Il lavoro del critico? Umile ascolto e fraterno dialogo. Intervista a Lucio Felici

Lucio Felici, saggista e critico letterario, per decenni si è impegnato in numerosi ruoli editoriali e accademici di grande rilevanza. Dal 1964 al 1992 ha lavorato nelle Redazioni Garzanti, assumendone nel 1983 la direzione; poi è stato direttore editoriale della Giunti e della Newton Compton. Contemporaneamente ha tenuto corsi di letteratura italiana in vari atenei, da ultimo all’Università Ca’ Foscari di Venezia. La maggior parte dei suoi studi li ha dedicati a Giacomo Leopardi e a Giuseppe Gioachino Belli, e i suoi contributi su questi due autori fanno ormai parte della bibliografia di riferimento di ogni specialista; altri suoi studi riguardano la letteratura italiana dal Sei all’Ottocento, mentre nell’area novecentesca si è occupato di D’Annunzio, Vigolo, Pasolini e Calvino.
Le edizioni di classici da lui curate recano l’impronta della grande tradizione filologica italiana: citerei solo il commento ai Canti leopardiani (per la Newton Compton) e la raccolta di Tutte le opere di Giacomo Leopardi, sia in due volumi (con Emanuele Trevi, Roma, Newton Compton, 1997, 2013) sia in cd-rom (Roma, Lexis Progetti Editoriali, 1998). Fra i suoi volumi di studi, si segnalano L’Olimpo abbandonato. Leopardi tra «favole antiche e «disperati affetti» (Venezia, Marsilio, 2005) e La luna nel cortile. Capitoli leopardiani (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006). Per la Garzanti Grandi Opere ha diretto, con Nino Borsellino, Il Novecento: scenari di fine secolo (Milano 2001, 2 tomi), continuazione della Storia della letteratura italiana fondata da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno. Ha curato edizioni di poeti del Seicento, di Guicciardini, Foscolo, Manzoni e, con Claudio Costa, l’edizione Tutte le poesie di Trilussa per «I Meridiani» di Mondadori; ha realizzato grandi progetti editoriali, fra cui basta l’edizione Pacella dello Zibaldone leopardiano. Dal 2007 al 2014 è stato presidente del Comitato scientifico del Centro Nazionale di Studi Leopardiani di Recanati e, per il suo contributo allo sviluppo e alla diffusione della conoscenza del genio recanatese nel mondo, ha ricevuto nel 2009 il premio letterario «La Ginestra» (Torre del Greco), nel 2012 il premio «Giacomo Leopardi» (Recanati).
I miei rapporti con Lucio Felici risalgono ai begli anni in cui mi dedicavo con passione a Leopardi e frequentavo i celebri convegni leopardiani di Recanati. Il nostro dialogo verterà sulle direzioni in cui la sua poliedrica attività ha offerto gli abbinamenti più fruttuosi: il rapporto tra lavoro editoriale e studi letterari e il rapporto tra letteratura dialettale e letteratura nazionale.


Professor Felici, la sua attività di saggista e critico letterario si è sempre intrecciata a quella di editore. Come è questo abbinamento? Che cosa ha portato ciascuna di queste competenze all’altra?


Io ho mosso i primi passi in un’editoria d’altri tempi, quando alla Einaudi c’erano Calvino e Vittorini, alla Mondadori Vittorio Sereni, al Saggiatore Giacomo Debenedetti, alla Bompiani Umberto Eco. Le case editrici di allora – parlo degli anni Sessanta e Settanta dell’altro secolo – erano fucine di cultura, luoghi di progetti e dibattiti più vivaci di quelli delle aule universitarie. Perciò non ho sofferto alcuno iato tra lavoro editoriale ed esercizio letterario: il primo serviva a dar forma al secondo, in termini di comunicazione verso un pubblico differenziato di lettori. Del resto, nella Garzanti – dove sono rimasto per ventotto anni con incarichi vari – entrai per vie universitarie, quando, nel 1964, Walter Binni mi offrì l’opportunità di assisterlo nella preparazione del suo Settecento letterario per la Storia della letteratura italiana diretta da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, nota a professori e studenti come «il Cecchi/Sapegno». Dal comitato scientifico di quella fortunatissima opera transitai nel mondo fervido delle Redazioni Garzanti, una scuola di scrittura ante litteram, dove i dizionari, le enciclopedie monotematiche (le famose «garzantine»), i manuali scolastici,  li scrivevano redattori d’alto livello, i quali discutevano alla pari con gli specialisti delle singole discipline. Anche per le collane di classici («I Libri della Spiga» e l’economica «I Grandi Libri») l’apporto delle redazioni era determinante. C’era una filologia editoriale che si sposava felicemente con quella accademica.

Da editore Lei ha conosciuto e lavorato con insigni scrittori e critici letterari. Qualcuno di loro ha mai influito sulla sua attività di editore, e in che senso?


È lungo l’elenco degli intellettuali che ho conosciuto e frequentato alla Garzanti, e da tutti ho appreso qualcosa. Tra i poeti, Luzi, Bertolucci, Caproni, Giudici, Raboni; tra i narratori, Volponi, Arpino, Camon, Cerami e Gina Lagorio; tra i critici, Baldacci, Carlo Bo, Fortini (che era anche poeta), Pampaloni, Dante Isella. C’erano poi i consulenti e collaboratori per le letterature europee. Raboni mi è stato collega in redazione e la sua abilità nel rielaborare un testo insoddisfacente era straordinaria: da lui ho imparato a rendere chiare e leggibili certe tortuosità cui si abbandonano i professori, una sorta di arte maieutica. L’altro mio modello è stato Sebastiano Timpanaro, consulente per l’area greca e latina: grande filologo, insigne leopardista, accademico dei Lincei, a causa delle sue nevrosi aveva rinunciato all’insegnamento e faceva il correttore di bozze (forse qualcosa di più) alla Nuova Italia, e a lui è ispirato il romanzo Il correttore di George Steiner. I testi che mi arrivavano da Timpanaro, accompagnati da minuziose avvertenze e postille, erano un esempio unico di simbiosi tra filologia e cura editoriale. È stato lui a inculcarmi una fondamentale lezione: ogni intervento redazionale, anche se si tratta di punteggiatura, deve essere preceduto da un accertamento scientifico.

Parlando dell’avventura editoriale dell’edizione Pacella dello Zibaldone leopardiano e delle resistenze da parte di alcuni filologi al «metodo Pacella», Lei ha detto che la filologia dà buoni frutti quando si brucia nell’immedesimazione simpatetica con il mondo dell’autore. Vuole spiegare questa affascinante formula?


È in voga un certo filologismo arido, fine a se stesso, che scruta i testi avulsi dai contesti storici e biografici, come se fossero nati per autogenesi. Ci si immerge nel laboratorio dell’autore, si sciorinano occorrenze, varianti, figure retoriche, ma l’autore resta lontano, uno sconosciuto, perché per catturarlo il critico deve mettersi in umile ascolto e tentare con lui un dialogo fraterno. Se manca il rapporto empatico, la filologia e qualsiasi altro metodo d’interpretazione diventano autoreferenziali. Per restare a Leopardi, la filologia che mi appassiona è quella che conducevano Timpanaro e Pacella, o quella che fa, in modo personalissimo, Luigi Blasucci: rigorosa, penetrante, ma senza mai prescindere dal pensiero e dal vissuto del poeta. 

Quale dei suoi lavori filologici sente più empaticamente suo?

Non mi ritengo un filologo. Sono un lettore che tenta di interpretare i testi ricorrendo anche alla filologia; e non sta a me giudicare dove meglio mi è riuscito. Posso soltanto dire che sono affezionato alla mia lettura della canzone Alla Primavera di Leopardi: è stato il mio primo contributo leopardiano e ci sono tornato su più volte, fino a farne il centro focale di un libro del 2005, L’Olimpo abbandonato. Mi sembra che lì io abbia messo in campo tutte le mie capacità esegetiche, riconducendo l’analisi testuale della canzone ai pensieri dello Zibaldone sui miti, sulla perdita e la nostalgia delle «favole antiche», in un orizzonte filosofico e antropologico che accomuna Leopardi ai grandi romantici europei (Schiller, Keats, Hölderlin).

In questo momento di veloce trasformazione tecnologica e di mutazione comportamentale del lettore e del mercato, quali sarebbero a suo parere le principali preoccupazioni e provocazioni per un editore-filologo?


Domanda difficile, proprio perché siamo in una fase di veloci trasformazioni. La cosiddetta «rete» ci mette a disposizione testi informatizzati di diseguale affidabilità. Il libro cartaceo resiste a stento mentre avanzano gli e-book; le collane di classici si spengono l’una dopo l’altra, non hanno più mercato. Però ci sono filologi di nuova generazione che si cimentano con le attuali tecnologie e hanno cominciato a informatizzare testi classici con preziose funzioni che consentono d’interrogarli. L’ideale sarebbe che a tali meritorie iniziative si affiancassero dei redattori specializzati, come quelli delle case editrici di un tempo. Ma chi li pagherebbe? 

Occupiamoci un po’ anche dei suoi autori preferiti: Leopardi e Belli. Come spiega la sua passione per due scrittori così diversi quanto a filosofia, temi, stile e linguaggio?


Ho detto in altra occasione che quei due autori convivono in me conflittualmente. Sono due mondi, Leopardi e Belli, distanti e incomunicanti, sicché per passare dall’uno all’altro s’impone un’inversione di rotta mentale e psicologica.
La loro creatività segue due strade opposte. Quella di Leopardi è costantemente ascensionale, parte dall’esperienza del «sensibile», degli accadimenti interiori ed esteriori, per scalare le vette di un pensiero vertiginoso, che interroga l’altrove – la luna, il firmamento, la Natura, il Fato – sul senso dell’essere e dell’esistere; e il poeta reinventa una lingua insieme classica e moderna, che resta sempre casta, purissima, anche nei moti di ribellione e nella satira. Belli trova la sua verità di poeta abbandonando una lingua che definisce «fradicia per sette secoli di vita» e scegliendo un dialetto infimo, quello della plebe (non popolo) di Roma. La sua è una strada tutta in discesa, è un inabissarsi nell’inferno di una subumanità tragica e buffona, nutrita di superstizione, pronta a usare il coltello senza rinunciare alla corona del rosario, avida di cibo, di vino e di sesso. Hanno entrambi una visione negativa della vita e del creato, ma «il brutto / poter che, ascoso, a comun danno impera» di Leopardi, metafisica proiezione del Male che governa l’universo, non è paragonabile al Cristo di Belli che, sulla croce, ha sparso per i potenti e prepotenti il sangue, per i derelitti il siero. Qui c’è la bestemmia che solo un cattolico in crisi poteva inventare, negando addirittura la grazia salvifica della Redenzione. Quella bestemmia il poeta la fa pronunciare dal plebeo ignorante, nel quale si è trasferito e mascherato: un’operazione mimetica ambigua, estranea a Leopardi.
Dunque non so dirle perché mi sono interessato quasi contemporaneamente a Leopardi e a Belli (ma assai di più al primo). Sono i due più grandi poeti italiani dell’Ottocento: due geni che forse, in quanto opposti, possono illuminarsi a vicenda. Ma Belli non sarà mai universale come Leopardi, per una questione di lingua connessa alla differenza d’ampiezza e profondità del pensiero e della cultura. Basti confrontare lo Zibaldone leopardiano e quello belliano: il primo è «un diario meramente interno e mentale, redatto in una prosa spontanea e non costruita … libro unico probabilmente in tutte le letterature» (definizione di Contini suscettibile di integrazioni), il secondo è uno dei tanti «magazzini» in cui si usava raccogliere sunti e tracce di letture, con rare osservazioni personali.   

Sin da giovane Lei si è interessato alla poesia dialettale, più esattamente a quella in romanesco di Belli e di Trilussa. Questa sua attenzione scaturisce solo dal valore che riconosce a questi poeti oppure anche da un dovere morale, per non dire politico, di affermare i diritti culturali del dialetto?


L’essere nato e cresciuto a Testaccio, uno dei rioni più popolari di Roma, un rione pasoliniano, avrà probabilmente influito sul mio interesse per i poeti romaneschi. Di più avranno influito le mie prime esperienze letterarie, l’aver esordito in una rivista romana che si occupava anche di dialetto, e aver poi organizzato i corsi dell’Istituto Nazionale di Studi Romani. Per essi, Bruno Cagli, Nicola Merola, Eugenio Ragni ed io – con la benedizione di Giorgio Petrocchi, presidente dell’Istituto – negli anni Ottanta realizzammo dei cicli di «letture belliane», che furono raccolte in dieci volumetti dell’editore Bulzoni. A tenere quelle letture invitammo studiosi anche non romani come Umberto Carpi e Giovanni Raboni, professori universitari come lo steso Carpi, Giulio Ferroni e Amedeo Quondam, non i fan dilettanti che se ne risentirono. Era una provocazione puramente letteraria, che voleva restituire a Belli il ruolo di poeta assoluto, sottraendolo al folclore, agli equivoci dei culti paesani.

Sempre sul tema dialetto vs lingua nazionale: quale è la tendenza oggi in Italia? Si scrive ancora poesia e prosa in dialetto? Ci sono dei dati al riguardo e come interpreta tali tendenze?


Per molto tempo ho giurato sul verbo di Gianfranco Contini che, nell’Introduzione alla Cognizione del dolore di Gadda, aveva scritto: «l’italiana è sostanzialmente l’unica grande letteratura nazionale la cui produzione dialettale faccia visceralmente, inscindibilmente corpo col restante patrimonio». Poi, però, ho preso le distanze da certa esaltazione dei dialetti strumentalizzata da rozzi movimenti separatisti sconfinanti nel razzismo. Negli anni del neorealismo, i dialetti erano tornati in onore dopo la condanna decretatane dal nazionalismo fascista, ma la loro rivalutazione stava prendendo una brutta piega, complici involontari anche alcuni linguisti e critici letterari che hanno dato troppo credito ad autori dialettali insignificanti. Nella storia della letteratura italiana, i dialettali che contano sono una decina; quelli che continuano a verseggiare in dialetto sono una miriade, e a leggerli sono gli amici del quartiere (quando li leggono). Altro è il discorso sulla mescidazione lingua-dialetto, il calco di dialettismi sulle strutture sintattiche dell’italiano. In conclusione non possiamo ignorare che quello che Contini chiamava «restante patrimonio» significava tutta la tradizione toscana diventata italiana e universale: Dante, Petrarca e il petrarchismo, Boccaccio e la prosa novellistica, fino ad arrivare ai Promessi sposi del Quaranta «risciacquati in Arno», cui taluno preferisce l’edizione del ’27 perché intinta di lombardismi più «espressivi». Ma è dall’edizione Quaranta che fiorì una narrativa a diversi livelli, linguisticamente atta alla comunicazione nazionale e alla trasposizione in altre lingue.
Non conosco statistiche sulla produzione attuale nei vari dialetti, ma mi pare di capire che sia una produzione sovrabbondante e di qualità piuttosto scadente; nei casi migliori si tratta di dialettalità «riflessa» (per usare un termine di Benedetto Croce), ossia di un travestimento artificioso della letteratura in lingua.

Come forse saprà, da quasi dieci anni con la prestigiosa casa editrice romena Humanitas ci sforziamo di portare avanti la collana bilingue di classici italiani «Biblioteca Italiana», unica in Romania e fra le poche nel suo genere al mondo. La sua straordinaria esperienza di editore quale destino le fa prevedere per una tale impresa?


Per tutti i ragionamenti che abbiamo fatto, l’iniziativa romena è ammirevole e audacissima. Tradurre i classici significa promuovere il dialogo tra popoli e civiltà, perciò auguro alla sua impresa tutta la fortuna che merita, ma non so predirne il destino perché l’editoria di oggi è troppo lontana da quella che ho conosciuto e praticato nel secolo scorso.


Intervista realizzata da Smaranda Bratu Elian
(n. 5, maggio 2015, anno V)