Andrei Pleşu: «La gioia nell’Est e nell’Ovest»

Forse ricorderete ancora le immagini della rivoluzione romena del 1989, così come apparivano sugli schermi televisivi di tutto il mondo. È stata, dicevano, la prima rivoluzione «in diretta»: un dittatore che fuggiva in elicottero dal tetto del palazzo governativo, le strade pullulavano di carri armati, soldati confusi e civili esaltati. Si sparava da tutte le parti. L’euforia non si poteva ancora distinguere dal terrore, la speranza era associata al lutto. Successivamente, analisti di ogni tipo, romeni e stranieri, hanno cercato e trovato argomenti per relativizzare la dimensione rivoluzionaria di quei giorni. Sono stati contati i morti e si è stabilito che non erano abbastanza, sono state ipotizzate complesse teorie cospirative, si è parlato di un colpo di stato comunista, di un’astuta manovra sovietica, o americana, o sovietico-americana, o, altrimenti, giudaico-massonica. La Romania sembrava aver messo a punto una truffa di proporzioni incredibili: aveva organizzato qualcosa che sembrava una rivoluzione, ma che, in realtà, lasciava intatte le strutture della dittatura. 
Ma non è di questi grandiosi sviluppi storici che vorrei parlarvi io. I miei ricordi della Rivoluzione di Bucarest sono assai più modesti: riguardano fatti banali, paure concrete, dettagli più o meno significativi. Per esempio, il primo grido di vittoria che avevo sentito, la prima gioia articolata –  segno chiaro di un radicale cambiamento dei tempi – era arrivato da una buona vicina di casa, senza alcuna ambizione rivoluzionaria. Si era precipitata nel cortile, camminando eroicamente in mezzo alle pallottole e aveva proclamato a beneficio dell’intero quartiere: «Nel negozio all’angolo si vendono le olive! E non c’è coda fuori!». Avevo sentito immediatamente il profumo del futuro. Era arrivato il momento di una svolta decisiva: da allora in poi avremmo avuto le olive. E avremmo potuto acquistarle in qualunque quantità, senza fare più la fila. Dal mio punto di vista, era un risultato più che sufficiente per giustificare una rivoluzione.
La gioia della mia fortunata vicina era un’eco del passato e, allo stesso tempo, una profezia. Era un tipo di gioia che soltanto l’austerità economica di una dittatura poteva spiegare e che, poco dopo, sarebbe scomparsa. Raggiungiamo così, il primo gradino della distinzione tra l’Est comunista e l’Occidente libero in materia di gioia: il cittadino esteuropeo percepiva l’acquisto delle olive come una gioia, mentre l’occidentale che sta comprando le olive non sente nulla. In altre parole, ciò che per uno rappresentava una circostanza banale, sottointesa, per l’altro era un evento, un’occasione elettrizzante, una festa. Per il cittadino esteuropeo «l’implicito» dell’occidentale era – e continua a essere – un’utopia. L’osservazione merita una certa attenzione, perché, a mio parere, una delle ragioni per cui l’Est e l’Ovest a volte faticano a capirsi è il fatto che non si «sottintendono», che hanno esperienze diverse su quello che, nella vita di tutti i giorni, è «dato per scontato». La «normalità» dell’Occidente consiste in una lunga lista di «cose date per scontate»: poter trovare alimenti nei negozi, avere il riscaldamento in casa quando fuori fa freddo, avere la corrente elettrica senza interruzione, salire su un autobus che arriva in tempo, avere il passaporto, incontrare chi vuoi, credere, scrivere e pubblicare ciò che vuoi. È sottinteso imprecare contro il governo, fischiare le forze dell’ordine, vedere film stranieri, leggere tutti i libri che vuoi, portare o meno la barba e i capelli lunghi, mettere al mondo quanti figli vuoi, avere, in genere, diritti individuali che devono essere rispettati dalle istituzioni. Per il cittadino di un paese comunista, niente di tutto ciò era dato per scontato. Ecco perché, quando per caso, o per eccezione, o per arbitraria magnanimità del potere, uno o più punti della lista di cui sopra venivano contraddetti dalla realtà, quando avevi il riscaldamento in casa, o la corrente elettrica, o il passaporto, oppure le olive, quando un tuo libro veniva pubblicato, o quando aspettavi l’autobus una mezz’ora soltanto, avevi tutte le ragioni per essere felice. L’improbabile diventava possibile. Il minimale prendeva proporzioni solenni.

Le gioie minimali

Assaporare appieno le gioie minimali
– ecco una delle esperienze irriducibili della felicità nell’Est europeo prima del 1989. Non dobbiamo confondere le gioie minimali con le «gioie semplici». Un conto è gioire per un pezzo di pane caldo e di un bicchiere di vino, snobbando il sofisticato ristorante dall’altra parte della strada, e un altro è essere felice semplicemente perché hai pane e vino. Direi che le gioie semplici sono più accessibili all’Occidente che a noi. Noi eravamo nella situazione in cui dovevamo accontentarci delle gioie minimali. Il regime totalitario non aveva potuto toglierci le grandi gioie, quelle che ognuno può avere, a prescindere dalle condizioni in cui vive: la gioia dell’amore, dell’amicizia, della creatività. Ma, costringendoci a concentrarci sulle gioie minimali, ci aveva privato delle gioie semplici. Ciò che ci veniva negato in primis non era il lusso, mala normalità, la vita tranquilla, la pacata eleganza del genere umano. Devo aggiungere che uno degli effetti paradossali della penuria era la monumentalizzazione delle gioie minimali. La gioia dell’acquisto clandestino, la mobilitazione sovrumana per ottenere un buon pasto erano diventati un vero e proprio sport nazionale. Una delle forme di resistenza alla dittatura era «la resistenza attraverso il cibo». Avevamo sabotato il furore comunista dell’austerità con uno sforzo immane, organizzato e solidale, che portò allo sviluppo di un ampio e proficuo mercato nero alimentare. Procurarsi, con gran fatica, i generi alimentari, aspettare il momento (e il posto) della distribuzione rapida della merce (delle olive, per esempio), conservare il rituale di mangiare a casa e delle festività, offrire all’ospite straniero un pranzo abbastanza buono da confonderlo riguardo al discorso del padrone di casa sulla povertà – tutto questo (più le code interminabili che fervevano di sovversione) sono state forme di resistenza diffuse molto più di quanto si credesse. In Romania, dove possedere una macchina da scrivere era considerato un potenziale crimine, non esisteva che un solo samizdat: il samizdat degli alimenti clandestini.
della quotidianità occidentale, egli mi aveva risposto senza battere ciglio: «La cosa più sconcertante è che se entri in una birreria e ordini una birra, ti portano una birra!» Per noi, la penuria era diventata, in un certo senso, comune tanto quanto l’aria che respiriamo. E con essa, la capacità di gioire per cose insignificanti. In realtà, eravamo arrivati al punto da non percepire più la catastrofe della carestia. Ricordo che nel febbraio del 1992 sono stato invitato per alcuni mesi a Wissenschaftskolleg zu Berlin, l’Istituto per gli Studi Avanzati di Berlino. Mentre disfacevo le valigie in un grazioso appartamento nel Grunewald, mi sono accorto che la luce era staccata. Era di giorno e non ho dato grande importanza alla cosa, continuando tranquillamente a disfare i bagagli. Comunque, dopo due ore tutto era tornato alla normalità. A Bucarest, la luce veniva staccata spesso, soprattutto di sera, quando era senz’altro indispensabile. A Berlino invece, la vicenda aveva provocato un’acuta crisi politica. Il blackout elettrico aveva scombussolato tutto: le televisioni avevano rischiato il fallimento, le madri non avevano potuto riscaldare in tempo il latte per i figli, i surgelati si erano scongelati, non c’era più l’acqua calda e così via. Per poco non era caduto il governo. Il mio ex professore di filosofia ci aveva visto bene: «Vedrai, mi diceva: la fine del mondo civilizzato non avverrà a causa di una grande catastrofe; tutto partirà da una sciocchezza, da una brusca sospensione di una comodità. Scomparirà, per tre giorni, l’acqua minerale, o la carta igienica, o la benzina senza piombo. E tutti coloro per cui queste cose sono date per scontate, si troveranno disadattati, in decadimento fisico e mentale. L’epilogo non sarà l’Apocalisse, ma una piccola apocalisse, un po’ ridicola, ma fatale…» Prima di un’eventuale «grande» apocalisse, l’Occidente, grazie alla tecnologia all’avanguardia, ai suoi straordinari specialisti e ai mezzi finanziari di cui dispone, potrà salvare l’umanità. Ma se la minaccia è una piccola apocalisse, contate pure sull’Europa Centrale e dell’Est! Molto velocemente vi insegneremo come sopravvivere con poco, come valorizzare l’Ersatz, come assaporare il niente.

Le gioie negative

Insieme alle gioie minimali, il cittadino esteuropeo aveva un sacco di gioie «negative». Le gioie negative derivavano non dalla soddisfazione di vivere una bella esperienza, ma dal non vivere una brutta esperienza. Le gioie negative si esprimono perfettamente con la frase «poteva andare peggio». Esse si presentano sullo sfondo di una grande aspettativa e derivano dalla sua non realizzazione. Evidentemente, queste gioie non sono estranee nemmeno all’occidentale. In fondo, si tratta di comuni gioie umane: la gioia di non essere malato, la gioia di non perdere il posto di lavoro, la gioia di non vivere con la suocera, ecc. Ma dal momento che la «normalità» dell’occidentale è diversa da quella dell’esteuropeo, le gioie negative di quest’ultimo avevano un colore specifico. L’occidentale è felice che non gli capiti nulla di «anormale». Il cittadino esteuropeo è felice che sia esonerato dalla «normalità» della dittatura: è felice che il libro consegnato all’editore non sia stato troppo censurato, che la casa o la chiesa non gli crollino addosso, che non sia stato denunciato alla Securitate, o che, pur essendo stato denunciato, non sia stato (ancora) penalizzato, indagato o arrestato, ecc. L’occidentale è felice quando l’anomalia del male non avviene, il cittadino esteuropeo era felice quando «l’anomalia» del bene avveniva. In altre parole, la gioia negativa del cittadino esteuropeo era più intensa e, per così dire, più positiva: la gioia di riuscire a rimanere incensurato o impunito era più forte e più «attuale» rispetto, per esempio, alla gioia di essere in buona salute la quale, finché non sorge la malattia, rimane, comunque, relativamente debole.

Le gioie vietate

Ricordiamo anche una terza categoria di gioie, avvertite in modo diverso nei due mondi europei: le gioie vietate. In poche parole, nell’Occidente, il divieto, come espressione di una moralità unanimemente accettata, è legittimo, rendendo la sua trasgressione una cosa malefica. Nell’Est, il divieto era illegittimo, perciò la sua trasgressione era un atto di coraggio morale, una forma pura di trionfo spirituale. Leggere di nascosto un grande autore vietato, avere una vita religiosa, ascoltare Radio Europa Libera, ospitare amici arrivati dall’estero, raccontare barzellette sul governo totalitario, non dichiarare alla polizia il possesso di una macchina da scrivere – erano altrettante gioie, altrettanti punti conquistati contro gli abusi della dittatura. Le gioie vietate sono gioie pericolose. Il piacere è raddoppiato dalla palpitazione del rischio. Persino alcune gioie che – in condizioni normali – sono illegittime, per esempio la gioia di truffare lo stato, fino ad arrivare a rubare dallo stato, assumevano, nel contesto comunista, una strana legittimità: erano un atto di sabotaggio, come riprendersi tutto ciò che il regime ti aveva arbitrariamente confiscato non appena salito al potere. «Lo Stato» era, in fondo, il Partito, cioè il nemico. A volte credo che l’esplosione irresponsabile della corruzione in alcuni paesi est-europei di oggi non sia altro che la sopravvivenza inerziale di questa mentalità, che, ovviamente, non giustifica nulla, anche se, probabilmente, può spiegare tante cose… Oltre alla «positivizzazione» ideologica del furto, devo ricordare anche la positivizzazione del vizio. Ero in Polonia nel 1981 quando fu dichiarato «lo stato di emergenza». Dopo una certa ora, era vietato uscire di casa e fare schiamazzi. La vodka costava una fortuna, quando la si riusciva a trovare. Ero nello studio di un pittore quando, all’improvviso, ho sentito arrivare dalla strada il gioviale cianciare di un ubriaco. Il mio padrone di casa si affrettò a precisare, tra il serio e il faceto: essere ubriaco a quest’ora sulle strade di Varsavia non è più un vizio, ma una forma gioiosa di dissidenza.

Alla ricerca di gioie comuni

Si può dire che nell’Est e nell’Ovest le gioie avevano due regimi temporali diversi. All’Occidente corrisponde la definizione cartesiana della gioia: «la contemplazione di un bene presente» (Pass.an.,II, 61, 93). Nell’Est però, era proprio il presente, l’immediato a essere privo del significato  della gioia. L’unico tipo di gioia associato spesso al presente era quello, già ricordato, delle gioie negative: un male anticipato che probabilmente tardava a verificarsi. Psicologicamente parlando, le gioie negative implicano anch’esse una sovrapposizione di tempi. Si riferiscono ad un’aspettativa (quindi ad una proiezione anticipata, a un futuro), in combinazione con un’esperienza negativa passata. Attendi che, adesso e in futuro, la reiterazione del male – confermata dal passato – diventi presente. Sei felice, dunque, che il male, di cui eri certo, non si stia verificando, o che accada un bene di cui dubitavi fortemente l’esistenza. Con queste sfumature, siamo più vicini a Spinoza che a Descartes. Nella sua Etica (III, prop. XVIII, schol. II), Spinoza definisce la gioia (gaudium) come soddisfazione nata dall’immagine di una cosa passata che è accaduta nonostante i nostri dubbi (de cuius eventu dubitavimus). Nell’Est, Spinoza continua a essere attuale. Siamo ancora felici dell’enorme cambiamento avvenuto nel 1989 nonostante che nessuno lo avesse creduto possibile. E soffriamo ancora a causa della brutta esperienza della temporalità. Il passato immediato è patetico, il presente è difficile, il futuro è incerto. Concorderete che, in queste condizioni, non è affatto facile mantenere il buon umore… non abbiamo più le gioie paradossali e, allo stesso tempo, tormentate ed esaltanti, provocate dall’universo dittatoriale, ma non abbiamo ancora neanche le vostre gioie. Quello che viene chiamato «periodo di transizione» è, tra le altre cose, un periodo di crisi della felicità. Siamo esposti o alle nostalgie sterili o alle speranze infondate. L’impazienza della sincronizzazione con l’Occidente, finora, non ha portato altro che appetito per il consumo a buon mercato, per il piacere minore (o direttamente triviale), per le gioie casuali e derisorie.
Non solo non possiamo ancora avere le vostre gioie, ma non siamo nemmeno preparati a comprenderle sempre. Lasciatemi fare un altro esempio. L’ideologia comunista, incapace di garantire una vita decente (per non parlare del benessere) e tesa innanzitutto a compromettere la gioia di vivere, facendo leva sul terrore, dava più importanza alla tematica della felicità e alla ritmica della marcia vittoriosa. In altre parole, la gioia era impossibile e obbligatoria, allo stesso tempo. Più era obbligatoria e più diventava impossibile. Gli autori malinconici venivano puniti drasticamente, il proletario doveva credere in un futuro brillante, l’arte doveva essere stimolante, energica, euforica. Persino le tragedie dovevano essere ottimiste. Ogni tanto, per la Festa Nazionale o per il 1° Maggio, venivano organizzate grandi sfilate entusiastiche che dovevano rispecchiare la felicità generale: gli studenti correvano dietro ad autobus che arrivavano in orario, gli operai segnalavano aumenti utopici di produzione, l’esercito esibiva l’armamento da utilizzare nella lotta per la pace. Accanto a sportivi, gendarmi e conducenti di trattori, tutti i lavoratori dovevano partecipare a quelle ampie manifestazioni popolari, scandendo slogan vittoriosi mentre reggevano bandiere e ritratti di dittatori. Per tutti, le uniche gioie reali derivanti da questo tipo di manifestazioni erano i loro effetti «collaterali»: nessuno doveva andare al lavoro e, improvvisamente, si potevano trovare wurstel e birra. Altrimenti, l’isteria collettivista, la retorica propagandista, la scenografia trionfale non facevano altro che intensificare il decadimento generale. Durante il comunismo, le gioie comunitarie erano abominevoli perché imposte e false. Al contrario, la vita interiore, i valori individuali, la convivialità del piccolo gruppo di amici assumevano un’importanza particolare. L’universo privato era l’unico in grado di assicurare la sopravvivenza spirituale e intellettuale. La gioia si associava, quindi, con la contrazione piuttosto che con l’estensione, cosa che non corrisponde al normale metabolismo di un’emozione positiva. «La letizia – diceva Sant’Agostino – è l’estensione dell’anima (diffusio animi), mentre la tristezza è la sua contrazione». Be’, il più delle volte, il comunismo e le dittature riescono a ribaltare i fatti. Riescono a produrre gioie della contrazione, della riduzione volontaria, della restrizione. Esagerando un po’, direi che, durante i regimi dittatoriali, la gioia ha qualcosa del metabolismo della sofferenza: è amara, soffocata, astringente. Non a caso, il diario di detenzione di Nicolae Steinhardt, grande intellettuale ebreo romeno, s’intitola Diario della Felicità. Un modo per dire che la disgrazia della detenzione non è incompatibile con la gioia interiore, ma anche che la gioia del prigioniero è inevitabilmente contaminata dall’atmosfera concentrazionaria.
Segnato da simili esperienze, il cittadino est-europeo non è pronto a capire la simpatia unanime dell’Occidente per le manifestazioni di strada, per le grandi dimostrazioni pubbliche, volte a esprimere la protesta, la solidarietà o, semplicemente, la gioia comunitaria. Il senso civico, in questa variante, gli sembra leggermente carnevalesco. Abituato alle sfilate imposte, e obbligato, sotto minaccia, ad astenersi dalla protesta collettiva, il cittadino est-europeo non capisce perché la gente preferisca organizzare, volontariamente, «manifestazioni nel giorno di Pasqua» sotto l’effige di Che Guevara, piuttosto che festeggiare in santa pace con gli amici. Inoltre, non capisce nemmeno quale sia lo scopo di queste manifestazioni, quando i manifestanti non rischiano nulla e quando tutto in realtà è soltanto un pretesto per divertirsi, per «socializzare». Sappiamo, naturalmente, che la gente sente il bisogno di esprimersi, che vuole agire in modo responsabile, vuole dimostrare la propria lucidità civica, l’impegno, il senso politico. Ma la posta in gioco ci sembra insignificante e le sue forme di manifestazione – candidamente ingenue. In più, ci turba vedere che migliaia di persone in tutto il mondo si mobilitino per condannare la guerra in Iran, ma che non siano mai stati organizzati movimenti di queste proporzioni contro dittatori come Kim Jong II, Ceauşescu, Saddam Hussein, Gaddafi o Fidel Castro. Steven Spielberg ha recentemente dichiarato che le otto ore passate in compagnia dello storico dittatore cubano sono state le otto ore più belle della sua vita. Ecco una gioia che rimane rifiutata ai cittadini est-europei. Non siamo ancora pronti a goderci la compagnia di Fidel Castro, a invocare magnanimamente Mao, a fare amicizia, in nome del diritto internazionale, con il governo russo, come se la Cecenia non esistesse.
Si direbbe che, per certi aspetti, noi prendiamo alla leggera ciò che voi prendete sul serio, e prendiamo sul serio ciò che voi prendete alla leggera. Per arrivare a un denominatore comune, sia noi sia voi dovremmo avere più senso dell’umorismo. Per quanto ci riguarda, abbiamo una certa esperienza, perché, sotto la dittatura, l’umorismo era spesso fonte di gioia compensatoria, un mezzo di sopravvivenza. Ma era un umorismo «di fermentazione», un umorismo che aveva poco a che fare con l’allegria. Come per ridere «a dispetto dello» sfondo privo di senso dell’umorismo dell’ideologia totalitaria. Peter Berger, un sociologo che vive a Boston ma che è nato a Vienna, parlava, a un certo punto, della «terribile mancanza di senso dell’umorismo delle ideologie rivoluzionarie dei nostri tempi». Non esistono dittatori dotati di senso dell’umorismo. E l’unico modo per non lasciarsi ingannare dall’inquietante e crudele imbecillità dei «rivoluzionari di professione» è proprio l’umorismo. Quello che, però, dobbiamo imparare ora è l’umorismo rilassato, solare, quello delle persone libere, un umorismo la cui motivazione non è, principalmente, la difensiva impotente, ma un sano buonumore.
L’unificazione europea significherà, tra le altre cose, anche l’unificazione delle nostre gioie, un’armonizzazione delle gioie est-europee e occidentali. Dobbiamo imparare a gioire delle stesse cose e, soprattutto, a gioire l’uno dell’altro. Dovete sapere che, prima del 1989, abbiamo ammirato senza invidia lo stile di vita occidentale. «La felicità altrui – diceva Balzac – può essere fonte di gioia per coloro che non possono essere felici». Anche adesso, noi siamo contenti di voi più di quanto lo siate voi di noi… Continuo a credere però che abbiamo dei pilastri comuni per ricostruire una felicità condivisa da entrambe le parti. Dobbiamo ricostruire l’unità europea, distrutta dalla Seconda Guerra Mondiale. Dobbiamo costruire una casa in cui convivere dopo il grande incendio di Yalta. E la ricostruzione, per quanto possa essere difficile, è una delle gioie più grandi dell’uomo. In ogni caso, questo è quello che dice un breve racconto chassidico, tramandato da Martin Buber: «Colui che conosce la vera gioia è simile a colui la cui casa è stata bruciata e che, sebbene colpito profondamente, comincia a costruire una nuova casa. E con ogni nuovo mattone, il suo cuore si riempie di gioia».



Andrei Pleşu
Traduzione di Natasha Danila
(n. 5, maggio 2014, anno IV)