Lăcrămioara Stoenescu: «Il mio caso, la storia di un bambino - nemico del popolo»

Pubblichiamo un’ampia intervista alla professoressa Lăcrămioara Stoenescu, autrice del libro di memorie Bambini – nemici del popolo, pubblicato e corredato da un’ottima veste grafica da Saecula Edizioni e presentato a Torino presso lo stand della Romania in occasione del Salone Internazionale del Libro 2014. La pubblicazione del libro è stata possibile grazie al sostegno dell’Istituto Culturale Romeno tramite il programma di finanziamento TPS. L’autrice ci illustra le motivazioni che l’hanno persuasa a scrivere questa sua dolorosa e drammatica testimonianza di vita, della quale i lettori di «Orizzonti Culturali italo-romeni» hanno potuto leggere in anteprima un estratto nel numero 7 del luglio 2012.

Gentile professoressa, che cosa l’ha spinta a scrivere questo suo libro di memorie che ripercorre la deportazione della sua famiglia sotto lo stalinismo in Romania durante gli anni ’50 del secolo scorso?

Non è stato affatto semplice per me decidermi di scrivere della nostra deportazione in Bucovina, di ricordare un periodo che mi ha ferito psicologicamente e che mi ha umiliato fin dall’infanzia, marchiandomi e separandomi dagli altri bambini miei coetanei. Ma mi sono decisa a farlo anche per altre ragioni.
In primo luogo, i miei genitori erano morti, mio padre nel 1974 e mia madre nel 1994, e non sapevo se avrebbero desiderato che si fosse scritto su di loro, dato che erano persone modeste, che non avrebbero gradito diventare di dominio pubblico; tra l’altro in casa nostra, il periodo della deportazione era un argomento tabù. Mio padre ci aveva protetti e non ci aveva mai raccontato nulla delle percosse subite durante gli interrogatori e della vita in prigione o delle dure condizioni nella colonia di lavoro di Spanțov-Oltenița. Immaginavo che non si sarebbe opposto a che io ne scrivessi, ma non potevo essere sicura che l’avrebbe anche gradito.
Cosciente del fatto che scrivere un libro-documento implica una grande responsabilità nell’addossarmi la verità, dovevo ottenere il permesso per fare ricerche presso gli Archivi della Securitate, dove cercare la lista dei deportati, il fascicolo aperto su mio padre e altro ancora. Io avevo fatto richiesta in tal senso già due anni prima, ma non avevo ancora ricevuto l’autorizzazione. Alcune fra le fotografie inserite nel libro Bambini – nemici del popolo erano state scattate da mio zio, che aveva l’hobby della fotografia, altrimenti non ci saremmo potute permettere di farci fare delle fotografie. 
In terzo luogo, sarebbe stato il mio primo libro, quindi un debutto. Io avevo un’età alla quale non pensavo più di scrivere e temevo di apparire ridicola con questo tardivo debutto. In gioventù, è vero, avevo accarezzato l’idea di diventare poetessa, mi erano state pubblicate alcune poesie, ma l’argomento dei miei scritti non sarebbe stato accettato dalla censura, anzi poteva costarmi addirittura il carcere, ma anche così sarebbe stato comunque un debutto tardivo. Non avrei mai pensato di scrivere in prosa, tuttavia la memorialistica mi tentava.
Tutti questi miei dubbi sono stati però spazzati via quando ho letto sui quotidiani il clamore suscitato dal caso di alcuni studenti ingaggiati a scuola come informatori per conto della Securitate. Ebbene, ciò mi è parso un fatto minore, se si tiene conto dell’età nella quale potevano essere tentati o perfino convinti del loro gesto patriottico: smascherare i nemici del popolo. I giornalisti «non avevano visto il bosco a causa della sterpaglia», come recita un detto romeno, ossia, non avevano colto l’essenziale per colpa di dettagli minori. Ragione per cui mi sono risolta a intervenire.
Avevo il dovere di mostrare che non era questa la cosa importante, bensì quanto avevano sofferto quei 100 bambini di Giurgiu e le loro famiglie, esemplificando attraverso il mio caso la storia di un bambino – nemico del popolo, che mi sembrava emblematico. Ero entrata, come si è detto, in una nicchia inesplorata, quella dell’infanzia nei primi anni del comunismo. È vero che già si sapeva di bambini deportati dal Banato, nel nord, al sud della Romania, nel Bărăgan, ma dell’esodo degli abitanti di Giurgiu sparpagliati in tutta la Romania, ossia in 46 località, nessuno sapeva nulla. Per questa ragione mi sono sentita in dovere di scrivere su questo argomento, liberandomi così allo stesso tempo di un marchio e delle ferite interiori. Mi fa piacere che ora anche i lettori italiani ne vengano a conoscenza.      

Lei allora era una bambina di appena dieci anni: rivivere quell’esperienza dolorosa e traumatizzante è stato come riaprire una ferita oppure, nonostante tutto, le è stato utile per liberarsi di un peso?

Scrivendo questo libro, mi sono valsa dell’esperienza degli psichiatri quando ipnotizzano il paziente per farlo regredire nell’infanzia e fargli rivivere i momenti che più l’hanno segnato, poiché sono proprio questi momenti che spiegano in gran parte determinati comportamenti. Nel mio caso, non c’è stato bisogno che io scendessi nel mio inconscio, bensì ho sondato la mia infanzia in modo cosciente. Ho rivisto tutto con gli occhi della mente, e non in stato di ipnosi, perché ho ricordi ancora molto vivi, poiché all’epoca ero già abbastanza grande. Tracciando un ponte sul passato e facendo affidamento alla mia memoria visuale e uditiva, ho potuto rivivere quegli episodi.
Ho visualizzato tutto e mi sono passati davanti immagini cinematografiche, come se la retina dei miei occhi avesse fissato per sempre tutte queste immagini che ancora oggi continuano a vivere: com’erano vestiti i securisti, il viso terrorizzato di mio padre che ci lasciava, il febbrile impacchettare le nostre cose, il vagone per il bestiame in cui ci avevano caricati, la folla alla stazione, la partenza verso la deportazione, il tragitto per raggiungere sotto una pioggia sottile Rădășeni dove sono stata dichiarata «nemica del popolo» ecc.
Ho ancora negli orecchi i colpi alla porta a notte fonda, i tonfi degli oggetti gettati a terra in casa mentre la perquisivano, i mormorii, lo stridio delle ruote del treno, la voce burbera del preside che mi espelleva di scuola usando parole che non comprendevo – «nemico del popolo» – e altro ancora. Dopo questa esperienza, ho capito poi perché nella mia vita, a causa del domicilio coatto (non ci potevamo allontanare dal comune, dove eravamo confinate, oltre i 25 chilometri), sono stata uno spirito indipendente, desideroso di libertà e di evadere dagli spazi chiusi.
Scrivendo questo libro, ho usato intenzionalmente un linguaggio vicino a quello di un bambino di allora, semplice e schietto, con frasi brevi e dinamiche, adeguato alle situazioni e ai sentimenti da lui vissuti. Per me la scrittura è stata una terapia con la quale, ritornando indietro nell’infanzia e spiegando agli altri, ma, in modo implicito, anche a me, ciò che è accaduto, ho sentito di essermi purificata, lasciandomi alle spalle gli incubi, le paure, le angosce, il terrore nei confronti della Securitate (ci sono persone che ancora oggi non l’hanno superato).
Poiché non covo sentimenti di vendetta o di odio, e ho perdonato coloro che ci hanno causato tante sofferenze psichiche, ho provato sollievo, purificandomi. Ora sento di vivere in libertà e di amare tutti, sperando che un giorno coloro che hanno deciso la nostra deportazione siano in grado di chiederci perdono, perché solo così si sentiranno liberi e puri nello spirito. Non è mai troppo tardi per riconoscere i propri errori. È difficile ma non impossibile. Tuttavia, solo gli animi puri o le persone superiori ci riescono.

Il «protagonista» indiscusso del libro è sicuramente suo padre. Fra le righe, s’intuisce chiaramente quanto speciale fosse il vostro rapporto di padre-figlia. Che cosa vi univa così saldamente insieme?

In effetti, mio padre è stato per me una persona speciale. Era un uomo bello e distinto, un padre e un marito esemplare. Ma più che padre, lo sentivo come un amico di giochi, un educatore, una guida, un mentore, un modello di intellettuale, in quanto padre e marito. Ai miei occhi, egli è rimasto il metro di misura di tutte le qualità, un letto di Procuste dove adagiavo gli altri per valutarli (mi riferisco al romanzo di Camil Petrescu, Il letto di Procuste). Da bambina, lo avevo posto su un piedistallo come una statua, perché per me nessuno poteva raggiungere il suo livello. E non lo vedevo solo così. Percepivo di essere invidiata dalle altre mie compagne che avrebbero desiderato anche loro di avere un padre simile.
Leggeva montagne di libri e conosceva il latino, il greco, il francese, il tedesco, la filosofia tanto che più tardi non avevo bisogno del dizionario, dato che lui era una vera e propria enciclopedia. Era sempre premiato come primo della classe al liceo di Giurgiu, sebbene fosse figlio di genitori di umili origini: il padre era sarto di gabbani, capi per contadini che però non si portavano più ormai, e così ha dovuto avviare una piccola attività commerciale, mentre la madre era analfabeta. Data la sua preparazione, al liceo era chiamato a fare da supplente ai suoi professori, che sono poi diventati docenti universitari e intellettuali di spicco, perché il liceo della nostra città era il trampolino di lancio per la Facoltà di Lettere, di Storia e di Matematica e di altre specialità (Nicolae Cartojan – storico letterario, Tudor Vianu – critico letterario, Ion Barbu – matematico e poeta, erano tutti originari di Giurgiu). Per le sue capacità, dava lezioni private e sostituiva i professori i quali avevano tale fiducia in lui da affidargli la propria cattedra per un certo periodo di tempo; in questo modo si è potuto mantenere agli studi, frequentando la Facoltà di Diritto, e dopo la laurea, ha ottenuto, tramite concorso, un posto come pretore con incarichi di funzionario amministrativo, una sorta di sindaco, presso una decina di comuni.
Per il rifacimento delle strade, delle case di cultura e delle chiese, ha ricevuto diplomi e lettere di riconoscimento da parte di re Michele di Romania. Quando andavamo insieme per il circondario, mi prendeva con sé sul calesse per mostrarmi i comuni che aveva sotto la sua amministrazione. Mio padre era benamato dai contadini e dai vicini, perché, nonostante il suo status sociale di allora, era una persona comunicativa e rispettava tutti. Mi ha insegnato a salutare per prima le persone che non avevano studi o una posizione sociale meno agiata.
Mio padre era allegro e non giocava solo con me, ma anche con i figli dei nostri parenti o degli amici. Mi leggeva dei libri quando ero piccola, verificava se avevo capito e se sapevo esporne il contenuto. Più avanti, controllava le mie letture e i miei compiti, veniva con me e mia madre agli spettacoli in cartellone a Bucarest e sottraeva a mia madre molte delle sue prerogative come educatrice nei miei confronti. Però era severissimo quando pronunciavo male le parole. Non mi ha mai dato uno schiaffo, come fanno alcuni genitori, ma quando ho storpiato la parola «cucchiaio» mi ha fulminato con lo sguardo. Fin da piccola, grazie a lui, ho parlato sempre con una dizione perfetta, e per tale motivo ero sempre io quella che veniva scelta per leggere il programma in occasione delle festività; inoltre ho recitato bene, interpretando il mio ruolo nel radioprogramma «Sono stata un nemico del popolo» al fianco di celebri attori.
Fin da bambina ho sentito il suo potere di seduzione su di me, perché sapeva immedesimarsi in me bambina e intuire i miei bisogni, come un vero psicologo. Sempre da mio padre ho colto il dono di comporre versi, scrivendo già a quattro anni una poesiola che faceva così: «Sotto l’olmo/ C’è un uomo/ Con un panino/ E un cagnolino». Mio padre era molto fiero del fatto che fossero già state pubblicate mie poesie a partire da quando avevo dieci anni, ma era triste e si sentiva colpevole per avermi fatta soffrire a causa sua durante la deportazione e che non fossi riuscita a entrare all’Università perché avevo avuto un volto insufficiente per l’origine sociale (si assegnava al candidato anche un punteggio relativo alle sue origini sociali, e i posti disponibili per i figli di famiglie piccolo-borghesi era solo del 10% in totale).          

Anche sua madre e la nonna paterna hanno occupato un posto importante in quei due anni di sofferenza durante la deportazione e formavate un terzetto femminile d’incredibile tenacia e di forza di volontà. C’è forse qualche altro episodio inedito legato a loro che non compare nel suo libro e che ci potrebbe svelare qui? 

Durante la deportazione, mia madre, anche se era occupatissima e doveva andare quotidianamente al lavoro lavorando otto ore al giorno – e per arrivarci doveva camminare per altre due ore – è stata inamovibile nei suoi principi morali. Si occupava della mia educazione, ma non ha pensato un solo istante che sarebbe stato meglio per noi se lei avesse divorziato da mio padre, anche se il miliziano la spronava a farlo, dicendole che in questo modo sarebbe stata assunta come ragioniera e che io sarei stata riammessa a scuola. Lei pensava invece che un divorzio, anche se puramente formale, avrebbe significato demoralizzare mio padre che era chiuso in carcere.
Mi ha tenuta d’occhio e guidata, sostituendosi a mio padre affinché non sentissi la sua mancanza. Era un essere fragile, ma incredibilmente tenace e con una volontà di ferro. Da lei allora ho imparato che non devo accettare compromessi, né rimandare a domani ciò che posso fare oggi, che devo essere onesta, corretta e puntuale.
La nonna era la spina dorsale della famiglia. Ogni volta che ci trovavamo in difficoltà, lei trovava sempre la forza fisica e morale per sostenerci. Dato che disponeva di una grande potere di persuasione e di ottimismo, aveva sempre una soluzione pronta per toglierci dalle difficoltà. Io ero una bambina che non dava problemi, ma, maturando precocemente, tentavo di capire le cose come avrebbe fatto un adulto e di non far trasparire le mie sofferenze per non farle pesare su mia madre. Nascondevo la nostalgia per mia madre o la difficoltà di non averlo al mio fianco, e il più delle volte sono riuscita a farle credere che non soffrivo per via di mio padre come invece avrei dovuto, che ero insomma una bambina insensibile. Rappresentavamo tre generazioni – la nonna, la mamma e la figlia – e ci facevamo forza reciprocamente come potevamo per sopravvivere.  

Dopo Bambini – nemici del popolo, lei ha scritto altri libri dedicati allo stesso tema e periodo storico. Ce ne potrebbe parlare brevemente?

In effetti, riflettendo su ciò che avevo fatto per i deportati di Giurgiu, ho pensato che dovevo farlo anche per quella parte di giovani che erano stati membri di organizzazioni anticomuniste durante gli studi o arrestati e prelevati direttamente dai banchi di scuola o d’università prima degli esami, rinchiusi, inquisiti, maltrattati, alcuni per 14 anni, durante i quali la loro vita è stata resa un inferno in prigione. Ne avevo conosciuto alcuni nella mia città natale, altri in seguito. Il libro che tratta questo argomento si intitola Dai banchi di scuola alle prigioni comuniste ed è stato pubblicato dalle edizioni Curtea Veche nel 2010. Non essendo riuscita a presentare tutte le categorie di giovani che hanno sofferto sotto il comunismo, ho scritto un altro libro che tratta della resistenza anticomunista, dei detenuti deportati anche a Donbas (Ucraina), soldati che hanno svolto la leva militare lavorando e che erano discriminati per la loro origine etnica, il cui titolo è La memoria delle stimmate ed è stato pubblicato sempre dalle edizioni Curtea Veche nel 2012.

E ora, sta lavorando a qualche altro progetto sullo stesso argomento? 

Ora devo consegnare alla casa editrice un libro di narrativa, L’insegnante apprendista. In esso racconto la mia propria esperienza, come anche quella di mie colleghe, presso le varie scuole dove ho lavorato come professoressa di lingua romena; i modelli sono reali, ma trasfigurati per necessità narrative.
Sto inoltre quasi finendo un altro libro, Ricordi dal Labirinto Rosso, che tratta dello stesso tema. In un viaggio nella Germania dei nostri giorni, come turiste, due ex colleghe professoresse si rincontrano dopo trent’anni. Rievocano la vita stressante sotto il comunismo, mentre percorrono le autostrade tedesche. Alla loro conversazione partecipa anche la guida, che faceva la stessa professione, e una insegnate del nord della Romania. Incuriosita, si avvicina anche una giovane psicologa meravigliata di come la gente potesse sopravvivere in un regime totalitario ed esprime il suo desiderio di vedere con i propri occhi un paese comunista. Solo che viene avvertita da una professoressa che, sotto il comunismo, gli stranieri possono vedere solo quello che è loro permesso.
Infine, di recente ho iniziato a lavorare a un altro libro, Tra Biggin Hill e Bucarest, che mi sta impegnando molto per via della sua drammaticità e che ha come protagonista una giovane ingegnere, emigrante in Inghilterra, di cui narro la sua vita incredibile di emigrante, la lotta con il destino che deve affrontare. Spero che avrà grande successo fra i giovani che desiderano emigrare in Occidente. La ringrazio delle domande ben scelte e puntuali. Spero di aver suscitato sufficiente curiosità nei lettori italiani che decideranno di leggere il mio libro, Bambini – nemici del popolo pubblicato da Saecula Edizioni, e di cui finora non avevano avuto occasione di conoscere quanto vi ho narrato.



Intervista a cura di Mauro Barindi
(n. 7-8, luglio-agosto 2014, anno IV)