Tra totalitarismo e miti collettivi: l'architettura dell'Italia fascista. In dialogo con Sorin Vasilescu

Sorin Vasilescu è architetto, professore all’Università di Architettura e Urbanistica «Ion Mincu» di Bucarest dove, negli anni, ha assunto anche importanti cariche scientifiche e amministrative quali Capo del Dipartimento di Studio della Forma e Design, Cancelliere dell’Università e Direttore della Scuola di Alti Studi. È membro dell’Unione degli Architetti e dell’Ordine degli Architetti di Romania, dell’Associazione degli Scienziati di Romania, dell’AEEA (Associazione Europea dell’Insegnamento di Architettura) e per molto tempo è stato Presidente dell’ICOMOS (International Council on Monuments and Sites)-Romania. Autore, coautore o coordinatore di importanti progetti di architettura e di design industriale o urbano realizzati in Romania o all’estero e di mostre di architettura, Sorin Vasilescu è ben conosciuto a livello internazionale anche per i suoi contributi teorici. Oltre le innumerevoli conferenze e i molti saggi e articoli pubblicati in Romania e all’estero, i suoi volumi dedicati all’architettura moderna e soprattutto a quella dei regimi totalitari del Novecento (Storia dell’architettura moderna e contemporanea in quattro volumi, il Dizionario degli architetti moderni in tre volumi, l’Architettura totalitaria con i suoi tre volumi, L’architettura dell’Italia fascista, L’architettura della Germania nazista e L’architettura della Russia stalinista, recentemente premiati dall’Accademia Romena), diffusi anche all’estero, fanno ormai parte della bibliografia obbligatoria per gli studiosi del periodo.
All’Italia e alla sua cultura lo legano non solo la propria famiglia (sua moglie è italiana) ma anche le varie collaborazioni nella Penisola: conferenze e mostre di architettura organizzate a Venezia, Udine, Roma o Genova, saggi pubblicati in periodici italiani di architettura, il contributo al Dizionario dell’architettura del XX secolo, la carica di presidente della fondazione italo-romena «Giulio Magni» e la qualità di membro del Centro Internazionale di Studi di Architettura «Andrea Palladio» di Vicenza. Per noi, italianisti romeni, è indimenticabile la nostra collaborazione del 1998 alla mostra organizzata a Bucarest all’occasione del bicentenario Leopardi. Ma non è di questa collaborazione che vorrei discutere qui con il professor Vasilescu bensì dell’importante volume L’architettura dell’Italia fascista (casa editrice Arhitext Design, Bucarest, 2011). 

Una volta liberati dal nostro totalitarismo, noi romeni, come pure gli altri europei scampati con il cataclisma della guerra ai propri totalitarismi, tendiamo di valutare anche i prodotti artistici in modo radicale: l’arte dei regimi totalitari è brutta perché imposta, quella delle democrazie è bella e buona perché libera. Il suo studio si affranca da un tale schematismo e propone non una visione politica ma una stilistica dell’architettura totalitaria. È una visione nuova questa?

L’analisi della matrice stilistica e del divenire del linguaggio e dei fatti dell’architettura «totalitaria», distinguendo gli aspetti positivi e di valore da quelli negativi, bombasticamente clasicizzanti, si è imposta a stento e a volte sotto formule semplicistiche che si appellavano spesso alla banale opposizione: democrazia uguale razionalismo uguale progresso; fascismo uguale reazionarismo uguale regresso. Vista in questa prospettiva, in sostanza retrograda e reazionaria essa stessa, l’architettura «totalitaria» italiana è stata valutata più politicamente che stilisticamente. Nell’immediato dopoguerra, quando le ferite erano ancora sanguinanti, l’analisi del «totalitarismo» è stata fatta da posizioni di sinistra, quando essere di sinistra sembrava l’atteggiamento progressista per eccellenza nel contesto di un evoluzionismo illusorio, definito, manovrato e imposto da una «sinistra» che si intitolava internazionalista, ma che internazionalista non era. Solo dagli anni ’70 in poi cominciano ad apparire delle analisi in cui la zavorra ideologico-politica viene parzialmente scaricata e a scomparire lo stupido binomio architettura «cattiva» fascista, vista solo come neoclassica e reazionaria, e l’architettura antifascista «buona», considerata moderna e progressista.

Il suo volume sull’architettura dell’Italia fascista offre, oltre a un’analisi e interpretazione complessiva, anche una preziosa collezione di immagini non solo dell’architettura e urbanistica ma di tutta l’arte di propaganda dell’epoca. Che peso ha avuto l’architettura nella grande macchina propagandistica fascista?

I nostri avi romani dicevano, a ragione, Ars una, specie mille. Da quando il mondo è mondo, da Ramsete II a Luigi XIV o a Napoleone, l’architettura, per il suo carattere di rappresentatività e di perennità, è stata sempre espressione anche di una certa forma di propaganda. La propaganda fascista è stata la prima che si è avvalsa di tecniche moderne come il cinema e la radio e Mussolini ha assegnato all’architettura un ruolo del tutto speciale: la chiamava «l’arma più forte» perché la considerava l’espressione più eloquente del suo illusorio nuovo Impero Romano. Ma l’architettura mussoliniana, quale arte di stato ben definita ideologicamente, è stata piuttosto uno strumento di rappresentanza che di grezza propaganda, diretta com’era a trovare un proprio stile tramite la fusione del futurismo con il razionalismo e la tradizione del passato.

I suoi studi dedicati ai tre grandi totalitarismi del Novecento, italiano, tedesco e sovietico, iniziano tutti con l’avanguardia artistica che precede ciascuno, ossia il futurismo, l’espressionismo e l’avanguardia russa. Come giustifica un tale approccio e quale è stato il rapporto dell’architettura fascista con il futurismo?

L’architettura dell’avanguardia e l’architettura classicheggiante «di stato» sono i due poli del modernismo, opposti ma costitutivi, e là dove il legame fra di essi si è conservato, come nell’architettura italiana dove si nota una continuità organica, i risultati sono stati ragguardevoli. La Germania nazista ha ignorato l’Espressionismo, il principale movimento di avanguardia tedesco, considerandolo entartete Kunst – arte degenerata, e la Russia sovietica ha voltato le spalle all’eccezionale momento di modernizzazione rappresentato dall’Avanguardia russa. L’Italia fascista è stata l’unica ad assimilare organicamente il futurismo perché fra Mussolini e il futurismo c’erano molti punti di contatto, generati dalla comune aspirazione a un’ideologia totale, che coinvolga tutti gli aspetti dell’esistenza umana. L’idea di base del futurismo era simile a quella del rivoluzionario socialista che era stato Mussolini. Mussolini può essere visto come «l’uomo nuovo» auspicato e adorato dal futurismo, il «Grande Futurista» come lo acclamava Marinetti, perché lui esprimeva in chiave politica l’aggressiva idea futurista di completa distruzione del senso della tradizione e delle istituzioni storiche, culturali e morali che la esprimevano. Mussolini invece ha trovato nel carattere ribelle del futurismo echi della propria personalità e la stessa ossessiva aspirazione a un mondo futuro dominato dal «proletariato dei geni». Come Mussolini, il Futurismo era democratico, ma stando alle proprie dichiarazioni, lottava contro quella democrazia che imponeva il regime delle masse, anonimo e mediocre, e che, in sostanza, mortificava le potenzialità dell’individuo, coltivando il conformismo e il convenzionalismo. Tuttavia la relazione «reciprocamente vantaggiosa» fra futurismo e Mussolini non poteva durare a lungo a causa del contrasto fra il «realismo rivoluzionario» mussoliniano, tendente al regime, e le utopie rivoluzionarie futuriste, tendenti all’anarchia. Così che dopo il Mussolini socialista e il Mussolini futurista è venuto fuori il terzo, Mussolini fascista. Il fascismo parte dalla critica di tutte le ideologie, di tutte le concezioni, positiviste o storicistiche che siano, e il risultato di tale critica è che l’ideologia fascista diventa in realtà un’«antiideologia».  

Nel suo libro afferma che nel totalitarismo (aggiungo io, anche in quello romeno, che ancora fa male) la funzione dell’architettura è anche quella di trasformare l’ideologia in un repertorio di immagini generatrici di miti collettivi. Uno dei miti collettivi del fascismo, consolidato dall’architettura, è stato quello del classicismo romano, o meglio del neoclassicismo o neo-neoclassicismo. Come andava d’accordo il classicismo con il rinnovamento integrale proclamato dal fascismo?

Nell’analisi di questo fenomeno regna purtroppo una confusione quasi generalizzata dovuta alle diverse accezioni della nozione di «classicismo», alcuni considerando classico e classicismo sinonimi di antiprogressismo e reazionarismo. Ma per rispondere alla sua domanda credo che vale ricordare la definizione data da Ardengo Soffici secondo cui, nella visuale fascista, il classicismo era un movimento spirituale che nasceva dal profondo dell’anima, senza nessuna retorica, come espressione del bisogno di norme fondamentali, di ordine politico e morale e di principi che uniscano saggiamente i membri di una nazione.
Il problema principale dell’architettura italiana di allora era quello di risolvere organicamente e armonicamente «il moderno» sì da diventare espressione di uno stile di stato e, contemporaneamente, immagine tanto reale quanto ideale di un regime. L’architettura «arte di stato» determina la riconsiderazione del significato delle nozioni di «moderno», «tradizionale», «razionale», «classico», nozioni che subiscono mutazioni non indifferenti nel contesto dell’architettura «totalitaria». Questi termini sono componenti fondamentali e invarianti dello stile dell’architettura fascista, avendo due poli sull’asse modernismo-classicismo. Lo «stile fascista» nasce dal tumulto del Futurismo ma a un certo momento attraversa una fase modernista caratterizzata da una forte carica metafisica che gli conferisce un carattere speciale, diverso dal razionalismo europeo. Lo stile fascista è in continua trasformazione, passando dal carattere rivoluzionario del primo periodo passionale, a quello «imperiale» quando l’architettura si implica ed è implicata, di maniera sottile ma energica, nelle trasformazioni politiche del regime sovrapposto allo stato.
Trovare un linguaggio nuovo che corrisponda tanto ai comandamenti politici quanto a quelli estetici non è cosa facile, anzi è difficilissima senza la nascita di un «nuovo tipo di architetto» – nella visuale fascista – capace di assumere nuove responsabilità tecniche e artistiche, e che pensi i problemi della nuova architettura non negando il linguaggio architettonico del passato, bensì conferendogli nuove costanti specifiche, nuove invarianti che generino un nuovo repertorio formale, realizzabile tramite un nuovo modo di operare.

Eppure il nuovo classicismo è, a quanto pare, un tratto evidente dell’architettura dei totalitarismi europei del secolo XX. È questo il vero denominatore comune di uno «stile totalitario» oppure ogni totalitarismo ha avuto il proprio «neoclassicismo»?
                                               
Sì, il neoclassicismo sembra essere la principale caratteristica dell’architettura totalitaria del Novecento. Le spiegazioni sono multiple, quella principale essendo un’altra invariante dell’architettura totalitaria, cioè la dimensione retorico-monumentale e la sfida spaziale e temporale tramite la scala gigantesca e l’uso di materiali perenni, per mandare ai posteri, dunque alla storia, un messaggio imperituro. E gigantismo e perennità associati al prestigio conducono immediatamente, in Europa, al modello romano imperiale. Però esiste neoclassicismo e neoclassicismo. Ciò vuol dire che non si possono mettere sullo stesso piano architetture fatte di elementi costituenti un linguaggio che ai suoi tempi era perfettamente coerente, e architetture che svuotano il neoclassicismo del suo contenuto ideologico e nel vuoto creato inseriscono una nuova ideologia, una nuova tematica e un nuovo stile. È il caso dell’architettura nazista e stalinista. L’architettura del fascismo italiano opera con altri valori, che hanno un altro significato e un altro significante. L’architettura italiana non ha fatto ricorso al neoclassicismo per realizzarsi in quanto architettura totalitaria, bensì ha cercato, in un contesto politico dato, di definire un nuovo concetto: quello di classicità. Tale concetto è il naturale corollario di ogni avanguardia, a condizione che conservi un carattere dinamico, dialettico, cioè essere se stesso per diventare ogni momento un’altra cosa, operando di maniera che il suo movimento non diventi autosufficiente. L’Italia è un caso particolare perché là il potere ha appoggiato intensamente e sinceramente l’arte e l’architettura di avanguardia, sebbene il pericolo della volgarizzazione tramite simboli classici o classicheggianti non ha risparmiato neanche l’eterna Roma imperiale di Benito Mussolini.
A differenza dell’uso che hanno fatto della tradizione greco-romana gli architetti del nuovo neoclassicismo europeo, in particolare quelli tedeschi e russi, gli architetti italiani hanno impiegato le «citazioni» storiche in un altro modo, conferendo loro altri significati e altre coordinate. Le forme del passato non sono state riprese a modo di riproduzione fotografica della loro realtà fisica, generante simboli del potere, bensì esplorando la profondità metafisica della cultura italiana. Tale esplorazione è una caratteristica dell’avanguardia artistica italiana, più evidente forse nella pittura, per esempio nelle opere di Giorgio de Chirico. Voglio dire che gli elementi dell’architettura antica non sono semplici calchi; l’analisi «filologica» di questi ha portato piuttosto all’estrazione e ridefinizione del loro «carattere» che all’imitazione servile delle forme stesse. Non siamo di fronte a una ripresa, bensì a una scelta di citazioni in cui l’elemento antico viene analizzato, scomposto e ricomposto secondo leggi nuove, generate dagli intenti politico-ideologici e dalle mutazioni del gusto e delle tecniche costruttive.

Dalla sua analisi si sprigiona una certa ammirazione che, se non sbaglio, si estende dall’equilibrio, misura e buon gusto dell’architettura italiana ai grandiosi complessi urbanistici del regime che hanno rimodellato molte delle città italiane, ma che – almeno questa è la mia impressione – sfiora anche la stessa figura del dittatore. Come interpreta questa mia impressione?

Risponderei, scherzando, che la mia «simpatia» per il Duce viene dal fatto che lui è stato – a differenza di Hitler e di Stalin, che hanno finito la loro vita, uno, wagnerianamente, in un bunker, e Stalin nella solitudine della sua superdifesa dacha – un vero maschio, con tutte le qualità e tutti i difetti della razza latina, e che è morto accanto all’amante…
Ma l’impressione di cui parla Lei è dovuta all’interesse di questo «campione del totalitarismo» per l’architettura moderna, che lui considerava l’unica architettura possibile per il suo stato fascista, un’architettura che doveva stare dignitosamente accanto a quella antica. A differenza della Germania nazista e della Russia di Stalin che aborrivano l’arte moderna, Mussolini ha interpretato in modo diverso la necessità di ogni nuovo regime di legittimarsi e di rimanere nella storia tramite l’architettura: nella generale crisi dell’architettura del razionalismo internazionalista, lui, in Italia, tenendo conto dello specifico culturale di questo paese, ha tentato di dare una nuova identità e gerarchia ai compiti dell’architettura nella sua principale missione artistica, quella di «presentare e rappresentare» lo stato. Questo spiega anche perché i riferimenti temporali dell’architettura italiana interbellica, ossia i due dati che segnano praticamente la nascita e la morte dello «stile fascista», sono anche momenti di riferimento del prestigio dello stato fascista: l’anno 1928, anno del consolidamento e della stabilità del potere politico dello stato fascista, e l’anno 1940, anno dell’ Esposizione Universale Roma, ossia EUR, ultima realizzazione di prestigio dell’architettura fascista, apice dell’architettura italiana metafisica e suo canto del cigno.
Ritornando alla cosiddetta ammirazione, Mussolini, a differenza di Hitler e di Stalin, non ha mai dettato canoni monodirezionali per l’arte e per l’architettura fascista ma, al contrario, ha generato un’adesione e un’ampia disponibilità degli architetti ad accingersi a rispondere ai problemi posti dall’architettura di stato. L’architettura italiana interbellica, sempre attenta alla sua tradizione di ordine e di sobrietà, di classicità non di classicismo, ha palesato una permanente aspirazione a una nuova unità estetica, etica e sociale.

Sfortunatamente lo spazio non ci permette di discutere anche alcuni esempi concreti dell’architettura fascista e tanto meno di esplorare insieme l’architettura del totalitarismo romeno, tema ancora scottante per noi. Ma sicuramente gli dedicheremo una conversazione futura. Per la presente, La ringrazio sentitamente.



Intervista realizzata e tradotta da Smaranda Bratu Elian
(n. 11, novembre 2015, anno V)