Escono in romeno «I libri della famiglia» di Leon Battista Alberti. Intervista a Francesco Furlan

Directeur de recherche presso il C.N.R.S (il Centre national de la recherche scientifique francese) e Senior member dell’I.U.F. (Institut Universitaire de France) dal 2009, Francesco Furlan ha insegnato a lungo, all’École normale supérieure, all’Université Paris VIII - Vincennes e all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, Letteratura italiana e neolatina del Medioevo e del Rinascimento. È stato fra l’altro Visiting professor in diverse università italiane, europee e americane, e membro del Comité national de la recherche scientifique (sezione Filosofia, storia del pensiero, scienza dei testi, teoria e storia delle letterature e delle arti). Fondatore e direttore (o condirettore) di prestigiose riviste scientifiche quali «Albertiana», «Letteratura & Arte» e «Hvmanistica», condirettore dal 2001del programma «Filologia e informatica» (PAI italo-francese «Galilei», poi integrato nello Scriptorium del BRICKS - Building resources for integrated cultural knowledge services europeo), e direttore altresí degli Opera omnia / Œuvres complètes dell’Alberti (24 voll., alcuni dei quali in diversi tomi, di testi latini e italiani in edizione critica e traduzione francese annotata) e della collezione Sciences et Savoirs per la casa editrice Les Belles Lettres di Parigi, Furlan è all’origine di una serie di imponenti lavori collettivi sull’Alberti, il Petrarca, Dante, o ancora lo studio delle relazioni fra testo (inteso come pura verba) e immagini (picturæ), nonché delle relative implicazioni epistemologiche, nell’ambito della tradizione manoscritta, ma è soprattutto un grande specialista del Rinascimento e in modo particolare dell’Alberti. Autore di numerosi volumi, tra cui una serie di edizioni critiche e diversi saggi, ha di recente pubblicato Dialogica: Il Rinascimento e la rifondazione del dialogo (Moskva, Kanon+, 2012), e Texte & Image: La transmission de données visuelles dans la littérature scientifique et technique de l’Antiquité à la Renaissance: Pour une philologie parallèle du texte et de l’image (Pisa-Roma, F.S.E., 2013).
La mia collaborazione con Francesco Furlan è recente ed è dovuta alla pubblicazione per la prima volta in romeno di un testo fondamentale del Quattrocento, I libri della famiglia (De familia libri IV) di Leon Battista Alberti (Genova, 1404-Roma, 1472), in corso di stampa presso la casa editrice Humanitas, nell’ormai nota collana bilingue Biblioteca italiana. E proprio di quest’opera e del suo famoso autore vorrei parlare con l’insigne specialista che ha gentilmente accettato di scriverne la prefazione.

Come altri creatori dell’età del Rinascimento, Leon Battista Alberti si è manifestato in moltissimi e diversissimi campi di indagine e di creazione. Come dovremmo spiegarci, noialtri dell’epoca della stretta specializzazione e di una cultura generale sterminatamente superficiale, la profondità e poliedricità di un tale personaggio?

L’esigenza fondamentale, oggi probabilmente impensabile, e al tempo stesso lo stimolo primo dell’Alberti in quanto intellettuale e umanista, è quello di una vera e propria rifondazione integrale dei saperi, anzi del sistema stesso dei saperi… artistici e tecnici (pittura, scultura, topografia e lato sensu architettura, etc.) non meno che linguistici (grammatica, crittografia, etc.) e piú generalmente filosofici o civili e sociali (politica, filosofia, educazione, diritto e cosí via, fino all’equitazione o all’allevamento dei cavalli). E questa fondamentale esigenza egli assolve ricorrendo da un lato a tre grandi forme o modalità d’indagine rigorosamente concepite o ridefinite sul piano epistemologico, e servendosi dall’altro di tre corrispettivi grandi «generi» di scrittura: quelli del dialogo, del trattato scientifico e tecnico, e del lusus. Come i miei studî in materia hanno, io credo, ormai definitivamente chiarito, se si tralasciano pochi opuscoli e scritti brevi, certo originali e in sé interessanti ma nel contempo perlopiú estemporanei e indubbiamente marginali nel quadro della produzione letteraria albertiana – Deiphira, Ecatomphile e pochi altri (pseudo)amatoria, le Rime, gli Apologi Centum, lo stesso De commodis litterarum atque incommodis ch’è una sorta di preliminare riflessione sulle inevitabili difficoltà di ogni vita di studio –, l’intera opera scritta dell’Alberti – che come sappiamo molto ci ha lasciato anche di costruito, e non pochissimo ha scolpito o dipinto o composto in musica – si raccoglie e s’articola nei tre grandi generi o forme di scrittura che ho ora citato; e possiamo affermare che se il Momus e per certi versi le Intercœnales rappresentano i capolavori del lusus albertiano, se il De re ædificatoria e in minor misura il De pictura o la grammatica Della lingua toscana sono indubbiamente fra i trattati piú riusciti e felici che l’Alberti ci abbia lasciato, i quattro libri de Familia rappresentano senz’altro il vertice del suo originalissimo dialogo.

La personalità e l’operato culturale di Leon Battista Alberti sono sicuramente fra i piú interessanti e significativi del Rinascimento perché hanno aperto strade nuove in quasi tutti i campi. Tuttavia la loro posizione all’interno di quel grande periodo e movimento culturale mi pare difficilmente inquadrabile. Lei come la caratterizzerebbe?

L’Alberti è stato fortissimamente odiato, combattuto, censurato, ostracizzato (soprattutto a Firenze, peraltro), e nel contempo appassionatamente amato, ricercato, preso a modello… certo, non dalle stesse persone! Ma la medesima sua opera riflette questo stato di cose: alcuni suoi scritti (i trattati fondatori sulle arti: De pictura, De re ædificatoria, De statua, o gli opuscoli pseudo-amatorî Deiphira ed Ecatomphile) hanno avuto da súbito un largo successo, e sono risultati determinanti per lo sviluppo successivo e per l’impostazione stessa degli studî nei loro campi; altri suoi scritti – e da un punto di vista generale potremmo qui indicare gli eterodossi suoi lusi latini e tutta o quasi la sua produzione volgare, a cominciare dagli originalissimi suoi dialoghi, dallo stesso De familia –, permangono al contrario poco noti o anormalmente noti, circolano (per qualche tempo, e quasi soltanto durante la vita del loro autore) solo o quasi solo in forma manoscritta e sono per interi secoli ostracizzati o attivamente censurati soprattutto a Firenze e in Toscana, sicché vengono in varî casi stampati solo in Età moderna, nell’Ottocento. Emblematici sotto ogni profilo sono al riguardo i libri de Familia da un lato e, dall’altro, la grammatica Della lingua toscana: dei primi circolarono già nel Quattrocento ben due diversi rifacimenti (detti dei Pazzi e dei Pandolfini, dal nome degli interlocutori che vi sostituiscono quello originale degli Alberti), uno dei quali, la cosiddetta «redazione Pandolfini», ebbe una fortuna a stento immaginabile e anzi, oggi almeno, propriamente incredibile: preso a modello di lingua e di stile dalla Crusca, fatto dettagliatamente studiare ai proprî allievi napoletani dal purista Basilio Puoti e ammiratissimo ancora dal giovane De Sanctis, dal 1734 in poi, fino alla metà circa dell’Ottocento, fu stampato e ristampato di continuo in quasi ogni parte della Penisola: il Catalogo dei libri italiani dell’Ottocento ne annovera per il solo sec. XIX ben 65 nuove edizioni o ristampe! Ebbene, non appena, per l’appunto alla metà dell’Ottocento, ne vien dimostrata definitivamente la paternità albertiana, quel libro (e il suo originale: i libri de Familia dell’Alberti) cessa quasi di esistere, il De Sanctis non ne parla piú, e per molti decennî solo pochi studiosi vi spenderanno energie e tempo, delle energie e un tempo che quell’indiscutibile, altissimo capolavoro, quel vero e proprio manifesto della civiltà umanistica senz’altro meritano! Idem per il Della lingua toscana, che non a caso taluno si compiace d’indicare ancor oggi, invero alquanto spocchiosamente, come Grammatichetta vaticana, con palese ma gretta allusione alla ridotta mole di quel rivoluzionario opuscolo, quasi non il genio storico e linguistico che l’Alberti vi dimostra, ma per l’appunto la sua ridotta dimensione, tipica peraltro del pamphlet, fosse quel che conta e ci interessa! Ebbene, sull’importanza, l’originalità, la precocità stessa di quell’opuscolo, la cui visione storico-linguistica appare propriamente rivoluzionaria (l’Alberti vi afferma per la prima volta nella storia e con ogni chiarezza, oltreché contro l’opinione tenacemente difesa da accreditatissimi intellettuali del tempo quali il Bruni, che il volgare discende dal latino e che, come il latino, possiede una propria grammatica, ch’egli tratteggia e sommariamente descrive; sicché l’opuscolo stesso risulta essere la piú antica grammatica di una lingua viva, dopo quelle antiche del greco e del latino) non v’è da gran tempo nessun dubbio: il Bembo stesso vi allude e ne cita l’autore nelle Prose della volgar lingua (e va notato che l’Alberti è il solo autore quattrocentesco che il Bembo citi); ebbene, anche in questo caso, e nonostante i rarissimi studiosi che vanamente cercarono di far ammettere l’evidenza, l’odio nutrito nei confronti del nome dell’Alberti fu tale che solo nel 1962, a partire anzi dal 1962, quando una giovane studiosa (Carmela Colombo) identificò in un codice della Biblioteca Moreniana un foglio autografo dell’Alberti con il cosiddetto Ordine delle lettere (propriamente l’esordio del Della lingua toscana), solo a partire dal 1962, dunque, si acconsentí generalmente a riconoscere nell’autore del testo il nostro Battista Alberti!

Come si spiega una tale repulsione (dato che il valore dell’uomo e della sua opera giustifica sufficientemente l’amore e l'ammirazione) e in che cosa consiste esattamente?

Non di repulsione si trattò, ma di vero e proprio odio (suscitato in gran parte da una personalità e un’opera percepite come radicalmente anomale), oltreché di gelosia e di invidia acutissime (per le sue doti superiori, il suo creare senza sosta a livelli altissimi e in campi assai lontani fra loro), di un’abbastanza generale incomprensione (per l’inedito suo modo di concepire le cose, e poi di operare o di scrivere), e di una sorta di fastidio o forse di disprezzo (per taluni sfortunati casi della sua vita, dalla nascita al di fuori del matrimonio all’almeno relativa povertà indotta dal ritrovarsi da subito orfano della madre, e a soli 17 anni orfano anche del padre), che taluni suoi parenti condivisero del resto attivamente. Ma se non v’è alcun dubbio sul fatto che l’Alberti sia stato censurato e propriamente ostracizzato, anche va ribadito che lo fu sí, per decennî e per secoli, ma solo o quasi solo a Firenze; anche colà, poi, dovendosi in qualche modo comporre l’odio e il disprezzo nutrito nei suoi confronti dall’establishment culturale e politico con la viva ammirazione o persino l’amore che da un lato taluni suoi discepoli come il Landino, e dall’altro molti potenti del tempo (dai Bembo padre e figlio ai Gonzaga, dagli Este al Montefeltro e a Mattia Corvino) nutrivano nei confronti suoi e della sua opera, la censura riguarda veramente la sola parte linguistico-letteraria e filosofica della produzione albertiana, tant’è che l’editio princeps del De re ædificatoria viene pubblicata nel 1485 proprio a Firenze, per volontà del Magnifico e con una Prefazione ad hoc del Poliziano, a mio avviso non meno brillante che assai esplicita sui termini stessi del compromesso raggiunto; fuor di Toscana, invece, e per esempio a Ferrara (ove non a caso l’Ariosto tradurrà letteralmente o quasi, nel Furioso, un’intera pagina dell’intercenale Somnium!), a Mantova e Urbino, a Venezia e a Roma, e poi Oltralpe: a Olomouc, Parigi, Evora, Basilea, Alcalá de Henares, ecc., l’Alberti fu piú o meno costantemente ricercato, studiato, imitato, amato.

Il testo albertiano Della famiglia è stato interpretato da vari esegeti non solo diversamente ma anche contraddittoriamente, ritenendolo o moderno o passatista, o capitalista o neofeodale e alimentando non poche polemiche. Come interpreta Lei tali contraddizioni?

Come dicevo, si tratta di una grande, di un immenso capolavoro, anzi di un vero e proprio manifesto della civiltà umanistica. Da un punto di vista generale, si può dunque dire che è in certo modo normale che si presti a letture anche molto diverse e per qualche aspetto contraddittorie, o persino, talvolta, a letture informate non già da un genuino, veritiero interesse per l’oggetto di studio, per l’appunto i quattro libri de Familia dell’Alberti, ma da ideologie e tesi politiche o politico-culturali propriamente preconcette, che in quest’opera (come del resto in ogn’altro scritto preso in esame dai loro autori) si sforzano di trovare ragione della propria fede. Le interpretazioni formulate alcuni decennî fa da Max Weber e Werner Sombart mi pare vadano spiegate innanzitutto cosí. Ma nel caso dei libri de Familia v’è anche, o soprattutto, un’altra ragione, e cioè il fatto che nessuno, sostanzialmente, si sia reso conto che si tratta in pienezza di termini di un dialogo… non di un trattato cioè, ma di un vero e proprio dialogo, in cui i varî personaggi e interlocutori fanno valere dei punti di vista e delle idee o esperienze a priori diverse, che per l’autore si tratta di comporre in una tessitura d’insieme, e per il lettore di cogliere nella deliberata loro polifonia.
Nella prefatoria a Filippo Sidneo dello Spaccio della bestia trionfante, Giordano Bruno avvertirà con molta pertinenza, e persino con inquieta, presaga preoccupazione: «Questi son dialogi, dove sono interlocutori gli quali fanno la lor voce e da quali son raportati gli discorsi de molti e molti altri, che parimente abbondano nel proprio senso, raggionando con quel fervore e zelo che massime può essere ed è appropriato a essi […]. Abbiate tutto per detto […] indefinitamente, come messo indifficultade, posto in campo, cacciato in teatro; che aspetta di esser essaminato, discusso e messo al paragone […]».
Possiamo senz’altro affermare che il fatto che gran parte dei lettori abbia ignorato, cioè non abbia né colto né capito, questa fondamentale caratteristica del vero dialogo è una delle principalissime cause dell’incomprensione di cui hanno storicamente patito l’Alberti non meno del Bruno, benché poi questi abbia notoriamente pagato, in vita, un prezzo assai piú alto di quegli!

I libri Della famiglia si occupano del nucleo familiare nelle sue relazioni con la società e nella prospettiva della realizzazione dell’individuo. Quale visione della società e della persona umana informa invece gli importantissimi trattati albertiani sulle arti (pittura, scultura e architettura)? Sono identiche a quella dei dialoghi Della famiglia, o con essa compatibili, oppure divergenti, tali visioni dei trattati?

In tutti questi diversi casi, la visione è certamente la stessa. Quel che cambia sono invece le finalità, i modi attraverso i quali si opera, e la via stessa che si intende seguire per raggiungere l’obiettivo prescelto: come spiego nella Prefazione, nel dialogo l’autore medesimo è (al pari del lettore) alla ricerca della verità, e la verità stessa non si dà mai in formule, è intrinsecamente mobile e cangiante, evolve e sfugge di continuo, sicché soltanto in questo suo divenire incessante può esser dato di coglierla, ma solo in parte, e solo in maniera provvisoria… ché il dialogo è come la vita stessa; nel trattato, al contrario, la verità è data, cioè nota prima e al di fuori della scrittura, e l’autore, che la possiede, la porge trattando della materia per cosí dire ex cathedra, come un maestro che si rivolge all’allievo, o come un docente che istruisca un discente; egli non ricerca quindi alcunché, né discute o ammette discussioni di sorta… di contro infatti a quanto avviene nel dialogo, nel trattato il lettore è del tutto passivo.

Tuttavia fra le tante idee avanzate dai dialoganti quali appaiono, secondo Lei, ancora valide e confacenti alla nostra società e ai costumi di oggi?

Per la verità, non credo che il problema possa porsi in questi termini: in un certo senso tutto è o può essere confacente, e al tempo stesso nulla lo è. Nei libri de Familia troviamo un sistema organico e un modello perfettamente congegnato e imbattibile, storicamente del tutto vittorioso, di organizzazione familiare e sociale – un modello e un sistema che rispondono a una ben determinata idea dell’individuo come potenziale «faber fortunæ suæ» (per l’Albertil’uomo è infatti uno mortale iddio felice), ma che rispondono altresí a precise esigenze e bisogni storici: pensiamo soltanto alla mortalità infantile, oggi pressoché scomparsa, ma che persino nelle classi piú elevate delle piú ricche città del tempo (l’aristocrazia veneta, il patriziato fiorentino, etc.) mieteva nel Tre, nel Quattro e nel Cinquecento fino alla metà dei nati, e pensiamo poi all’organizzazione propriamente militare che la società umana dovette assumere, in tale realtà naturale, per sopravvivere e perpetuarsi, per consentire cioè a noi di vedere la luce…

Date queste differenze storiche, come raccomanderebbe Lei la lettura dei libri Della famiglia a un giovane di oggi? Perché un tale libro dovrebbe interessarlo?

Comunque la si intenda, la famiglia è e resta il fondamento dell’ordine umano laico. Chi si interessi alla società umana, e prima ancora alla vita dell’uomo, non potrà che giudicare assai istruttivo il prender coscienza delle mille sfaccettature che la famiglia in quanto istituzione inevitabilmente possiede, e senz’altro utile il conoscere la forma ch’essa ha storicamente assunto all’apice della civiltà europea. Molto probabilmente la lettura stessa della prosa albertiana risulterà poi assai piacevole, e grato il poter ricordare le molte pagine sorprendenti o il riflettere alle mille acutissime affermazioni e impreviste ma felicissime osservazioni di quest’opera grande e unica.
In un diverso senso, i libri de Familia dell’Alberti forniscono poi un eccellente esempio di ciò che oggi vien talvolta definito come «inutile», e che noi sappiamo esser sempre o quasi ciò ch’è invece piú utile umanamente, culturalmente, civilmente, politicamente… Ma sul tema posso soltanto rinviare a un recente, noto pamphlet dell’amico Nuccio Ordine, che so esser stato tradotto anche in rumeno.

E per concludere, una domanda su uno dei Suoi campi di ricerca che mi pare un’importante sfida: filologia e informatica. Che ruolo assegnerebbe Lei all’informatica nella trasmissione (o salvataggio) dei grandi testi del passato?

Personalmente ritengo a dire il vero che quel ruolo sia tutt’altro che vitale, e lo giudico anzi piuttosto accessorio. Se infatti è indiscutibile che l’informatica abbia velocizzato il lavoro di analisi ed entro certi limiti anche quello di ricerca, abbia dato un accesso piú facile, almeno per chi non abbia esigenze filologiche o realmente specialistiche, a materiali prima gelosamente custoditi in archivî e biblioteche, e abbia nel contempo messo virtualmente a disposizione di tutti, sebbene in copia (e dunque con tutte le problematiche che la copia suscita da sempre), enormi masse di documenti e di scritti d’ogni genere, è altresí innegabile che questa biblioteca virtuale e virtualmente infinita sta de facto producendo un’ignoranza al tempo stesso assai profonda o radicale e pressoché generalizzata, che l’uso frequente e a sua volta generalizzato di strumenti informatici sta distruggendo nelle giovani generazioni le nozioni medesime di spazio e di tempo, e intaccando seriamente la capacità di un’analisi critica, che la qualità della «stampa» e piú in generale dell’editoria è in vertiginosa caduta, e che il supporto informatico è di per sé infinitamente piú vulnerabile e fragile del codice cartaceo, oltreché per cosí dire naturalmente estemporaneo, cioè non stabile e legato a ogni sorta di contingenza. Basti pensare che ciascuno di noi ha dovuto già molte volte, e deve o dovrà farlo molte altre ancora nel corso della propria vita professionale, ricopiare / trascrivere / convertire o riconvertire ogni appunto, ogni scritto, ogni opera conservata informaticamente, da un formato e da un supporto all’altro: dal dischetto da 12 pollici al dischetto da 6 pollici, dal CD alla chiavetta e ai varî dischi esterni al computer fino, per ora, alla «nuvola» o, come dicono, al cloud… per non parlare di programmi e linguaggi, dall’arcaico o «preistorico» e invero assai infelice MS-DOS, che i piú fra noi usavano ancora 20 anni fa, in poi. Inoltre, chiunque abbia un minimo di familiarità con la lettura sa bene che non esiste e non potrà mai esistere nulla di piú efficiente e riuscito, nulla di piú pratico e comodo per la lettura, del codex o codice inteso come ‘libro’, che disponendo la parola scritta su di una serie di fogli legati gli uni agli altri per uno stesso lato ne consente la piú piacevole, rapida ed efficace delle fruizioni.
È chiaro che molte di tali colpe o difetti indotti dipendono piú o meno direttamente, non certo dall’informatica in sé, che può esser vista o concepita alla stregua soltanto di uno strumento, ma dall’uso che dell’informatica vien fatto e dalle attese che vi si legano; ma è chiaro anche che attese e usi sono quali si è voluto e si vuole che siano, e che se dovessimo rivedere le une e gli altri in nome di un piú esatto e attendibile discorso, sarebbero soprattutto l’immagine dell’informatica e la fede nelle sue virtú a uscirne alquanto ridimensionate.
Ieri ancora compiacentemente definita con espressione plurale alla stregua di «nuove tecnologie», l’informatica ha senz’altro delle virtú pratiche, le quali sono del resto sotto gli occhi di tutti (pur non essendo, assai spesso, quelle che molti si immaginano), ma è innegabilmente anche una moda largamente autoreferenziale; relativamente poco costosa, e proprio anche per questo fortemente in auge, essa autodetermina in larga misura la propria necessità eliminando, come spesso succede ai nostri giorni, saperi e tecniche organizzative un tempo comunissimi, e perciò stesso alimenta un’illimitata petizione di principio intellettualmente certo non condivisibile.
Per quanto piú precisamente riguarda la possibilità di servirsene a fini ecdotici, e dunque nella critica testuale, basterà qui dire ch’essa ha in massima parte tradito le grandi speranze un tempo riposte nella facoltà di far operare congiuntamente sui testimoni di uno stesso testo singoli ricercatori e intere équipes grazie a opportuni programmi di merging, che nei fatti si sono rivelati antieconomici o addirittura impraticabili. Sicché una vera e propria edizione critica per esempio della Commedia di Dante, i cui seicento e piú testimoni manoscritti non sono in nessun caso materialmente collazionabili da un singolo filologo, permane impossibile a farsi.

Non è una conclusione incoraggiante, ma La ringrazio lo stesso di tutto.



Intervista realizzata da Smaranda Bratu Elian
(n. 10, ottobre 2015, anno V)