La verità enigmatica e mutante dell’opera di Cioran. Intervista a Giovanni Rotiroti

«Cioran è colui che aiuta a scorgere proprio lì, nel buio delle parole, un’apertura o un buco che non nasconde nulla di riducibile al sapere, e che per questo consente di entrare in dialogo con se stessi senza rimanerne necessariamente sopraffatti. È una verità, quella dell’opera di Cioran, enigmatica e mutante, che ama mantenersi sempre aperta nel campo della lingua e del desiderio di domandare». Giovanni Rotiroti, professore all'Università L'Orientale di Napoli, è uno dei maggiori studiosi italiani dell'opera di Cioran e della sua ricezione in Italia. Nell'intervista che segue, ci propone un'ampia panoramica di temi e prospettive che caratterizzano il grande romeno.

Professor Rotiroti, Cioran è uno degli autori oggi più letti e studiati. Qual è, a suo parere, la cifra interpretativa dell'intera sua opera?

Dopo Nietzsche sappiamo che non ci sono fatti ma solo interpretazioni. Ciò non significa che la verità non esiste oppure che la verità è relativa, ma semplicemente che nella tradizione occidentale la verità si dice in molteplici modi. Questa verità della scrittura di Cioran non è senza rapporto con il segreto. L’opera di Cioran custodisce molti segreti che non riguardano solo l’ossessione del tempo, la noia, la questione del suicidio, la disperazione, la vacuità del mondo, la persistenza del male, l’inquietudine realmente vissuta, l’orrore della Storia, la gioia dello stato anteriore all’inconveniente di essere nati o la pienezza delle estasi musicali, ma ha a che fare con l’abissale questione della libertà che si condivide all’interno di una radicale separazione soprattutto da se stessi. Cioran è colui che aiuta a scorgere proprio lì, nel buio delle parole, un’apertura o un buco che non nasconde nulla di riducibile al sapere, e che per questo consente di entrare in dialogo con se stessi senza per questo rimanerne necessariamente sopraffatti. In questo senso, la verità dell’opera di Cioran non si lascia fissare in una verità assoluta come qualcosa di profondo o di oscuro e neppure si lascia interpretare in qualcosa di fattuale e oggettivo, ma si tratterà di attraversare quell’eccedenza appassionata e anche scabrosa della sua riflessione che impedisce alla verità di fissarsi, di lasciarsi rappresentare una volta per tutte nelle categorie prestabilite del pensiero. È una verità, quella dell’opera di Cioran, enigmatica e mutante, che ama mantenersi sempre aperta nel campo della lingua e del desiderio di domandare.

Qualcuno considera Cioran il principale continuatore di Nietzsche nel XX secolo. Che ne pensa?

Ritengo che Cioran – sin dagli anni ’30 – si sia quasi completamente identificato nella figura di Nietzsche, ma nel tempo non si è limitato a imitarlo o a ripeterlo, anzi ha cercato di trovare nell’opera e nella figura del grande filosofo e filologo tedesco il punto in cui avrebbe potuto svilupparlo, portarlo oltre e, in un certo senso, continuarlo. Credo che Cioran abbia veramente amato Nietzsche e che si sia confrontato con lui per tutta la vita. Ma è in Francia – come si legge nei Cahiers, in alcuni brani della sua corrispondenza epistolare o anche nelle interviste –, che Cioran confessa apertamente il desiderio di smarcarsi dalla presa assoggettante del suo modello ideale di stile e di pensiero. Dando una rapida occhiata ai Cahiers si trova per esempio: «Je ne peux plus lire Nietzsche. Il fait trop partie de mon passé» (Cahiers,Gallimard, p. 752); oppure «Nietzsche est sans aucun doute le plus grand styliste allemand. Dans un pays où les philosophes écrivent si mal, devait naître par réaction un génie du Verbe, comme il n’en existe même pas chez un peuple amoureux de langage, comme l’est le peuple français. Car il n’y a pas en France l’équivalent d’un Nietzsche – sur le plan de l’expression, j’entends de l’intensité de l’expression» (Cahiers, Gallimard, p. 756). Cioran, verso la fine della sua vita, riassumerà all’insegna di Nietzsche la cifra intellettuale della sua vita: «Ma vie “intellectuelle” a commencé par ma foi en ma mission (l’époque de Schimbarea la faţă). À vingt-trois ans j’étais prophète; et puis, cette foi s’est affaiblie, et d’année en année j’ai assisté au déclin de ma croyance en ma mission à remplir, en une influence à exercer. J’ai bien peur (?) que ce ne soit le sceptique en moi qui ait gain de cause en tout dernier lieu. Avec l’âge, je suis devenu modeste, c’est-à-dire de plus en plus normal. Or un homme quelque peut équilibré ne peut pas s’arroger une mission, ni croire passionnément en lui-même. […] (J’ai suivi exactement le trajet opposé à celui de Nietzsche. J’ai commencé avec… Ecce homo. Car Pe culmile disperării, c’est cela: un défi adressé au monde. Maintenant tout défi me paraît trop enfantin, et je suis trop sceptique pour en commettre encore un)». (Cahiers, Gallimard,p. 761)

Come ha conosciuto l’opera di Cioran?

Il primo incontro che ho avuto con Cioran è stato a Firenze nel 1989, quando Marin Mincu, il mio professore di Letteratura romena, mi aveva fatto leggere alcune lettere del pensatore transilvano che gli aveva spedito da Parigi. In queste missive era contenuto anche uno straordinario testo cioraniano, intitolato Rugăciunea unui Dac, scritto in occasione del Centenario della morte del sommo poeta Mihai Eminescu. L’incipit di questa straordinaria testimonianza mi aveva profondamente colpito: «Dans les accès de désespoir le seul recours salutaire est l’appel à un désespoir plus grand. Aucune consolation raisonnable n’étant efficace, il faut s’accrocher à un vertige qui rivalise avec le vôtre, qui le dépasse même. La supériorité qu’a la négation sur toute forme de foi éclate aux moments où l’envie d’en finir est particulièrement puissante. Toute ma vie, dans ma jeunesse surtout, La prière d’un Dace m’a aidé à résister à la tentation de mettre un terme à tout ça» (Cioran, Il nulla. Lettere a Marin Mincu, Mimesis, p. 56). A partire da questo testo, ho l’impressione che Cioran interpreti la «negatività della negazione» de La Fenomenologia dello Spirito come non riconducibile a quella provvisoria della dialettica. Qui non è in azione l’Aufhebung hegeliana che è sempre pronta a trasformare in positivo il negativo. Con Rugăciunea unui Dac ci troviamo su un altro piano. Cioran sottolinea lo statuto singolare del dire poetico di Eminescu come assoluto, come la condizione più «originale», tragicamente esistenziale, delle racines trop profondes del néant valaque. Egli afferma la frattura originaria che vi è tra la conoscenza filosofica e l’irraggiungibile oggetto del desiderio (dor) che la poesia sembrerebbe dentro di sé possedere.

Quali aspetti del pensiero di Cioran hanno attirato da subito la sua attenzione e quali Le sembrano significativi ancor oggi?

Probabilmente l’aspetto di maggior rilievo, che ha ancora valore oggi, è la questione del suicidio che emerge prepotentemente nel primo libro intitolato Pe culmile disperării e che diventerà una sorta di signature (in senso derridiano) di tutta l’opera di Cioran. È un’idea che accompagnerà l’autore per tutta la vita come un ossessivo e talvolta umoristico ritornello musicale. Cioran afferma a più riprese in romeno e in francese (ma anche nelle sue interviste in lingua tedesca) che senza l’idea del suicidio si sarebbe sicuramente suicidato. Per lui il suicidio è un’idea positiva, che aiuta a vivere, è una possibilità che realmente permette di uscire dalla vita senza uscirne, come suggerisce con altri mezzi d’espressione Gherasim Luca nella sua straordinaria opera poetica. Senza la sovrana possibilità del suicidio la vita stessa sarebbe insopportabile. L’idea del suicidio in tutti i momenti difficili della vita offre al soggetto, secondo Cioran, una specie di liberazione perché lo spinge a pensare e a credere che tutto sia nelle sue mani. Con il suicidio ci si illude di essere padrone del proprio fondamento e anche del proprio destino. L’idea del suicidio – in quanto domanda – è salute e non una malattia dell’anima. Già nel suo primo libro, Cioran, all’età di vent’anni, non si lascia affatto convincere che si arrivi al suicidio perché si è spinti dalle delusioni dell’esistenza o dall’eccesso di desiderio. L’aspirante suicida è in realtà incapace di vivere, cioè non è in grado di sostenere la «morte che non muore» che altro non è se non la vita stessa, per dirla con le parole di Alberto Zino. All’epoca, Cioran già sapeva che «la morte che non muore», quella che nella poesia per Ungaretti «si sconta vivendo», non è altro che l’angoscia (Angst) messa a tema in maniera critica da Freud e poi da Heidegger, a partire da Kierkegaard e Schopenhauer. Questa morte che è nella vita, questa morte vitale, che si apre nel teatro drammatico della soggettività sotto forma di «ambizioni, speranze, dolori o disperazioni», è chiamata da Cioran in romeno neliniştea. Si tratta cioè di una singolare inquietudine avvertita organicamente dal soggetto, che si ripete e si impone come dimensione sensibile del desiderio, e che richiede insistentemente di essere ascoltata in forma di parole, di scrittura e di un pensiero che si apre all’interrogazione. Il senso del suicidio, secondo Cioran, non è «un capriccio», ma l’impossibilità stessa di far fronte alla rivelazione «più spaventosa», alla «tragedia interiore» che risuona nell’abisso angoscioso della soggettività. Potersi rappresentare la morte che è nella vita vuol dire non solo rassegnarsi all’idea di sentirsi abbandonati e soli al mondo, senza certezze né rimedi salvifici, ma soprattutto significa riuscire a farsi carico della responsabilità interrogante di questo pensiero, senza per questo doversi necessariamente suicidare. Cioran insegna, a partire da questa sua personale esperienza, che l’idea del suicidio – e non il suicidio in sé – è una risorsa per l’essere umano e non una condanna. Essere all’altezza di questo vertiginoso pensiero può a volte realmente salvare la vita.

Temi e stile: quale scrittore del XX secolo si potrebbe accostare a Cioran?

Per quanto riguarda i temi di riflessione – al di là di Freud e Heidegger con cui il filosofo di Sibiu si è dovuto criticamente confrontare per differenziarsi da loro – accosterei Cioran a Blanchot, Bataille, Celan e Beckett; e relativamente all’Italia lo avvicinerei a vari autori come Manganelli, Caproni, Ceronetti, Carifi e Rescio. Per quando riguarda invece lo stile è lo stesso Cioran ad affermarlo in Despre Franţa. Identificatosi nella Francia occupata dalle truppe naziste durante la seconda guerra mondiale, Cioran nel 1941 cerca di indicare inconsciamente a se stesso un luogo ove trovare un possibile spazio di espressione nella lingua francese, prima di maturare il definitivo strappo dalla lingua romena e da tutte le sue precedenti convinzioni ideologiche fanaticamente rivoluzionarie e totalitariste. Ecco il brano: «Franţa îşi aşteaptă un Paul Valéry patetic şi cinic, un artist absolut al vidului şi al lucidităţi. El – care s-a înşelat cel mai mult dintre toţi francezii acestui secol – simbol, prin perfecţiune, al secătuirii unei civilizaţii, nu e expresia maximă a decadenţei, căci îi lipseşte o vagă nuanţă profetică şi curajul mândru în ireparabil» (Despre Franţa, Humanitas, pp. 57-58). Questa «vaga sfumatura profetica e il fiero coraggio nell’irreparabile» Cioran li troverà nel silenzio aurorale e nell’incanto crepuscolare della lingua francese, in modo tale che il «vuoto» e la «lucidità» permetteranno lo schiudersi di una «nuova» parola che consenta il transito tra il vivente e il mortale, non soffocata nella sua pietrificazione immobile e desertificata del cafard, ma contenendo in se stessa la possibilità di dissolvere l’oggetto nostalgico della «patria» e della madrelingua nel suo dileguare erratico e sognante.

Qual è l'attuale recezione dell’opera di Cioran in Italia?

Cioran in Italia ha un nutrito e fedele pubblico di lettori che lo ama. L’opera di Cioran appartiene al pensiero critico ed è per questo, forse, che non è insegnata nei luoghi ufficiali deputati alla trasmissione del sapere. Numerosi sono gli studiosi e gli appassionati di Cioran in Italia, come ricorda il mio amico Antonio Di Gennaro. Ciò che mi conforta, in fondo, è che sono soprattutto i giovani, oggi, a scoprire Cioran e a farlo proprio. Questo è un buon segnale per un mondo che sembra essersi definitivamente arreso di fronte all’avanzata devastante dello strapotere delle passioni tristi e delle soggioganti alienazioni di basso profilo culturale.



Intervista realizzata da Ciprian Vălcan
(n. 2, febbraio 2015, anno V)