La guerra e il corpo. Intervista a Daniela Zeca-Buzura sul libro di Paolo Giordano

«È sorprendente come Giordano, a poco più di trent’anni, dopo un primo romanzo in cui sembrava aver già tracciato la sua impronta come scrittore, rovesci completamente il suo modo di fare letteratura. Dopo questo secondo romanzo si arriva a capire come nella guerra siamo soltanto corpo, come nella vita civile rischiamo di essere soltanto sguardo (perché siamo trasportati interamente in un mondo digitale virtuale), e questa segregazione estremamente frustrante e pericolosa a lungo termine ci definisce come frammenti, come pezzi e non come un intero. Grande tema di riflessione per chi riesce a intravederlo fra le righe».
Daniela Zeca-Buzura – narratrice, saggista, critico letterario e realizzatrice di trasmissioni radiotelevisive in Romania – propone un’ampia analisi del romanzo di Paolo Giordano, Il corpo umano, tradotto in romeno e pubblicato alla fine del 2014 dalla Casa Editrice Humanitas nell’eccellente traduzione di Vlad Russo, quale occasione per più ampie considerazioni sul tema della guerra e del rapporto che con essa ha la letteratura. Con un ammonimento: non esiste solo la guerra combattuta, ma anche «la guerra assente che fa morti, rovina corpi, sfigura vite. Infatti, è questo il nuovo paradosso che continuerà a produrre letteratura e di fronte al quale dovremmo cercare, attraverso la letteratura, le verità della storia: l’assenza di una guerra il cui soffio ci tocca all’improvviso e ci porta in situazioni come quella di Charlie Hebdo».


Nel romanzo di Paolo Giordano, Il corpo umano, uno degli elementi più evidenti e insieme più criptici è proprio il titolo: sembra non tradire la tematica del romanzo, creando un certo tipo di attesa nel lettore.

Propendo a credere che proprio questo abbia desiderato anche Giordano, cioè indurre una pista di falsa ricezione, immediatamente emendata, perché dopo le prime 25 pagine la tematica si delinea in tutta la sua complessità. Però, anche se l’autore fa tornare gli aghi della bussola apparentemente in un’altra direzione, il corpo umano è a sua volta un personaggio. Penso addirittura che il vero protagonista, il tutore di queste pagine estremamente forti sia il corpo umano. Giordano poteva scegliere un titolo molto più ʻcommercialeʼ che riguardasse direttamente la guerra oppure l’Afghanistan – una tattica grazie alla quale molti hanno fatto fortuna, sono apparsi sulla prima pagina dei giornali ostentando questi argomenti tanto di moda: l’Afghanistan, l’Iraq, mentre il nostro autore sceglie di nominarlo in maniera molto neutra – Il corpo umano – quasi come un trattato di anatomia.

E così adotta solo un apparente tono neutrale: una scelta letteraria, ma non solo, veramente ispirata. Il corpo umano, così come si esibisce in un campo di guerra, raccoglie tutti gli altri argomenti della fragilità umana.

Appunto questo sta facendo l’autore italiano: convoca tanti argomenti, così che ad un certo punto ci si domanda come riuscirà a cavarsela. Dunque, lui mette tutto in ordine perché, nonostante il chiamare ai nastri di partenza sia categorico, il risolvere si gestisce attraverso un’unica lente, cioè quella di una profonda compressione del labirinto umano la cui prima ed originaria espressione è il corpo. Alcuni rimangono solo a questo punto, i soldati rimangono spesso solamente a questo livello: tutti i loro dilemmi metafisici, oppure nient’altro che le sensazioni di nausea perché hanno mangiato un vitello contagiato, tendono a fermarsi soltanto a questo livello, salgono difficilmente e solo occasionalmente ad un piano superiore dal quale si comincia a problematizzare. Non perché non avessero l’organo necessario, ma perché la paura e il riflesso della guerra non permettono il respiro per qualcosa di più.

Paolo Giordano arriva in Afghanistan come reporter, ma conclude quest’esperienza scrivendo un romanzo, producendo così probabilmente un rovesciamento del proprio orizzonte di attesa.

Così come anche le stesse aspettative del lettore sono sventate. Non ero nemmeno arrivata alla metà del romanzo ed ero convinta che Giordano fosse un medico. Sapevo vagamente che fosse uno studioso di fisica e quando ho letto La solitudine dei numeri primi, ho finito per associarlo a Houellebecq, solamente perché al centro c’erano le particole elementari che li collegano, l’uno attraverso la finzione, l’altro grazie al suo mestiere. Quando ho saputo che non era medico, ho pensato – continuando a leggere – che potesse essere militare, ma non è nemmeno militare.
È sorprendente come Giordano, a poco più di trent’anni, dopo un primo romanzo in cui sembrava aver già tracciato la sua impronta come scrittore, rovescia completamente il suo modo di fare letteratura. Dopo questo secondo romanzo si arriva a capire come nella guerra siamo soltanto corpo, come nella vita civile rischiamo di essere soltanto sguardo (perché siamo trasportati interamente in un mondo digitale virtuale), e questa segregazione estremamente frustrante e pericolosa a lungo termine ci definisce come frammenti, come pezzi e non come un intero, ciò che rappresenta un ampio tema di riflessione per chi riesce a intravvederlo fra le righe.

Abbiamo, quindi, due definizioni in negativo di Paolo Giordano: non è né medico, né militare di professione. Chi e come è allora lo scrittore Giordano?

Ritengo Giordano un ottimo scrittore dell’alterità (aspetto che mi è piaciuto tantissimo in Il corpo umano). Non so se lui l’abbia voluto oppure no. Credo che Giordano – come anch’io in un certo senso, se posso azzardare un paragone, proportion gardée – demolisce questo mito secondo cui, in un mondo globale, non si può più scrivere che di quello che si conosce al meglio. Lui non è un medico, nemmeno un militare, va per una sola volta su un fronte ibrido, eppure scrive come un esperto. È così edificante il modo in cui lui – un reporter sperimentato, che all’insaputa possiede anche qualità letterarie – guarda un campo di soldati professionisti e osserva come questi non capiscono che in realtà si trovano nell'interstizio tra due civiltà. Nemmeno la loro professione, di gente con le armi in mano che si è scelta questa vocazione, questo esercizio, non lascia loro più né il tempo, né la disposizione per capire un’altra cultura. Sebbene abbiano accessi di compassione, di paura, tutte quelle brevi formule che usano, che sono come delle infusioni di acqua nel testo – «Sono una nazione di sudici, sono dei barbari, puzzano, anche i bambini puzzano, noi li dobbiamo civilizzare» – non rappresentano niente altro che la corrente generale, il cliché occidentale della profonda incomprensione fra l’Oriente e l’Occidente. Non solo non cerchiamo né le differenze, né i punti di convergenza, ma ʻinghiottiamoʼ immediatamente delle ottiche a portata di mano, che operano classifiche del tipo: gli arabi sono sporchi, mafiosi, terroristi, invece gli americani sono i migliori genisti e militari, ma anche i liberatori ed i guardiani dell’ordine mondiale e così via. Tutti questi sono piccoli pezzi di un puzzle molto fragile che, se guardato dal fondo verso la superficie, s’incrina immediatamente. E Giordano vede questo enorme flagello.

In che misura l’esperienza di guerra di Paolo Giordano in Afghanistan diventa una chiave di lettura del corpo umano che si trova in una situazione limite, esemplare? Oppure le cose stanno piuttosto al contrario, cioè il corpo umano diventa una nuova chiave di lettura per la guerra?

La seduzione e la riuscita letteraria sono ancora più grandi in quanto Giordano ha capito, da osservatore esterno all’esercito, alla medicina oppure a qualsiasi altra patologia, il principale obiettivo delle guerre attuali la cui natura è bicefala: sono mediatiche ed ibride. Mediatiche, perché in gran parte si fanno per l’immagine: dell’esercito, della nazione, per esaltazioni che sono postmoderne e che riguardano i territori, le etichette, le identità intercambiabili. Ibride perché sono una sorta di guerra in tempi di pace. C’è nel romanzo un brano ammirevole in cui Giordano dice che «non la potete piantare la baionetta nelle budella di quei talebani, fatevene una ragione. Il nemico non lo vedi più, non c’è», mentre il subcapitolo da dove mi ricordo questo frammento è conclusivo perché s’intitola, in modo esemplare, Guardare, guardare e guardare ancora. Sono, dunque, guerre di immagine, del visuale, e soltanto dietro a questa crosta si nasconde il dramma, che è quello del corpo, nemmeno della mente. Sono guerre molto personalizzate.

Siamo a 70 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, un periodo breve per la storia ma piuttosto lungo per la memoria umana. Tra non molto sarà trascorso un secolo dalla fine della Prima Guerra. Parliamo dei vari campi di guerra, ma in che misura abbiamo ancora la memoria della guerra in Occidente?

Credo che non ce l’abbiamo più, e questa rappresenta una convinzione che mi sono formata come giornalista, non come scrittrice. Per commemorare in Romania, in un’analisi televisiva, un secolo dalla Prima Guerra Mondiale, ho percorso l’ammirevole libro di Margaret McMillan, un trattato quasi romanzesco dal punto di vista dei dettagli e dell’acutezza, che s’intitola La guerra che ha posto fine alla pace (in originale: The War that Ended Peace) e che mette all’indice ferite poco rimarginate. Non abbiamo imparato niente da una tragedia che ha cambiato interamente la vitalità dell’Europa dopo quasi cinquant’anni di relazioni internazionali – tranne piccoli conflitti militari –, di pacifismo florido e di ponti dell’alterità, che appena si stavano creando fra l’America e l’Europa, fra i Paesi europei. Di recente, tutta questa guerra è considerata, non solo da questa autrice, ma anche da tanti altri, una guerra azzardata, sfuggita di mano ad alcuni leader del momento e che al livello mondiale ha prodotto una fiamma sorprendente che non si è mai potuto spegnere veramente.

In questo senso, a soli vent’ani dalla Prima scoppia la Seconda Guerra Mondiale, seguita poi dalla Guerra fredda e da molti altri conflitti, non solo in Europa, per arrivare all’Ucraina d’oggi...

In ordine alla comprensione del mondo, tendo a credere che dal 2001-2003 in poi, ma forse anche da prima, dall’episodio di Sarajevo in poi, comunque dalla fine del secolo, gli scrittori fanno di più degli strateghi stessi per la pace del mondo. Un romanzo come quello di Giordano mostra e dice più di un discorso di Obama. Per esempio, l’interventismo americano, così come appare anche in questo romanzo, rende salubre quel territorio, ma non cura in nessun modo. Uno dei personaggi dice, appunto: «Noi ce ne andremo e il disordine sarà lo stesso, però almeno puliamo il luogo». Ma questo gesto non rappresenta nemmeno un palliativo, è soltanto un ordine di momento, come la prima neve che cade. Ci sono più voci molto forti della narrativa americana ed europea che lo affermano con convinzione, ma la questione è quanto vogliamo ascoltarlo.

Lei stava parlando dell’alterità come argomento di profondità nel romanzo di Giordano. Direttamente collegata ad essa è anche la presenza del corpo femminile in un campo di guerra, come particolarità del corpo umano, anche se nel romanzo c’è un’unica presenza femminile meglio delineata.

Non credo che l’autore abbia voluto che ce ne fossero di più, perché questa Zampieri ha una funzione metonimica, raccoglie tutta l’attrazione, ma anche tutto il ripudio dei suoi compagni. È una donna in un mondo di uomini, che cerca di essere come loro, oscillando fra la propria femminilità e il suo impegno con l’esercito. Un personaggio visto attraverso tutti gli altri, ammirevole, che si definisce prima di tutto attraverso lo sguardo degli altri uomini, dal suo comandante che si arrabbia con lei quando non ce la fa a caricare la mitragliera, fino a quel novizio quasi imberbe che si lascia sedurre dalla sua vicinanza e finisce per innamorarsi di lei, che viene sempre accompagnata dalla battuta sconcertante di uno dei suoi colleghi: qualsiasi donna che si arruola ha un tocco nel cervello.

Dall’altra parte, questa presenza femminile può essere interpretata anche come una forma di critica a un femminismo esagerato, perché alla fine Zampieri subisce i limiti del proprio corpo. Con tutta questa effervescenza di una sempre cercata uguaglianza fra i due generi, Giordano viene a sottolineare con garbo l’impossibilità di una perfetta uguaglianza.

Anch’io la vedo come un personaggio di contrappunto questa donna-soldato, e questo contrappunto crea spazi ammirevoli dal punto di vista letterario, perché lei s’ingegna per premere come un uomo sulla mitragliera, mentre di notte, quando fa la guardia, piange come qualsiasi donna dicendo «Mi ha chiamata signorina», episodio che mostra una comprensione della realtà e del corpo – per rimanere sullo stesso registro – che, onestamente, forse sempre a causa di un cliché, non mi aspettavo e sono stata piacevolmente sorpresa di trovarla in uno scrittore maschio di poco più di trent’anni.

Sempre collegato al corpo umano e alla sua esperienza in tempo di guerra è anche il disturbo post-traumatico. Da dove questa difficoltà nel riconoscerlo come tale, o perché quando capita di essere riconosciuto non c’è nessun ammalato registrato, come accade nell’esercito romeno? Paolo Giordano descrive i traumi che i soldati subiscono anche dopo un contatto iniziale con la guerra, così come succede dopo la prima notte di attacco, quando uno di loro, alla fine dell’allarme, non vuole più uscire dal rifugio sotterraneo.

Ammirevole e piena di comprensione quella scena, così come è anche quella della danza intorno al serpente ucciso. È, infatti, una scappatoia umana, del corpo prima di tutto, spinta fino al grottesco: lì danzano dei corpi, non delle vite, non delle menti, ma corpi che arrivano a provocare l’altro a leccare il serpente, a toccarlo con la lingua per dire che sapore ha. Sono perizie anatomiche, organiche, prelievi di contatto, nei quali la mente ha una funzione periferica e attraverso cui un corpo spaventato reagisce. Questo aspetto mi è sembrato straordinario. Rappresenta, in un certo senso, una liberazione iniziale, però non sufficiente, da un possibile disturbo post-traumatico. Perché quei soldati che danzano come una tribù non ancora evoluta intorno a una cattura attaccata a un gancio, sono i potenziali o, qualche volta, i sicuri pazienti della guerra muta che cominciano a fare con loro stessi quando si trovano in licenza, quando ritornano alla vita personale, all’intimità.

Il romanzo si apre proprio con una scena di questo tipo: i momenti che avvengono dopo la fine della loro missione, quando i vecchi compagni d’armi non si cercano più l’un l’altro, anzi si evitano, alcuni hanno anche cambiato mestiere…

Lo fanno appunto per non dover parlare di un dolore comune, che non è mai stato chiarito proprio perché prima di tutto è stato sperimentato dal corpo e adesso ha il tempo necessario per emergere con forza. Ci sono traumi, drammi, incomprensioni che appartengono prima di tutto al corpo e quando la mente, che rappresenta un piano superiore, non li analizza sufficientemente, allora l’evitare, il ritirarsi rimangono le tattiche più sicure e a portata di mano.

In che misura Il corpo umano di Giordano fa eco, come un ponte nel tempo, a Il deserto dei tartari di Buzzati?

In una grande misura, ma non solo a Il deserto dei tartari, bensì anche a Addio alle armi e a molti altri romanzi che a causa delle congiunture, delle mode letterarie e mentali non hanno potuto dire tanto quanto ha potuto fare Giordano oggi. Non erano ancora arrivati alla saturazione mediatica, visuale, nella quale viviamo noi oggi, perciò questo romanzo è una risposta attraverso il tempo a certi gridi che sono rimasti soffocati, poiché i loro autori non facevano parte di un mondo così disposto a esprimere la disperazione e l’allarme. Credo che nella letteratura di buona qualità, che noi guardiamo sia come un patrimonio, sia come un seguito di cassetti chiusi, i libri – che hanno una loro vita oltre il pubblico e gli autori che li hanno prodotti – rispondano uno all’altro, creino una polifonia da cui, se fossimo più attenti, riceveremmo molte più risposte di quanto pensiamo.   

Lei condivide con Giordano due professioni di fede: quella di giornalista e quella di scrittore. Di fronte a un argomento come la guerra, il corpo umano in tempo di conflitto, quale dei due reagisce prima, lo scrittore o il giornalista? I filtri attraverso cui lei osserva la realtà si susseguono o sono così intrecciati che non si possono più staccare tra loro?

Qualche volta si battono fra loro e proprio da qui credo che venga anche il libro. Perché il giornalista guarda con una fredda lucidità, che è quella della mente, e con una velocità di reazione molto allenata che è sempre quella della mente, che appartiene a questa professione di dare l’informazione, di essere in attualità, di essere il primo, di non deviare dalla verità immediata. Una pratica che si capisce difficilmente, ma che una volta esercitata diventa come una seconda pelle. E, dopo questo esercizio così spartano, viene subito il soffio dello scrittore, che non è più quello della mente, ma delle viscere, delle emozioni, così come succede a Giordano: o della pancia, o dei mocci asciutti che la Zampieri pulisce a quel compagno molto giovane che si trova al suo primo incontro con il conflitto armato e con la storia. Allora, ciò che sembra siano due vasi comunicanti, lo scrittore e il giornalista, si afferrano qualche volta per la gola, specie quando al centro ci sono degli argomenti scottanti come la guerra oppure l’assenza della guerra, cioè la guerra assente che fa morti, rovina corpi, sfigura vite. Infatti, è questo il nuovo paradosso che continuerà a produrre letteratura e di fronte al quale dovremmo cercare, attraverso la letteratura, le verità della storia: l’assenza di una guerra il cui soffio ci tocca all’improvviso e ci porta in situazioni come quella di Charlie Hebdo, che spesso lascia impronte per tutta la vita.

E per portare avanti l’analogia, dopo il suo contatto diretto con l’Oriente, lei è uscita dall’alveo del giornalista per entrare in quello dello scrittore.

Non appena ho finito la Trilogia dell’Oriente ho provato due grandi soddisfazioni: quella di aver avuto la chance di ritornare alla letteratura dopo anni di silenzio – un grande rischio assunto – e, nella stessa misura, quella della fortuna che ho avuto, come autore e persona, di aver potuto attraversare nella loro profondità alcune esperienze che per me non sono state affatto turistiche, ma, senza nessuna enfasi, veramente iniziatiche. Mi sono preparata a lungo per affrontarle e ho fatto delle vere immersioni per cercare di capire le cose nella loro profondità, così come fa anche Giordano. Se ce l’ho fatta oppure no, questa è già un’altra questione. Ma la sensazione è stata quella di una grande chance, una straordinaria chance che mi è stata data. Perché dappertutto nel romanzo del giovane scrittore italiano appare una domanda mai proferita: che cosa mi è successo veramente d’importante fino a questa età? Molti scelgono di arruolarsi come soldati non tanto per soldi, poiché superano subito questa fase, quanto per l’intenzione di vivere delle esperienze estreme, importanti, altre che il conformismo, il conforto e, qualche volta, anche il disorientamento della vita civile, calduccia che vive dentro di noi e ci circonda in tutto il mondo democratico. Viviamo un mondo della ricchezza, delle promesse onorate, ma che nello stesso tempo prestabilisce un’esistenza in cui non succede gran cosa oltre il fast-food, alcuni amori (alcuni forse anche pagati), il culto della felicità o del corpo perfetto.

Potremmo dire di essere parte di una generazione libera dalla storia e dalla pressione dei suoi grandi ideali, ma non è forse proprio questo contesto che spinge tanti – come gli eroi di Giordano – verso i teatri di guerra, nell’intento di trasgredire la vita quotidiana, di darle un senso più alto?

E non solo questo, ma anche un’asse simbolico. Il comfort ci è spesso sufficiente, il consumismo ci sembra una sorta di atletismo necessario, ma a un certo punto – e questo succede, come ben dice Giordano, fra il secondo e il terzo decennio di vita – sentiamo il bisogno di un asse simbolico. Credo, assumendo e parlando strettamente in prima persona, di aver avuto tanta perseveranza e volontà di sciogliere le alterità ripudiate con le quali convivo come europea rispetto all’Oriente, anche perché non sono riuscita per adesso, come parte delle generazione della Rivoluzione del ’89, a capirla e a scriverne. È vero che neanche il contesto storico mi ha aiutato: gli storici non hanno dato una risposta, perché non hanno potuto farlo o non l’hanno trovata, i presidenti non hanno dato nessuna risposta. Ho pensato spesso a questo vuoto di comprensione. Il fatto che a questo momento non c’è un romanzo forte della Rivoluzione del ’89 credo che provenga da tutta questa incertezza e tutto questo dolore delle mia generazione – che aveva poco più di vent’anni nel ’89 e che ha creduto con tutto il suo essere nel cambiamento. Penso inoltre che questa mancanza, questo ʻgraffioʼ sull’immaginario e sui sotterranei personali mi hanno determinato a trasferire tutta quell’energia nel comprendere un’altra alterità.

Ci parli di questo suo comprendere la propria storia recente attraverso la storia altrui.

Avevo la convinzione che solo in modo episodico si può fare un’immersione in una cultura del tutto diversa. Prova che anche Giordano, il quale non è né medico, né soldato, sperimenta un unico episodio profondo, l’Afghanistan, e poi emerge avendo la coscienza chiara che di più non è possibile, che altrimenti significherebbe truffare, che non puoi essere simile a un natio. Con me è successa la stessa cosa. Ciò che non mi è stato possibile risolvere circa la Rivoluzione del ’89, l’ho fatto venti anni dopo, comprendendo l’alterità in un altro luogo e in un altro tempo. In un certo senso, quello che è successo con tutte le rivoluzioni dell’Est è stato uno straordinario scarto: gente che era giovane prima del 22 dicembre 1989 si è svegliata brutalmente in un mondo che non le apparteneva più e in cui non era più così giovane. Questa ferita non rimarginata è molto difficile da trattare in maniera letteraria, prova che tanti vi si sono avvicinati, ma l’hanno decifrata solo in parte. Io stessa l’ho provato in un romanzo molto breve nel 2000, che però è fallito completamente, era ancora presto, ero troppo giovane, ma questo mi ha fornito energia un decennio dopo per lo stesso argomento dell’alterità, ma sullo sfondo di una tematica del tutto diversa.

All’inizio del viaggio in Oriente, pensava che questa esperienza sarebbe diventata un nuovo romanzo?

No, non ci pensavo, perché le mie definizioni di me stessa erano le seguenti: un personaggio contemplativo, sedentario, urbano. All’improvviso ho lasciato perdere tutte queste identificazioni per il deserto, l’imprevedibile, il pericolo, perché mi sono sembrate le uniche porte verso un mondo che mi attraeva in un modo che non era per niente esotico. Alcune voci della critica hanno parlato di esotismo, di escapismo, ma tutte queste non sono altro che scenari superficiali, proprio perché si possa scivolare fra loro come sul ghiaccio verso alcune zone di chiaro-oscuro che di solito vengono camuffate. E per rispondere pienamente alla sua domanda, non ci pensavo anche perché ero completamente prigioniera dei cliché di cui abbiamo parlato anche prima: avevo paura dal mondo arabo. Non lo capivo, ma sentivo una paura in gran parte coltivata dalle opinioni comuni, europee, che mi circondavano. Solo dopo aver fatto più viaggi e aver provato molte volte a rompere questo primo strato, che è sempre ingannevole, mi sono tuffata in alcune scoperte che non intuivo in nessun modo.


Intervista realizzata e tradotta da Cristina Gogianu
(Revisione di Afrodita Cionchin e Giovanni Ruggeri)
(n. 3, marzo 2015, anno V)