«Inferno», nuova edizione critica. In dialogo con Mira Mocan e Corrado Bologna

Perché una nuova traduzione dell’Inferno in lingua romena? Per due ragioni principali. Anzitutto, perché la traduzione iniziata da Marian Papahagi nel 1982 e portata a termine nel 1996 non disponeva di un’edizione critica integrale, bensì di una pubblicazione frammentaria, qualche canto accolto in varie riviste culturali romene: ad esempio, i Canti I-IV dell’Inferno (con apparato critico e commenti), in «Apostrof» n. 5, 1997; il Canto X dell’Inferno, in «Orizont» n. 8, 1998; il Canto XXXIV dell’Inferno, in «Echinox» n. 1-2-3, 1997; dal Purgatorio, i Canti I-VI, in «Echinox» n. 1-2-3, XXXI, 1999 (cf. Irina Papahagi, nella sua prefazione all’Inferno, Dante Alighieri, trad. Marian Papahagi, Editura Humanitas, București 2012, p. 7, n. 1-5).
Inoltre, l’iniziativa di una nuova traduzione dei testi danteschi consente anche un aggiornamento semantico e concettuale di pari passo con la traduzione letterale, l’ermeneutica e l’esegesi di un testo medioevale, qual è il nuovo testo della prima cantica in lingua romena. Spetta al filologo la traduzione letterale dei canti dell’Inferno, prescindendo dall’ambiguità di un testo e delineando le simmetrie intertestuali. Quindi, a parte le varie scelte (i.e. commenti, il senso letterale, l’apparato critico) del traduttore, Marian Papahagi lavora nella sua traduzione dell’Inferno con la tipologia e la forma dei poemi medioevali, in quanto studioso dei poemi di Guittone d’Arezzo (1235-1294) e di Guido Guinizelli (1235-1276), interrogandosi nel contempo sugli influssi della poesia araba nella poesia europea medioevale, dettaglio aggiunto alla presentazione dell’Inferno presso l’Unione degli Scrittori (Bucarest, il 28 marzo 2012) dalla sua collega Grete Tartler, nell’articolo Transparentă, aspră, vie: traducerea Infernului în hermeneutica lui Marian Papahagi, pubblicato in «Romania Literară» n. 17/2012. Irina Papahagi, italianista nonché figlia di Marian Papahagi, ha il merito di aver svelato con minuzia l’atmosfera e il contesto dei corsi di traduttologia (traduzioni e analisi dei testi danteschi presso l’Università di Cluj), nonché le varie tappe della traduzione della prima cantica di Dante Alighieri. La nuova edizione dell’Inferno è curata da Mira Mocan, ricercatrice e docente presso l’Università Roma Tre e l’Università della Svizzera Italiana, Lugano, ed è corredata da un’introduzione, da un ampio apparato critico e da commenti, oltre che dalla prefazione scritta da Irina Papahagi.
Le traduzioni precedenti della prima cantica e dei vari canti dal Purgatorio, nonché della versione integrale della Divina Commedia in lingua romena, appartengono a letterati come: Nicu Gane, George Coșbuc, Alexandru Marcu, Eta Boeriu, George Pruteanu, Răzvan Codrescu (l’Inferno).
Molto probabilmente, nella storia della letteratura umanistica vernacolare resteranno soprattutto le traduzioni letterali conformi ai canoni, le quali permettono al lettore la libertà di immaginare il testo anziché di appropriarsi della visione soggettiva del traduttore. L’ermeneutica e nel contempo l’esegesi dell’opera dantesca sono delle scelte complementari a una traduzione letterale; in tal senso l’interpretazione di Horia Roman Patapievici contenuta nel suo libro Ochii Beatricei. Cum arăta cu adevărat lumea lui Dante? (Editura Humanitas, Bucuresti 2004) è un punto di riferimento per il lettore romeno; si veda anche la traduzione italiana Gli occhi di Beatrice. Com’era davvero il mondo di Dante? (Bruno Mondadori Editrice, Milano, 2006, 100 pp.). Tuttavia, lo sforzo interpretativo comporta un approccio diverso (ma anche complementare) da quello del filologo. Quest’ultimo rispecchia un testo medioevale che, nella sua forma, dovrebbe essere fedele all’endecasillabo, e al ritmo. L’intervista al prof. Corrado Bologna e a Mira Mocan potrebbe essere utile per chiarire i piccoli dettagli in merito alla traduzione di Marian Papahagi. È questa la ragione per la quale abbiamo pensato a questo dialogo.

Qualche tempo fa, nella sede dell’Unione degli Scrittori, abbiamo assistito a un’insolita presentazione dell’Inferno di Dante, insolita in quanto veniva presentata una traduzione iniziata trenta anni fa dall’italianista Marian Papahagi, traduttore, critico letterario, professore di filologia romanza presso l’Università di Cluj e presso altre università all’estero, deceduto il 18 gennaio del 1999. Irina Papahagi, che ha scritto anche la prefazione di questa edizione dell’Inferno, a cura di Mira Mocan, offre un aneddoto che mi sembra utile ricordare in questa sede: Marian Papahagi pensò di iniziare a tradurre i primi canti danteschi mentre stava facendo il pieno di benzina. I primi sei canti sono felicemente testimoniati dal manoscritto autografo a matita e datato dicembre del 1982, come edenzia ancora la figlia di Papahagi. Inoltre, i primi cinque canti sono stati tradotti a un ritmo sostenuto, un canto al giorno, ovvero in cinque giorni. Entriamo nel mondo storico dell’esilio di Dante da Firenze, la sua condanna a morte, il suo destino itinerante, il linguaggio variegato del poeta fiorentino, l’amore cortese e Beatrice.

M.M.: Sono certamente dei punti che richiederebbero dei mesi per essere trattati. Quello che possiamo dire in questa prospettiva, anche riguardo la resa in romeno della prima cantica, è forse lo stretto legame che sicuramente esiste fra la genesi di quest’opera, proprio nei primissimi canti, e l’esperienza dell’esilio di Dante. Un poeta che non può ritornare nella sua città natale perché è stato ingiustamente condannato a morte e che dunque si ritrova a errare per l’Italia, conoscendo quindi, quasi da straniero, quella che sarebbe in realtà il suo stesso Paese. Probabilmente questo lo ha portato a contatto, anche se era molto attento, con le varie parlate, con i dialetti che sentiva parlare intorno a sé e che sicuramente entrano polifonicamente nell’Inferno. E, poi, noi conosciamo Dante come il poeta che canta Beatrice e tuttavia, nell’Inferno, certamente non c’è. È evocata come una presenza lontana e, quindi, al dolore di questo abisso terribile del peccato si collega sicuramente anche l’assenza della donna amata.

Come le sembra la traduzione dei canti dell’Inferno di Dante fatta da Marian Papahagi? In breve, qual è il volgare illustre della traduzione di Papahagi?

C.B.: Marian Papahagi è un grande italianista, è un grande romanista. Conosceva perfettamente l’italiano. Ha fatto grandi, importantissimi studi sulla letteratura italiana antica, in particolare su due poeti difficili, Guittone d’Arezzo (1235-1294) e Guido Guinizelli (1235-1276). Questo è testimoniato nella sua bibliografia. È un romeno che ha insegnato agli italiani qualcosa in più sull’italiano antico. Il suo Dante è ammirevole. Un solo esempio: «În miez de drum când viața ni-e-mpărțită/ mă pomenii în beznă-ntr-o pădure/de era dreapta cale rătăcită./Ah, să spun cum era nu-mi e ușure/pădurea păduroasă, aspră foarte,/ce-n gând presară iarăși spaime sure». Avrò sbagliato qualche accento, ma l’importante è questo verso: «[...]/pădurea păduroasă, aspră foarte,/». L’italiano dice [...] aspra e forte. Il forte che è «puternic», «tare», tutte e due le cose insieme, qui diventa aspră foarte (i.e. foarte aspră). Marian Papahagi ha intuito perfettamente che la difficoltà di questo poeta è la creazione di lingue, la grande forza metaforica, la grande densità che il suono ha nel contenere, nella capacità di contenere dunque molti significati. Aspră foarte è un piccolo, piccolo esempio di un solo mezzo verso, nel quale viene contenuta una creatività nuova. Credo che Dante accetterebbe che aspră foarte sia aspra e forte. Il suono e il senso si ritrovano finalmente uniti. Marian Papahagi ha colto perfettamente, come dimostrano Mira Mocan nella sua eccellente edizione e Irina Papahagi nella sua prefazione, il valore delle parole in rima che quindi ha conservato sempre, fin dove è stato possibile, oltre ovviamente all’endecasillabo e al ritmo; per esempio, abbiamo qui una fotografia di un manoscritto nel quale si trovano departe, parte, desparte, tre parole in rima che lui si è appuntato prima di tradurre. Dunque, la sua traduzione è partita dalle parole in rima di Dante, nelle quali viene contenuto il massimo del significato di tutto il verso e le ha appuntate per conservarle poi nella traduzione. Questo lavoro di passaggio dalla destra alla sinistra del verso, dalla parola che contiene la rima fino all’inizio del verso, dimostra come ha lavorato Marian Papahagi, cioè proprio come Dante, come tutti i poeti che pensano prima alla rima e poi al verso che la contiene; almeno così immaginiamo noi filologi. È una traduzione assolutamente bella e fedele. Quasi sempre le belle sono infedeli!

La geografia dell’Inferno è soprattutto l’abisso dell’Inferno, il mondo di Lucifero. Dante descrive luoghi o vari stati della nostra psiche?

M.M.: È una bella domanda. Un poeta medievale avrebbe detto che gli stati della nostra psiche sono dei luoghi. I medievali, in generale, immaginavano la nostra anima e i suoi percorsi come degli spazi. E quindi, in questo senso, certamente l’Inferno è un luogo, ha una geografia, che rappresenta lo spazio, in questo caso, degli stati del dolore. 

C.B.: Aggiungerei che quello che sta dicendo Mira Mocan è così vero e moderno che un grande poeta moderno, Ezra Pound, il maestro di tutto il Novecento, ha ripreso esattamente da Riccardo di San Vittore (1110-1173) le cose che Mira Mocan ha appena detto. Mira Mocan è un’eccellente studiosa di Riccardo di San Vittore in Dante. Sta proprio per uscire un suo libro su questo tema. Il tema degli stati della mente è quello che interessava a Riccardo di San Vittore, è quello che interessava a Ezra Pound fino a T. S. Elliot, i quali per primi nel Novecento riscoprono Dante, dopo un periodo abbastanza lungo di silenzio. Il Settecento, l’Ottocento sono secoli quasi senza Dante. Tutto il secolo barocco non conosce praticamente Dante, conosce Petrarca, ma non Dante. Il Novecento è il secolo che riscopre questo grande autore di un libro dell’Universo e Ezra Pound, nei Cantos, vuole riscrivere la Commedia di Dante; li chiama cantos come i canti della Commedia e contemporaneamente intuisce che si tratta di un profondo viaggio all’interno della mente, negli stati mentali a cui si deve ascendere salendo verso il Paradiso, ma passando anche attraverso l’esperienza dell’Inferno, cioè del dolore, della sofferenza, dell’abisso, della solitudine. Non è un caso forse se Dante ha inventato il Purgatorio. Per la prima volta abbiamo una descrizione del Purgatorio. Era stato introdotto nella teologia poco tempo prima. Il Purgatorio di Dante nasce dall’Inferno, nel senso che Lucifero, che lei ha citato, cade dal cielo e penetra profondamente nella terra. La terra si ritrae spaventata, del tutto sgomenta, piena di terrore, nel dover toccare questo corpo di peccato, che da corpo di luce si è fatto corpo di materia. E, quindi, nel ritirarsi si produce il Purgatorio, dall’altra parte. Questa invenzione geniale di Dante fa sì che l’uomo venga creato nel Paradiso terrestre, cioè in cima al Purgatorio, subito dopo la nascita del Purgatorio come conseguenza del primo peccato dell’angelo. Quindi, la storia del peccato nella storia della salvezza e poi nuovamente del peccato e della nuova necessaria salvezza si uniscono in uno. Tutto questo è anche storia degli stati della mente che, attraverso l’orrore della colpa, della caduta, della solitudine, dell’abbandono, del vuoto riesce poi a ritrovare la luce passando attraverso la storia della materia. Credo che Dante sia un autore del nostro tempo. È un autore medioevale del Novecento.   
 
Dante e Beatrice. Mira richiamava nella sua introduzione la voce di Jorge Luis Borges, L’ultimo sorriso di Beatrice. Dante vuol vedere ancora una volta il sorriso di Beatrice, prefigurando il Paradiso. Come si legge infatti la Commedia dantesca attraverso il sorriso e lo sguardo di Beatrice?

M.M.: Per dei riferimenti diciamo molto più che autorevoli, sicuramente, e colti, che illustrano la storia del pensiero, soprattutto per i lettori romeni, possiamo citare il bel volume di Horia Roman Patapievici, Gli occhi di Beatrice, e dunque, col riferimento proprio a questa citazione di Borges, cercherò di mettere in luce un altro aspetto, cioè che Borges, come tutti i grandi autori e poeti, guarda a Dante in un modo, per fortuna, un poco diverso da quello dell’accademia, diciamo così, e lo vede come una persona umana e soprattutto con le sue debolezze. In questo caso ci presenta semplicemente un povero poeta innamorato che, disperato di non aver mai colto nella sua vita lo sguardo di Beatrice, dice Borges, l’ha prima sognata nei suoi incubi come una donna severa che lo rimprovera. Ci sarà pure un motivo se lei non l’ha mai preso in considerazione... per fortuna... e poi, finalmente, immagina di incontrarla nel suo viaggio in Paradiso.

C.B.: Direi che ha perfettamente ragione Mira Mocan a richiamare Borges. Quest’idea di Borges era già stata di Frederico Ozanam (1813-1853), ai primi dell’Ottocento in età romantica. È un’idea romantica evidentemente, ma è una bella idea. Tutto sommato, Beatrice scompare dall’opera di Dante a metà della Vita Nuova. È un’opera che scrive da giovane, intorno ai venticinque anni. Da quel momento non c’è più traccia di Beatrice in tutta la sua opera fino al canto XXX del Purgatorio. Quando torna, Beatrice non sorride affatto! Beatrice aspetterà molto per sorridere a Dante. Per avere un sorriso da lei, Dante deve salire ancora negli stati mentali, deve crescere nella propria indipendenza nei confronti della colpa. Quale sarà la colpa di Dante? Sono tante le colpe di Dante, ma fondamentalmente Beatrice gliene rimprovera una che è una colpa letteraria. Beatrice dice a Dante di aver perso tempo. Correndo dietro a una pargoletta, lo dice nel canto XXXI del Purgatorio. Chi sarà questa pargoletta? Un’altra donna? Certo! Ma la cosa interessante è che in questa allegoria, tipica del Medioevo, Dante nasconde dietro all’immagine di una giovane donna un’altra poesia, un altro modo di fare poesia. Quello che lui chiamava lo stato delle rime petrose. E come se ci fosse uno stato di pietra nella poesia di Dante, si è impietrito: [...] così nel mio parlar vorrei essere aspro come negli... questa dura pietra, tu donna della mia mente sei di pietra e mi hai impietrito e io come la pietra, sono aspro e duro. Ecco la aspra foarte dell’inizio della Commedia che torna. Questa poesia non è ancora la poesia che Dante deve scrivere per Beatrice. Beatrice, cioè Dante che inventa Beatrice in questo modo, rimprovera a Dante di non aver scritto subito dopo la Nuova Vita la Commedia. La fine della Vita Nuova accenna all’inizio della Commedia: «[...] devo tornare a dire di Lei cosa mai prima avrei detto di alcuna», cioè lo stato più alto che la mente umana può raggiungere. Non avendolo fatto, Dante stesso si sottopone a purgazione, chiede di essere purgato dalla colpa. Il Purgatorio di Dante è una concentrazione anche di storia letteraria. Si elimina via via tutto ciò che è la storia dell’uomo, la letteratura, il ricordo della letteratura e alla fine c’è il Lete, il fiume dell’oblio. Da quel momento si sale in Paradiso con uno stato puro della mente, di sola luce, dentro la quale non c’è altro che la pura visione. Si perde la memoria di tutto ciò che si è visto. Rimane solo lo sguardo puro. Questo è il punto più alto che Dante ci offre e da cui ci chiama.

Evocando la memoria di Marian Papahagi ai giovani che continuano il suo lavoro nell’area degli studi danteschi, lei ha parlato del lutto che celebra il dolore, ricordando Ernesto De Martino, citando forse un brano dal suo libro Morte e pianto rituale nel mondo antico: «(...) seppellire il morto, vuol dire farlo passare in noi, trasformare la perdita in valore, vincere la crisi del cordoglio». Potrebbe spiegare come si trasforma la perdita in valore? In fondo, non le sembra sia proprio anche questo il messaggio profondo che Dante ci lascia?

C.B.: La ringrazio molto per questa domanda. Sono un solo pensiero, una sola idea. Credo davvero, al di là del suo altissimo valore letterario, nel grande valore filologico che ha questa traduzione, una delle più belle in una lingua straniera che io conosca della Commedia, più bella di alcune traduzioni inglesi, francesi. Questo è un lavoro eseguito nello spirito della scuola filologica romana dove Marian Papahagi si formò sotto la guida di Aurelio Roncaglia (1912-2001), il che è molto evidente. Quindi, offre molto anche all’Italia, non solo alla Romania. Poi, quella frase che lei ricorda di Ernesto De Martino e che ho voluto porre quasi a conclusione del mio discorso significa questo: noi dobbiamo far passare il dolore, non passare noi nel dolore, far passare la morte in noi, non noi nella morte. Questa è l’elaborazione del lutto; la vita è una continua elaborazione del lutto. C’è una poesia molto bella di Lucian Blaga, che io e Mira Mocan abbiamo studiato e tradotto assieme, in cui si dice: «[...] vezi orice amintire este dorul unei răni/ogni ricordo è traccia di ferita». Ulisse viene riconosciuto per una cicatrice, per una urma unor răni, così come ogni ricordo è cura, terapia di una ferita che ha lasciato un segno in noi. Credo che la Divina Commedia lasci un segno in noi e la morte di Marian Papahagi ha lasciato un forte segno in noi. Le due cose si ricompongono oggi grazie a due giovani allieve di Marian Papahagi, Mira Mocan e Ina Papahagi, che sono state allieve sue come pure della cultura italiana della scuola di Roma. In questo senso, dal momento esatto in cui Marian Papahagi ha interrotto non tanto la sua traduzione, che qui è stata presentata completa per tutto l’Inferno, ma il suo commento, da quel punto esatto, Mira Mocan ha ripreso, completato e concluso il commento. Questo è un atto umanistico, di alta qualità morale: riprendere la parola interrotta, restituirla a vita. Credo che in questo senso la Commedia si ricongiunge alla Vita Nuova e si ridà vita a questo Inferno che era rimasto in riviste importanti come «Echinox», «Autograf», e che ora diventa un volume da conservare nella memoria, e questa restituzione di vita alla memoria è un atto in cui si elabora veramente il dolore. Credo che si elabori il dolore della scomparsa, il dolore dell’interruzione. Forse Mira Mocan può dire qualche parola in più.

Gherush92, il Comitato per i Diritti Umani – un’organizzazione scientifica indipendente non profit, chiede di eliminare dal programma scolastico la Divina Commedia in quanto antisemita, razzista e omofoba. Viene spesso richiamata la posizione di Valentina Sereni che definisce «offensivo e discriminatorio» il canto 34 dell'Inferno, in cui Giuda Iscariota (l'ebreo traditore secondo la tradizione biblica) viene raffigurato tra le fauci di Lucifero, a testa in giù. Poi, i brani islamofobi nel canto 28 sancisce la condanna di Maometto, «seminatore di scandalo e di scisma». In fine, l'omofobia, poiché Dante colloca tra i dannati il suo maestro ser Brunetto Latini, in quanto sodomita. Come si svolge questo dibattito in Italia? Gherush92 vs Divina Commedia? Non è Dante abbastanza politically correct?

M.M.: Ma perché ci sia un dibattito, direi, ci deve essere almeno una parvenza di parità fra i due interlocutori, dunque, fatico un poco a immaginarmi una vera e propria presa di posizioni, un vero dibattito su questo tema. Tuttavia, è vero che questa è una notizia che è apparsa recentemente in Italia, è stata divulgata e che cosa si può dire? Semplicemente che è un segno anche piuttosto preoccupante di come si stia perdendo ultimamente ogni senso della profondità storica della nostra vita nella nostra cultura. E chiaro che Dante va naturalmente letto anche nel suo tempo e che da questo punto di vista questa presunta accusa non avrebbe alcun senso perché utilizza un linguaggio che ai tempi danteschi semplicemente non esisteva. Detto questo, certamente è un po’ paradossale imputare a un autore di così profonda, non direi nemmeno morale, eticità e umanità, delle colpe di incomprensione delle problematiche umane, ecco!

C.B.: Sì, Mira Mocan ha già detto benissimo e credo che questo sia una delle prove della vittoria della stupidità sull’intelligenza. Non dobbiamo lasciarli vincere, occorre dare una risposta ferma. È una delle cose più sciocche che siano state mai dette nella storia dell’uomo. Dante Alighieri ha scritto il più grande libro della storia umana probabilmente, un libro che vuole rappresentare l’Universo, che vuole rappresentare l’armonia dell’Universo ed anche le disarmonie all’interno di questa armonia. L’armonia che Dante ottiene è l’armonia conquistata attraverso la dura fatica di un percorso morale, etico. Questo è il fondamento, l’etica. Il grande senso dell’armonia conquistata attraverso l’individuo e gli altri individui. Dante dice: «[...] io mi so nun che quando amor m’ispira noto»/[...]», io sono uno, un uomo, uno degli uomini, e apre la Commedia, non lo dimentichiamo, con un verso decisivo: «[...] În miez de drum când viața ni-e-mpărțită/mă pomenii...» ecc., ecc., ma nel mezzo del cammin di nostra vita, è la vita di tutti noi quella di cui Dante attira l’attenzione! Siamo tutti noi richiamati a percorrere con lui questo cammino di perfezionamento. Che poi, dentro questo libro ci siano delle condanne per personaggi che a suo tempo venivano condannati è un discorso, ma la stupidità del moderno e di questo politically correct che dimentica appunto la storia, è tale che trasforma il politically correct in qualche cosa di astratto. Politically correct dovrebbe essere antropologia, riconoscimento dell’altro, della differenza dell’altro. Questo libro è il nostro altro. Dobbiamo anzitutto rispettare lui, la differenza, la sua alterità. Questo libro è stato scritto poco meno di mille anni fa. 1321 è l’anno della morte di Dante, fra pochi decenni saranno mille anni. È un libro che da mille anni parla, come dice benissimo Mira Mocan, nella sua introduzione, citando Italo Calvino, un grande scrittore del Novecento europeo e mondiale, che doveva andare in America e ha scritto le Lezioni americane poco prima di morire. Quello che ha ancora da dire non è finito qui. Dante ha ancora molto da dirci, ma è un testo difficile, aspro e forte, e dobbiamo fare i conti non con la stupidità umana che pretende di cogliere i piccoli dettagli, gli eventuali piccoli errori che possono anche esserci nel libro, punti di vista storicamente errati. Ciò che conta è il senso complessivo di questo libro dell’Universo, davvero il libro più alto che sia mai stato scritto da un uomo. Guardiamo al sorriso di Beatrice, alla fine della salita. Non guardiamo alle piccole cose, ai sassolini che dobbiamo eliminare e facciamo così sempre. Il senso morale che dobbiamo restituire soprattutto alle generazioni giovani, in questo libro può trovare alimento, nutrimento grande e profondo.

M.M.: Se posso aggiungere un’ultimissima cosa. La storia ci insegna proprio che iniziare a proibire i libri non dà mai l’avvio a una civiltà.

C.B.: Tutte le volte che si sono bruciati i libri, hai ragione Mira, è stato l’inizio di un momento di una grande negazione della libertà. Quindi, laddove si nasconde il pericolo della negazione della libertà non dobbiamo vedere invece qualcosa che appare luccicando ed è una proposta della libertà.

Senz’altro questo è un falso problema. Vi ringrazio! 

Intervista realizzata da Daniela Dumbravă
(n. 8, agosto 2012, anno II)
Intervista pubblicata in romeno sul sito medievalia.ro,
partner culturale della nostra pubblicazione




Dante Alighieri, Infernul, a cura di (commenti e studio introduttivo) Mira Mocan, traduzione (integrale) e commenti (parziali) Marian Papahagi, prefazione di Irina Papahagi, Editrice Humanitas, Bucarest 2012, 593 pp. [Coll. bilingue coordinata da Smaranda Bratu Elian e Nuccio Ordine, Biblioteca Italiana, pubblicata col patrocinio dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e del Dipartimento di Linguistica dell’Università Roma Tre]


Nota biobibliografica

Mira Mocan è ricercatrice in Filologia romanza presso l´Università Roma Tre. Si è laureata presso l´Università «La Sapienza» di Roma con una tesi dedicata all´analisi dell´evoluzione semantica del termine cossirar nell´ambito della lirica trobadorica, con costante riferimento ai campi semantici coperti dal termine in testi mediolatini di carattere religioso e filosofico (tesi pubblicata nella monografia I pensieri del cuore. Per la semantica del provenzale «cossirar», Roma, Bagatto Libri, 2004). «Absurda escalina»? Nota a «Purgatorio» XXVI 146, in: AA. VV., Lectio difficilior, a cura di C. Bologna e S. Conte, Roma, Nuova Cultura, 2005, pp. 131-139 e Per una nuova interpretazione di BdT 183, 11: «a bon coratg´ e bon poder», in «Romania», 493-494/1-2 [2006], pp. 228-236. Ha conseguito il titolo di dottore di ricerca presso la medesima Università con un lavoro dedicato alla Presenza di Riccardo di San Vittore nella «Commedia» (cui è stato attribuito il premio Natalino Sapegno per la miglior tesi di dottorato per l´anno 2007), in cui si indagano le influenze dell´agostinismo di stampo neoplatonico della Scuola vittorina sul pensiero dantesco, in particolare i contatti di natura intertestuale tra il poema dantesco e gli scritti esegetici di Riccardo di San Vittore.

Corrado Bologna ha curato, fra l´altro, le raccolte di saggi di K. Kerényi, Nel labirinto (Boringhieri, Torino 1983) e di G. R. Cardona, I linguaggi del sapere (Laterza, Roma-Bari 1990), e l´edizione italiana di J. Starobinski, Ritratto dell´artista da saltimbanco (Boringhieri, Torino 1984). Ha collaborato all´edizione italiana di E. R. Curtius, Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter (La Nuova Italia, Firenze 1992). Ha riproposto in Italia, accompagnandoli con due saggi introduttivi, i volumi: Vita di Don Chisciotte e Sancio Panza di Miguel de Unamuno (Bruno Mondadori, Milano 2005); L´armonia del mondo di Leo Spitzer (Il Mulino, Bologna 2006).
Fra i libri pubblicati: Corrado Bologna (1992) (2a ed. 2000; trad. romena: Flatus vocis. Metafizica si antropologia vocii, Clusium, Cluj-Napoca 2004). (2004) Flatus vocis. Antropologia e metafisica della voce, con prefazione di P. Zumthor, Il Mulino, Bologna. Corrado Bologna (1993) Tradizione e fortuna dei classici italiani, 2 voll., Einaudi, Torino. Corrado Bologna (1995) Immagini di Fortuna. Pensiero, arte e letteratura fra antico e moderno, San Zanobi, Firenze. Corrado Bologna (1997) Alessandro nel Medioevo occidentale, coll. «Lorenzo Valla» - Mondadori, Milano (in collaborazione con P. Boitani, A. Cipolla e M. A. Liborio). Corrado Bologna (1998) La macchina del «Furioso». Lettura dell'«Orlando» e delle «Satire», Einaudi, Torino. Corrado Bologna (1998) Il ritorno di Beatrice. Simmetrie dantesche fra «Vita Nova» e «Commedia», Ed. Salerno, Roma.