce e Piazza San Marco, facendo poi ritorno alla stazione all’ultimo momento e continuando il nostro viaggio nel sonno.
Successivamente, ci sono venuta per i festival di poesia. Ricordo un recital sul palcoscenico dell’Arsenale (che mi sembrava gigantesco, mentre io morivo per l’emozione aspettando il mio turno per la lettura delle poesie) o la Biennale di circa dieci anni fa, quando l’architetto Marco Rotelli ha costruito una piramide composta con i versi (scritti con tubi al neon) di 12 poeti di ogni tempo scelti da lui – fra i quali cercavo commossa i miei – che illuminava la notte, mentre dalla sera fino all’alba leggevamo versi nei campi o sui ponti, nei parchi e davanti a delle statue, di fronte a un pubblico quasi sonnambulo che ascoltava felice quei versi che in realtà non capiva, versi in tutte le lingue del mondo. In quelle occasioni, però, Venezia era soltanto lo scenario meraviglioso di quegli eventi a cui non assistevo più come semplice spettatore, ma da protagonista, fatto che mi negava quella gioia limpida della contemplazione.

Come ritrova Venezia oggi, sotto il diluvio di turisti da tutto il mondo?

Questo diluvio di turisti c’è da sempre, ma con il tempo ho scoperto affascinata, deviando dai consueti percorsi, quartieri veneziani abitati dai veri veneziani, quasi un mondo parallelo per il quale i miracoli artistici della Laguna sono semplicemente un posto di lavoro e un modo di vita, una vita semplice, popolare, tradizionale, con una incantevole durevolezza.

Lei viaggia molto e in molti Paesi, spesso per eventi letterari. Cosa rappresenta per Lei viaggiare?

Prima – cioè prima dell’’89, ma anche prima di essere invitata, conosciuta, coinvolta in vari programmi e doveri – i viaggi erano semplicemente dei miracoli. Miracoli perché supponevano il rilascio di un visto (parlo, ovviamente, solo di quel periodo del fuggente disgelo politico fra il 1968 e il 1972), ma soprattutto miracoli della scoperta del mondo, che guardavo con il sentimento che non l’avrei più rivisto, perché i miracoli sono irripetibili, mentre i visti erano sempre improbabili. Adesso, i viaggi sono programmi calcolati rigorosamente fra due voli, programmi all’interno dei quali molte volte non ho tempo di vedere niente, perché sono troppo emozionata e preoccupata da quello che dovrò dire o dalla gente con cui mi incontrerò. Senza dubbio, la beatitudine della contemplazione è una nozione che sta sparendo dal nostro mondo oppure dalla nostra vita di adulti incurabili.
Quando ho la fortuna di poter sottrarmi a questo meccanismo e di poter guardare intorno a me – così come è successo durante questa mia ultima visita veneziana – provo un sentimento di vera gratitudine: qui, ho avuto l’opportunità di soggiornare in un albergo ricavato all’interno di un vecchio monastero e ho avuto il tempo di godere della quiete del chiostro con i suoi ciliegi in fiore, pieno di tulipani, di giacinti e di nontiscordardimé, il che mi ha creato all’improvviso la sensazione di essere uscita, senza rendermene conto, dal tempo, di aver ricevuto in dono una splendida giornata di una gioventù che non era solo la mia, ma anche dell’intera umanità.                        




Intervista realizzata e tradotta da Cristina Gogianu
(n. 6, giugno 2016, anno VI)