Giovanni Ruggeri, «Amicus Romaniae». Intervista su società, chiesa, cultura in Romania

Giornalista e saggista, Giovanni Ruggeri si occupa da anni della Romania, promuovendo il patrimonio turistico e culturale del Paese, con particolare dedizione al Museo delle icone su vetro di Sibiel (Sibiu), cui ha dedicato un libro in cinque lingue e il sito www.sibiel.net. Lo scorso 29 febbraio, l’Istituto Culturale Romeno di Lisbona ha voluto riconoscerne attività e meriti conferendogli il titolo onorario di «Amicus Romaniae». In questa felice circostanza pubblichiamo un'ampia intervista in cui, con approccio spigliato e personale all’universo culturale e sociale romeno, Ruggeri ne accosta e tratteggia varie sfaccettature. Il testo riprende, in edizione italiana, un'intervista rilasciata al quotidiano romeno Lumina.

Lei viene da uno spazio culturale e spirituale la cui origine ha, in un certo senso, molto in comune con quello romeno. In che termini potrebbe descrivere la «latinità ortodossa», concetto che è stato attributo dagli storici romeni e stranieri all’antica civiltà romena? Della civiltà romena si dice, infatti, che sia resistita per miracolo in un "mare" slavo.

Bisognerebbe essere storici della cultura romena per poter corrispondere alle tante esigenze di una domanda così complessa! Il mio approccio all’universo romeno è quello, molto più modesto, di un semplice autodidatta, che non si permette valutazioni pretenziose sul piano culturale. Frequento la Romania come giornalista dal 2002 e la mia impressione è che la definizione da lei richiamata di «latinità ortodossa» sia una sintesi brillante sul piano espressivo ma troppo schematica su quello sostanziale. Molto genericamente parlando, quel che a un italiano – dunque a un ‘latino cattolico’, per rimanere sul suo registro concettuale – balza agli occhi quando inizia ad addentrarsi nell’universo romeno è, insieme all’ovvio elemento latino, quello che definirei «il fattore balcanico», cioè una serie di atteggiamenti della mentalità, attitudine e comportamento romeno imparentati con un certo caos, approssimazione, improvvisazione, indeterminabilità. La matrice latina, evidente sul piano linguistico (conservo sempre lo stupore della mia prima sera in Romania, a Sighetu Marmatiei, quando mi fu detto: «Buna seara», che in italiano è «Buona sera»), si confonde spesso, nella sua declinazione romena, con tratti "balcanici" espressi da atteggiamenti caratteristici. Due esempi dalla vita di tutti i giorni, proposti con amichevole umorismo: non c’è in Romania situazione assurda o complicata davanti alla quale il romeno, con naturale nonchanlance, non esiti a pronunciare il suo onnivalente «Se rezolva» («Risolviamo»), che spesso non risolve un bel niente! Per non dire della promessa che una cosa sarà fatta «Imediat» («Subito»), spesso metafora di un’attesa prolungata! Evidentemente sto generalizzando, perché so di quale serietà, precisione, affidabilità sono capaci molti romeni perbene. A declinare poi ulteriormente in termini originali la latinità romena è quel secondo fattore che lei ha richiamato, ossia l’elemento "ortodosso". A mio parere, l’assenza millenaria di un legame istituzionale e culturale con la «Roma cattolica» ha favorito nell’attitudine romena una certa disponibilità ad assumere orientamenti e comportamenti elastici, che però non di rado sconfinano – in negativo – anche in una eccessiva accondiscendenza ai potenti di turno: dalla dominazione turca alla dittatura comunista, gli esempi sarebbero molti. Infine, sarebbe da chiedersi se, a differenza delle altre culture di matrice latina, quella romena abbia sofferto una dose maggiore di provincialismo.


Come si può identificare la specificità della Romania nel contesto della grande Europa unita che sta mettendo le sue basi istituzionali? In questo nuovo ambito istituzionalizzato dell’Europa ci sarà un ridimensionamento anche in settori diversi da quello economico, come il settore culturale o spirituale. Come vede questi cambiamenti più difficili da percepire?

La costruzione dell’Europa come concerto o dialogo tra le diverse tradizioni culturali che la definiscono è un processo estremamente complesso, oggi appena ai suoi inizi sul piano istituzionale e della consapevolezza collettiva. La Romania, come tutti i Paesi dell’ex blocco comunista, deve rendersi anzitutto consapevole – per prendere poi iniziative adeguate a superare questo stato di cose – che la sua tradizione culturale è quasi del tutto sconosciuta in Europa. Dirò di più e peggio: l’ignoranza, da parte dell’Europa occidentale, nei confronti delle culture dell’Europa orientale è oggi mediamente pari alla debolezza – se non proprio assenza – di iniziativa dei rispettivi Stati in tal senso. Ci sono, grazie al Cielo, anche fenomeni positivi in controtendenza. Faccio due esempi. In Italia, il Salone del libro di Torino è l’evento editoriale più importante dell’anno: ebbene, proprio quello del 2012 sarà dedicato per la prima volta alla Romania, ma ci sono voluti 23 anni dalla fine del comunismo! Inoltre l’Istituto di Cultura Romeno, con le sue varie sedi in Europa, lavora molto per organizzare eventi e manifestazioni utili a promuovere la conoscenza della cultura romena all’estero: ma le sue iniziative hanno una portata ancora troppo limitata nell’ampio orizzonte europeo. A livello di impatto in Europa, la Romania potrebbe molto utilmente sfruttare il suo grande patrimonio turistico, ma osservando quel che succede ho seri dubbi sul fatto che al governo romeno la promozione del turismo interessi sul serio. Il ministro Elena Udrea – che io ho intervistato a Milano – [quando l'intervista è stata realizzata, Elena Udrea era Ministro del Turismo, ndr] enuncia propositi ammirevoli, ma almeno in Italia i fatti smentiscono penosamente le sue parole.


Ha conosciuto bene la zona di Sibiu e suppongo abbia avuto modo di visitare anche altre zone, come il nord della Moldavia oppure il nord dell’Oltenia, la Dobrugea o il Maramureş. Nella storia romena, un concetto importante è quello dell’unità dei valori che si riscontrano nelle varie zone del Paese. Può fare un commento sulla differenze e le somiglianze di questi valori locali?

La frequentazione di zone e l’amicizia con persone di quasi tutte le regioni della Romania mi ha permesso di osservare che esistono, effettivamente, delle attitudini caratteriali tendenzialmente diverse. Con elementare generalizzazione, ho colto facilmente la natura ospitale della gente del Maramures, quel misto di tristezza, fatalismo e insieme vivacità che caratterizza molti moldavi, l’operosità della gente di Transilvania, la mentalità aperta degli abitanti del Banato, il caos ma anche le risorse di Bucarest... In molti romeni, in modo consapevole o inconsapevole, esiste e resiste bene o male un fondo emotivo, un’attitudine di base, che rimanda alla civiltà rurale – con il suo sentimento del tempo e del destino, della terra e del cielo –, ma ho l’impressione che questo fondo sia pressoché scomparso nelle nuove generazioni, attraversate da tendenze diverse, tra il banale appiattimento sull’immediato e una potenzialità di apertura culturale verso nuove strade.


Gli antropologi romeni parlano della morte del villaggio tradizionale romeno, e al più presto, se non sta già accadendo, specie dopo che la Romania si sarà adattata al modello dell’economa industrializzata, di tipo europeo. Che cambiamenti anticipa, a partire da queste considerazioni piuttosto pessimistiche?

Credo che gli antropologi che lei richiama abbiano ragione. Non ritengo che il villaggio tradizionale fosse il paradiso in terra (pensiamo solo a quanto pesante fosse il controllo sociale sulla vita personale), ma le tendenze in atto non porteranno solo benefici. In generale, mi pare che la libera iniziativa – sempre benvenuta – e il bisogno di sviluppo economico – più che naturale – stiano determinando in Romania una crescita vertiginosa dell’individualismo, una corsa al miglioramento delle proprie condizioni che quasi oscura la consapevolezza di convivere con altri. Dal punto di vista socio-culturale, ho talvolta il timore che la società romena sia un cadavere in corso di putrefazione: la civiltà rurale è finita, una vera cultura urbana manca, domina una generale scontentezza (spesso più che giustificata). In questo quadro, il villaggio tradizionale si sta trasformando – anche come comprensibile reazione alla lunga collettivizzazione spersonalizzante – in un conglomerato di atomi che gravitano ciascuno nella propria sfera di interessi. Ci si dimentica però che il successo vero e durevole non è mai dei singoli, ma dei singoli che sanno fare gruppo. Chi non sa lavorare con gli altri – e anche bere una grappa con il vicino – non farà molta strada. Magari farà soldi, ma sarà solo e triste.


Con la costruzione di nuove case, molte con un’architettura stridente, sono state costruite anche molte chiese in Romania. Nel contesto di questo nuovo mondo rurale in continuo cambiamento, come pensa che la Chiesa possa mantenere il suo vero posto?

Per quel che ne capisco io, la Chiesa ha avuto, ha e avrà solo e sempre un unico luogo e senso: annunciare Gesù Cristo, dire alle persone che quel grande punto di domanda che è la loro vita e la loro morte, il loro dolore e il loro amore, può essere vissuto, con e come Gesù Cristo, nella fiducia, speranza e bontà. Niente di meno, niente di più. La Chiesa avrà sempre il suo luogo se starà nell’unico luogo che da sempre è suo: quello di servire il Vangelo e la vita reale delle persone, che ha inizio, durata e fine  «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Chi – prete, vescovo, comunità, sistema ecclesiale – non lo ha capito e non lavora in questo senso è destinato ad essere spazzato via da una secolarizzazione e una banalizzazione della vita che in Romania, forse più che altrove, si stanno diffondendo con impietosa asprezza. La Chiesa ortodossa romena è ricca di persone sante, sacerdoti di grande saggezza. Oggi più che mai il cristianesimo può vivere solo di santità e intelligenza. C’è bisogno di uno sforzo supplementare di intelligenza e di capacità di dialogo con le persone: se la gente non capisce con la sua testa e non sente con il suo cuore che il meglio che le possa capitare è conoscere Gesù Cristo, non avrà alcun motivo per rimanere cristiana. Liturgie e dogmi da soli non hanno mai salvato nessuno. Se oggi il prete – ortodosso, cattolico, protestante – non ha dire niente di vitale alla vita della gente può cambiare tranquillamente mestiere.


Da diversi anni lei è impegnato nella promozione del Museo delle icone su vetro di Sibiel. Come potrebbe descrivere la zona di  Sibiel e le icone del Museo di Sibiel?

Sibiel è un villaggio della Marginimea Sibiului, zona di antiche tradizioni che sta cercando un delicato equilibrio tra sviluppo e salvaguardia del suo patrimonio. Di Sibiel va detto subito quel che ha scritto anni fa un quotidiano nazionale romeno: «Senza il Museo delle icone creato da Padre Zosim Oancea, Sibiel sarebbe oggi come tanti paesi vicini: un villaggio in morte clinica». La vera ricchezza di Sibiel – prima e oltre il suo bel paesaggio – è il suo Museo, e se lei mi chiede una definizione delle icone di Sibiel io le dico: una meraviglia nella meraviglia! La prima meraviglia è l’esistenza in Transilvania di questa bellissima tradizione di pittura di icone contadine su vetro, che raccontano la fede della gente con i colori della vita di tutti i giorni. La seconda meraviglia è l’opera geniale di Padre Zosim Oancea che, dopo aver sofferto dieci anni di carcere e cinque di lavori forzati, è riuscito a coinvolgere il villaggio di Sibiel nella realizzazione, in pieno comunismo, del più grande museo di icone su vetro contadine del mondo. Grandissimo Padre Oancea, uomo che ha saputo vedere lontano, santo prete di Romania!


Come sono state recepite le icone su vetro di Sibiel nei dialoghi che ha avuto nell’ambito delle presentazioni itineranti organizzate non solo in Romania, ma anche in Italia, Francia, Germania, Austria, Ungheria...? Quali sono gli argomenti che è solito portare agli stranieri quando presenta loro il patrimonio di Sibiel?

Le icone e la storia della creazione del Museo di Sibiel sono l’unico vero argomento che parla da sé! All’estero l’accoglienza di quel che io presento è sempre entusiastica: gli stranieri non sanno nulla delle icone su vetro e pochissimo del patrimonio culturale e spirituale della Romania. Io racconto semplicemente la storia, proietto le immagini: la gente è conquistata dalla bellezza delle opere dei contadini pittori e dalla genialità eroica di Padre Zosim. Quando presento Sibiel in una comunità ortodossa romena all’estero, le persone sono sempre commosse, e così anche i preti e i vescovi presenti – penso a Sua Ecc. Iosif, Metropolita dell’Europa Occidentale, a Sua Ecc. Siluan, vescovo di Gyula. Quello che sono riuscito a fare è frutto del mio sforzo personale, ma devo esprimere la mia gratitudine a Sua Ecc. Laurentiu Streza, Metropolita di Ardeal, che è stato sempre al mio fianco, al Ministro degli Esteri Teodor Baconsky [quando l'intervista è stata realizzata, Teodor Baconsky era Ministro degli Esteri, ndr] che ha personalmente appoggiato alcune mie iniziative, a diversi direttori degli Istituti Culturali Romeni in Europa che hanno dato spazio alla presentazione delle icone di Sibiel nei loro programmi.


In Italia vivono e lavorano attualmente molti romeni. In che modo si può parlare bene dei molti romeni d’Italia, cioè quali cose buone e utili vengono fatte dai romeni per gli italiani, così come sta facendo lei per la Romania?

La stragrande maggioranza dei romeni che vivono in Italia sono persone laboriose, oneste, serie. Quanti nostri anziani sono curati da badanti romene, quanti malati italiani hanno al loro servizio infermiere e medici romeni, quante opere private e pubbliche si fanno in Italia con il lavoro di bravi operai romeni! La Romania fa molto per l’Italia in Italia. Purtroppo fa pochissimo per promuovere l’immagine che più le appartiene. Quanto a me, vorrei solo che il Museo di Sibiel, le icone e i grandi sacrifici fatti da Padre Oancea e dalla gente del villaggio avessero un presente e un futuro all’altezza della nobiltà delle anime che li hanno espressi. Vi invito tutti: aiutiamo il Museo di Sibiel!


Intervista realizzata da Larisa e Constantin Iftime
(n. 3, marzo 2012, anno II)


* La versione romena di questa intervista è uscita sul quotidiano cristiano «Lumina», 11 ottobre 2010, pp. 8-9.