Cesare De Michelis: «Senza ideologie, ma in piena crisi morale. Quel che Berto capì a fondo»

In occasione del centenario della nascita di Giuseppe Berto, l'editrice romena Humanitas ha pubblicato, nella traduzione di Smaranda Bratu Elian, il romanzo più noto dello scrittore veneto: Il male oscuro. Il libro è stato presentato a Bucarest lo scorso 23 ottobre, con la partecipazione, fra gli altri, del professor Cesare De Michelis, presidente della Fondazione Giuseppe Berto e direttore di Marsilio Editori, che abbiamo intervistato. Oltre all'attualità di Berto, la prestigiosa competenza dell'intervistato ha reso per così dire temi obbligati anche i processi storici che hanno interessato negli ultimi decenni l'editoria italiana e le vicissitudini culturali dello specifico contesto.

Professor De Michelis, negli ultimi decenni il mondo editoriale è stato interessato, come quasi tutti i campi dell’attività umana, da evidenti cambiamenti, se non proprio mutazioni come alcuni sostengono. Lei ha vissuto di persona questo arco storico: come si presentava l’ambiente editoriale italiano (ma non solo) all’inizio degli anni ’60 e come lo trova oggi?

La vita culturale in genere, e quella dell’editoria in particolare degli anni ’60, era dominata dal conflitto ideologico: una sorte di guerra fredda della cultura. Nel frattempo però abbiamo fatto la pace e questa rappresenta una buona notizia. Non siamo più dominati dalle ideologie, ragioniamo di più con la nostra testa, con la nostra pancia, con i nostri sentimenti, siamo più liberi nell’accostare realtà diverse, nell’interpretarle, nello scrivere giudizi che non sono necessariamente una conseguenza di una scelta originaria, ma rappresentano la verbalizzazione di un’emozione che stiamo direttamente vivendo. E da questo punto di vista è sicuramente un cambiamento positivo.
Invece, l’elemento negativo, che tutti quanti stiamo riconoscendo, è da trovare nella crisi economica, nella crisi politica e piuttosto nella crisi morale che stiamo vivendo, essendo queste le testimonianze più immediate. Le ideologie avevano costruito delle gabbie, che da un lato ci rendevano prigionieri ma dall’altro tenevano in piedi il mondo, riuscendo comunque a creare l’idea che tu mettevi un altro mattone e andavi avanti. C’era insomma un ordine rispetto al quale potevi fare delle correzioni, ma l’insieme stava in piedi. E c’era una linea di condotta – vero poi che si trattava della linea dei partiti politici, dei movimenti rivoluzionari.

Fin qui il passato. E come si presenta l'attuale scenario culturale?

Essendo liberi da quanto ho sopra segnalato, ora dovremmo, teoricamente, ricostruire da capo dei modelli, il che è molto difficile. In questo contesto, è allora molto forteil sentimento di perdersi, di vivere in una sorte di buio perenne, di notte o comunque di nebbia. Io credo che dobbiamo innanzitutto capire che ciò che è caduto è caduto: non possiamo tornare indietro, al passato, bensì dobbiamo fare uno sforzo molto più coraggioso per capire la strada che abbiamo percorso, che cosa abbiamo attraversato, e per poter comprendere perché sono state buttate via anche realtà che a noi sembrano preziose, al fine di decidere come gestire il futuro.

In un’intervista, Lei ha dichiarato che «la letteratura non è un fatto formale, ma fondamentalmente un linguaggio morale». Trovo molto interessante questo suo modo di vedere, viste le molte voci della critica che parlano della letteratura come di un processo amorale. Può riprendere questo suo pensiero?

Quando, all’inizio del Novecento, è cresciuta l’insofferenza nei confronti di un vecchio mondo, che sembrava di impedirci di correre avanti, e quando la leggenda delle avanguardie, delle rivoluzioni ci raccontava che solo lì, all’orizzonte si trovavano tutte le cose più belle del mondo e che, quindi, star fermi voleva dire perderle o comunque allontanarle nel tempo, il compito della letteratura non sembrò più quello di rispecchiare il nostro rapporto con la realtà, con gli altri individui, con le cose, ma sembrava quello di accelerare la corsa. Dunque, si immaginò che inventando nuovi stili, nuove forme, la letteratura sarebbe stata capace di correre più velocemente e di raggiungere prima questo paese meraviglioso, questo scenario, questo paradiso terreno che ci aspettava. Così, abbiamo corso, abbiamo fatto la rivoluzione, le due grandi guerre, abbiamo sperimentato tutte le innovazioni possibili nelle arti e anche nella letteratura, e questo mondo bellissimo non si vede ancora. È sempre al di là. Allora, è venuto un dubbio: che sia davvero così importante correre o che la vita, quella vera, sia proprio questo percorso che parte da qui e va, ma non si sa dove di preciso, avendo comunque una direzione. Se questa ipotesi è più vera della prima, non conta più se l’individuo è vecchio, se è veloce o svelto, ma conta se sei bene o sei male, quindi se in questo percorso facciamo del bene o del male.

Se l'etica è così centrale, come comprendere tutte le tragedie accadute nel corso del Novecento?

Sfortunatamente, soprattutto nel Novecento, noi abbiamo dovuto assistere a una quantità di male universale mostruosa, dalla bomba atomica al genocidio e ai totalitarismi. Si tratta di cose che, quando ci voltiamo indietro e guardiamo la storia – storia che io ho soltanto sfiorato, ma Berto no, l’ha vissuta in mezzo – ci fanno rendere conto che abbiamo fatto tutto ciò che non dovevamo. Allora, forse la letteratura non serve a correre (tanto correre non serve più a nessuno) perché alla fine si finisce più facilmente in un buco che in un paradiso: come dice l’esperienza, si finisce più facilmente ad Auschwitz o a Nagasaki che nel paese meraviglioso. Come si fa, quindi, ad essere persone per bene vivendo in un mondo complicatissimo come il nostro, dove ci sono automobili che corrono cento chilometri all’ora, aeroplani che possono sganciare in ogni momento bombe? Tutto quello che abbiamo vissuto si potrebbe ripetere moltiplicato per due, tre, quattro e la capacità dell’uomo di inventare nuove perfidie, cattiverie è sconfinata. Bisogna ritornare a confrontarsi con le possibilità che disponiamo per fermare il male.

Siamo così arrivati a Giuseppe Berto. Cent’anni di solitudine è il titolo del famoso romanzo di Marquez, come pure il titolo dell’incontro torinese dedicato lo scorso maggio a Berto. In che modo si somigliano queste due solitudini? E come si caratterizzerebbe la solitudine dello scrittore italiano?

Berto, prima di tutti gli altri, si è reso conto che la questione della letteratura era fondamentalmente morale e criticava i lettori, i critici, gli altri scrittori che pensavano che non fosse vero. Questo lo rendeva solo. Oggi, a cento anni dalla sua nascita, a cinquanta dal suo Il male oscuro e a trentacinque anni dalla sua morte, finalmente cominciamo a capire che Berto era più avanti rispetto al suo tempo. Questo è il senso che io volevo proporre a Torino e che vorrei riprendere qui. Berto ha visto più lontano degli altri, ha visto più a fondo degli altri, e forse ha visto più a fondo perché si è reso conto, quando era solo un ragazzo, che nella guerra non ci sono dei vincitori e dei vinti, non c’è un buono e un cattivo, ma tutti sono cattivi, e questa è già una bella scoperta. E ancora di più, nella vita di tutti i giorni: il dolore della nevrosi, la paura della nevrosi, il male di vivere, il male oscuro, non rappresentano una cosa per cui prendi una pillola, un’influenza che passa, ma qualcosa con cui devi combattere tutti i giorni. E per far questo tutti i giorni, è necessaria una grande forza morale.

Come si può avvicinare il lettore romeno al romanzo di Giuseppe Berto?

La Romania ha vissuto cinquant’anni di comunismo, così come Italia ha vissuto il suo ventennio fascista. Un lettore di oggi che si interessa della storia del Novecento, senza che gli si parli di fascismo o comunismo, dovrebbe essere aiutato a capire che cose importanti anche nella sua vita sono stati non il fascismo o il comunismo, ma il bene ed il male. E le scelte che ciascuno di noi ha fatto volendo bene ai suoi figli, a sua moglie, ai suoi amici, ai suoi compagni, o non volendo loro bene, tradendoli, compiendo cattiverie.

La depressione è considerata il grande male della contemporaneità e questo fa sembrare il romanzo di Giuseppe Berto più attuale che alla sua pubblicazione. Come ci aiuta la letteratura a conoscere meglio questo «male oscuro»?

Giuseppe Berto lo spiega benissimo. Da un lato c’è un male, un dottore che vai a trovare e che ti aiuta: ti dà la pillola, ti dice di fare determinate cose, ti dà dei consigli. Ma c’è una realtà che è prima del dottore, prima di noi: l’individuo è una figura che nasce con una colpa, il famoso peccato originale. Non c'è un buono e un cattivo, perché tutte le persone portano già dentro di loro il peccato.

Ma gli uomini possono diventare cattivi oppure buoni.

Gli uomini possono combattere il male per loro scelta, ma combattendo il male non si diventa una persona buona, non si diventa un santo, non si va in Paradiso. L’unico modo che ha l’uomo per vivere con dignità il proprio pezzo di strada su questo mondo è sapere che commetterà degli errori, ed essere attento tutti i giorni a farne il meno possibile.



Intervista realizzata da Cristina Gogianu
(n. 11, novembre 2014, anno IV)