| 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 |  | Cinematografia romena: la produzione degli ultimi cinque anni
 
  Il nuovo cinema romeno è materia su cui sia rimasto  qualcosa da aggiungere? Naturalmente, o forse solo fortunatamente, ancora sì.  Sfumato l'iniziale interesse, inteso come rivelazione sociale e culturale,  verso la cinematografia dell'Est Europa più importante di fine millennio,  verrebbe invece di primo acchito da dire no. E la responsabilità non sarebbe da  attribuire ai circuiti di distribuzione o ai suoi esercizi, né da attribuirsi a  un battage pubblicitario dai limiti evidenti che ha smesso da tempo di  mostrare interesse verso le cinematografie minori del panorama internazionale  in maggiori difficoltà, e d'incoraggiarle. Di questa categoria fa parte,  praticamente da quando è nato, il Noul Val, che come certi fogli di  Resistenza clandestini esce quando e come può, e dipende da finanziamenti  sempre più rari e dunque più miseri. A imporre all'attenzione la nuova cinematografia romena  hanno provveduto (e provvedono a tutt'oggi) le rassegne d'essai e i  tanti festival presso cui ha trovato ospitalità. Un vero e proprio biglietto da  visita per l'estero, anzi, quando finanziamenti e proventi, da parte di paesi  economicamente più floridi come la Francia, rendevano possibile, ancor prima  che venissero selezionate per i festival, la loro realizzazione e  distribuzione, favorendo la nascita di case di produzione romene indipendenti.  Da tempo, si ha tuttavia l'impressione che la cinematografia romena, come  altre, versi in una situazione di stallo in cui l'indubbia qualità del prodotto  sia inversamente proporzionale alla tematica trattata, non ripagata da  risultati di cassetta. È solo quando il suo cinema incontra il favore della  critica, e ottiene premi e riconoscimenti presso festival, mostre e rassegne,  che la Romania trova un circuito di diffusione, e forse un'accoglienza favorevole,  anche presso altri Paesi (i recenti consensi di Oltre le colline di  Mungiu, incensato a Cannes, e de Il caso Kerenes di Netzer, Orso d'oro a  Berlino, sono lì a testimoniarlo). Il solo circuito disponibile resta  fatalmente quello delle sale «d'autore»: l'unica  occasione di notorietà, per quanto di nicchia, adibita a garantirle un posto,  la possibilità di andare avanti in un esercizio distributivo dove imperano le  multisale e i blockbuster che vi si proiettano. Ci si ritrova immersi in  una situazione di schiacciante predominanza da parte della commercializzazione,  che obbliga gli esercenti a un sempre più limitato numero di copie, delle quali  solo l'incognita del passaparola, anch'esso agli sgoccioli, può garantire  l'eventuale accoglienza positiva o l'insuccesso. E il concetto è desueto se si  pensa all'innovazione apportata dal digitale, che ha sostituito la pellicola in  breve tempo, con la conseguente eliminazione dei distributori, acquistando i  film a tempo determinato direttamente dalle case di produzione.
 Il pubblico romeno non ha fatto mistero di preferire i  prodotti commerciali statunitensi (film d'azione, fantasy ad effetti  speciali, commedie e poco altro), anche se le sale cinematografiche, in tempi  odierni, hanno finito per ridursi a una striminzita manciata di pidocchietti  periferici, opposti alle superpotenze delle catene multisala. Per titoli di  autori nazionali, quando possibile, non resta che la diffusione tramite  emittenti televisive, satellitari o via cavo. Consolazione invero assai magra,  che abbraccia tutti senza distinzione, dai cineasti della «nuova  ondata» (Puiu, Porumboiu, Muntean, Mitulescu, e i già citati Mungiu e Netzer)  a giovani firme dal talento in ascesa, accomunati dalla necessità di raccontare  un Paese e una Storia – quella pre e post-dicembrista, nella fattispecie – che  nel cinema trova la necessità e la capacità di farsi udire dopo il grande  silenzio e il mare magno di occasioni perdute dell'era Ceaușescu.
 La speranza, per i menzionati autori, è che le loro  opere riscuotano consensi all'estero affinché la realtà, così efficacemente  messa a nudo, non si dissolva nel nulla e li renda firme di prestigio di una  cinematografia non ancora conclusa, benché ormai priva di quel quid che  una decina d'anni fa ne fece una rivelazione. E se più d'uno afferma che gran  parte dei prodotti del Noul Val, in modo un po' troppo furbesco, strizzi  l'occhio al cinema d'autore internazionale, a quello studiato per un pubblico  di palati fini o a quello da festival, è bene ricordare che una cospicua fetta  dei loro registi si è fatta le ossa all'estero, principalmente in Europa,  collezionando esperienze di vita o studiando il grande cinema potendo attingere  a un'offerta finalmente illimitata. Bagaglio culturale che ha permesso ad  alcuni di loro, tornati in patria, d'iscriversi a corsi di eccellenza (fra  tutti, l'Università delle Arti Teatrali e Cinematografiche «Ion  Luca Caragiale» di Bucarest), di conseguire diplomi ed esperienza e, dopo il ventun  dicembre, cavalcare la nuova onda e mettersi in produzione.
 Giacché l'idea stessa di sala cinematografica sembra non  avere avvenire, e la realtà odierna è così tecnologizzata che la diffusione  mediatica di un film si può veicolare grazie ad applicazioni ormai del tutto  disponibili, il cinema romeno è costretto a cercare – e fortunatamente a  trovare – visibilità attraverso il web e i social network. A circa un  lustro dal 2009, data con cui la Romania chiude un ventennio di cinema tra  difficoltà e risalite, si può affermare che la realtà del Paese, nei film  realizzati in quest'ultimo arco di tempo, non sembra essere cambiata troppo  rispetto a quella rappresentata ne La morte del signor Lăzărescu, in A  est di Bucarest o in 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni, benché sempre  ispirata da nobile impegno civile. E di cinema si continua a farne tanto, più  di quanto i segnali possano far pensare, segno che la creatività romena (assai  latina, sì) si mantiene inesausta; ma come collocare e divulgare tali lavori, e  secondo quali modalità? Se si escludono i tantissimi cortometraggi, quale  scelta indicare come la più rappresentativa tra le opere prodotte nell'ultimo  lustro?
 Cătălin Mitulescu  e i suoi film Un possibile punto di partenza lo offre Cătălin  Mitulescu, per il quale la Romania è la terra dell’espropriazione, dove i sogni  e l’amore rendono per sempre schiavi. Il loverboy dell'omonimo film del  2011 è un giovane che seduce ragazze in fuga allo scopo di venderle come merce  sessuale a certi amici, al porto di Costanza, i quali gestiscono traffici sui  marciapiedi d’Europa. È estate sulle rive del Danubio, ma non c'è paesaggio  attraversato da Loverboy che abbia un poco di calore. Tutto ne è privo:  la geografia, raggelata e arida, di un’occasione perduta. Nel bel mezzo del nulla, che domina la povertà della  campagna romena quale unico orizzonte possibile, l’amore si misura solo in  merce, dunque in denaro. Niente accade sulle rive del Danubio, niente si può  muovere davvero lungo le strade polverose che il protagonista, insieme ai suoi  amici e alle ragazze da sedurre, percorre avanti e indietro, solo per scoprire  che si diramano tutte uguali senza condurre in alcun posto. Nulla accade perché  la vita ha dimenticato di portare con sé i propri sogni, e ha smesso di  parlare, proprio come il nonno malato del loverboy. Sino a quando  l’amore non mostra le proprie imprevedibili spire, e la grazia conturbante di  una possibile preda apre un varco di speranza nell’orizzonte senza futuro del  Nostro, che inizia a credere a quegli attimi di gioia vissuti furtivamente  sotto le coperte. Ma quella del protagonista è una generazione già sconfitta,  che nemmeno la tenerezza dell’amore può più salvare.
 Come già in Cum mi-am petrecut sfârșitul lumii (in italiano, «Come ho passato la fine  del mondo»), Mitulescu sceglie la via dell’essenzialità, bruciante e crudele, per  raccontare una storia d’amore ed espropriazione. Lo sguardo minimalista di Loverboy graffia via ogni orpello dallo schermo per mostrare un certo ambiente in tutta  la propria brutalità. Ma non riuscendo a dosare del tutto la mise-en-scène dell’abbrutimento  delle campagne romene, il regista cede al fascino dell’insistenza (le scene al  cui centro è il padre della ragazza per la quale il loverboy perde la  testa), rischiando più volte di disperdere la potenza e l’autenticità delle  immagini. Più interessante ed efficace, è invece il continuo, sofferto  contrasto dei movimenti di avvicinamento-rifiuto che i corpi delle due figure  principali disegnano nello spazio: anime che si attraggono, nondimeno destinate  a separarsi nella violenza della propria lotta per sopravvivere.
 Dopo Loverboy, e il corto Fata munţilor (t.i. «La ragazza della montagna»), Mitulescu si appresta a ultimare  le riprese del terzo  lungometraggio, El rumano, la storia di un  giovane che torna alla famiglia dopo un anno di lavoro in Italia. La moglie lo  accoglie con calore in compagna del figlioletto, ma sia lei che lui sembrano  molto diversi. La coppia, ormai lontana, cerca di trascorrere una notte insieme  per ritrovarsi: ma l’impresa non è affatto facile... «I  personaggi del film – afferma la troupe di El rumano in un  comunicato stampa – cercano di rispondere alla domanda: 'Come si può restare  vicino a chi si ama?'».
 I film di Radu Muntean Marți, după Crăciun (traduzione:  «Martedì, dopo Natale») è il terzo lungometraggio di Radu  Muntean, che con il film d'esordio, Hârtia  va fi albastră («La carta sarà blu»), realizzò un avvincente pamphlet sul potere avuto dai media nel determinare l'esito finale nelle  convulse e confuse ore della rivoluzione. In Marți si racconta, in toni semplici, della delicata presa di posizione di un  marito, diviso tra la donna con cui vive da dieci anni, dalla quale ha avuto  una figlia, e l'amante, una dentista più giovane di lui. Il tutto, sullo sfondo  di un tran-tran natalizio che obbliga il protagonista, per una volta, a  dedicare quel tempo alla famiglia cui sembra non concedersi mai abbastanza,  sacrificando passione e desiderio a un senso del dovere che forse è già, nel  rapporto con essa, l'inizio della fine. Più dura è la vicenda del lungometraggio successivo di  Muntean, il quarto: il semi-documentario Vorbitor (letteralmente «Parlatorio»). Come il suo  più noto Hârtia, un vivido j'accuse nei confronti del Sistema  e insieme un film di sentimenti. A partire dal 2006, il sistema  penitenziario consente il matrimonio di persone condannate a trascorrere  diverso tempo in prigione. Benché la maggior parte dei detenuti coltivi  rapporti con partner che vivono al di là delle mura carcerarie, c'è chi, in  gattabuia, riesce a trovare un compagno di vita. Vorbitor segue le  vicende di alcuni detenuti in diversi penitenziari di tutto il Paese, i quali,  nonostante la pena, incontrano la propria anima gemella, si tratti di un  compagno di cella o di qualcuno che aspetta fuori.
 «L'idea, informa Muntean, era di parlare con personaggi al centro di  particolari situazioni di privazione della libertà, della quale l'amore diventa  un surrogato e rappresenta, forse, la sola speranza per un futuro migliore».  Il film è costruito come una catena di interviste in cui diverse coppie  confessano le proprie storie d'amore, riconfermano il loro sentimento e fanno  progetti per il futuro. Ma Vorbitor non pretende di trovare una  risposta, semmai porre una domanda, come sottolinea un aneddoto del medesimo  Muntean inerente alcuni soggetti da cui il film trae spunto: «Adi e Ana hanno iniziato il loro rapporto dopo che Adi  l'aveva vista in una foto ricevuta dal proprio compagno di cella: era  abbastanza per cominciare una corrispondenza (...). Mihai ha visto Eva in tivù  e ha insistito per incontrarla. Entrambi hanno raccontato le loro storie e  hanno finito per confessare il proprio amore e il progetto di sposarsi, senza  mai vedersi faccia a faccia. Cristina e Constantin Baron hanno trascorso gli  ultimi due anni in un rapporto tumultuoso. Si sono conosciuti in carcere  durante un vis-à-vis, si sono sposati, hanno  tirato avanti attraverso una serie di lettere e sono stati prossimi a un divorzio.  Ma sono detenuti in due penitenziari diversi, e la loro relazione è soddisfatta  solo da visite coniugali».
 Cristi Puiu e Radu  Jude Com'è facile immaginare, la volontà – dolente –  d'immortalare gli oscuri lati di una realtà indicibile agli occhi di uno  spettatore impreparato, di fronte a qualcosa che ancora gli sfugge o non è  stato mostrato con altrettanta nuda esemplarità, fa i conti con una realtà di  cui il ricordo sembrava aver già compreso integrità e asciuttezza. Di tale  doloroso scampolo, tra le leve più collaudate e rappresentative del Noul Val,  qualcosa sa lo sceneggiatore e regista Cristi Puiu, che, non indifferente alla  storia della Romania, riadatta schemi letterari à la Joyce caricandoli  di simbolismi riferiti al disagio e al malcontento nazionali. Aurora,  del 2010, racconta di un ingegnere metallurgico sulla quarantina, con due  figlie a carico, che, licenziato dal lavoro, spende le giornate pervaso da un  senso d'inspiegabile inquietudine. Senza cercare risposte, si lascia  trasportare dagli eventi e, in balia del destino, attraversa Bucarest da un  capo all'altro, deciso a porre fine all'instabilità che già da un po' governa  la sua esistenza ingombrandola di dolorosi accenti, a partire dal divorzio e  dal processo per la condivisione dei beni. Quanta non indifferente sensibilità l'autore manifesti  per il Paese e la sua memoria, lo testimonia il prezioso contributo a un'opera  collettiva, del 2014, firmata da tredici registi del cinema europeo in  occasione del centenario del primo conflitto mondiale: il corale e  documentaristico I ponti di Sarajevo, lungometraggio a episodi che narra  la storia dell'infelice città bosniaca nel corso di epoche differenti.
 Tra i titoli di più recente distribuzione, Aferim! («Bravo!»)  è diretto da quel Radu Jude regista di molti shorts e di un'amara  commedia, datata 2012, dal titolo Toată lumea din familia noastră («Tutti  in famiglia», secondo la traduzione). Quest'ultimo ruota attorno all'amore e alla  frustrazione di un uomo divorziato per la figlioletta di cinque anni, con la  quale vorrebbe trascorrere una vacanza come in un paradiso, e tuttavia resta  intrappolato nell'inferno delle dinamiche familiari. Ma anche Aferim! narra  del rapporto tra un padre, soldato, e un figlio: ambedue sono in viaggio per le  campagne romene alla ricerca di un prigioniero, fuggito dall'uomo che l'aveva  in affido, che se ne serviva come bestia da soma, e sospettato di aver  intrattenuto intimamente la moglie di questi. Durante la caccia all'uomo, i  protagonisti s'imbattono in un campionario di umanità assortita e, in una  maniera o in un'altra, tutta prigioniera, lei sì, dei propri pregiudizi.
 Corneliu  Porumboiu, tre lavori da regista e uno da sceneggiatore E in questa scelta, incontrare e nominare Corneliu Porumboiu,  che dopo l'altrettanto «invisibile», asperrimo Polițist, Adjectiv («Poliziotto,  aggettivo», in italiano) firma tre lavori da regista e uno da sceneggiatore, non  deve stupire. Il primo di essi, Când se  lasă seara peste Bucureşti sau Metabolism (che da noi suona «Quando  scende la sera su Bucarest, o Metabolismo»), del 2013, è incentrato sul dicotomico parallelo verità-finzione. Nel bel mezzo  di una ripresa cinematografica, il personaggio principale, un regista, tresca  con un'attricetta relegata a un ruolo di comprimaria. Il problema sorge quando  la giovane, durante la scena conclusiva, deve apparire nuda. A complicare le  cose, oltre ai dubbi e ai ripensamenti del regista, si mette il produttore che,  non volendo saperne di girare scene di nudo, ostacola la lavorazione e inventa  scuse affinché l'attrice non vi prenda parte. Salvo poi prendersi un giorno di  fermo per incontrare la ragazza... Poco a poco, il film prende una piega  inaspettata intrecciandosi sempre più con il binario del reale e del personale,  come tante volte in tanto cinema abbiamo imparato ad aspettarci quando, sulla  scena, si mette in scena la messinscena. Un tocco sexy e morboso sembra fare la differenza nella  filmografia di Porumboiu e, più in generale, nella stessa produzione  cinematografica romena, che sotto il Conducător non poteva certo  perdersi in beghe metalinguistiche, figurarsi se pruriginose. Lo spettatore  educato sa molto bene come simili modalità si rincorrano frequenti in pellicole  che raccontano «film nei film», sì da risultare a volte banali nella loro ridondanza. Ed è  interessante seguire come certi spunti vengano gestiti in una cinematografia  che tenta di liberarsi una volta per tutte di proibizioni e tabù mai veramente  discussi. La Romania, del resto, non arriva affatto ultima al tema della macchina-cinema  smontata in ogni suo piano linguistico, codifica o registro: l'antesignano per  antonomasia trova nel decano Lucian Pintilie il proprio Godard locale, come  testimoniano il controverso La ricostruzione o il più complesso Niki  e Flo. Titolo, quest'ultimo, addirittura capace di osare l'inosabile  mostrando quanto l'immagine filmica conti nel quotidiano collettivo, lo  influenzi determinandone lo sviluppo in tutti i propri lati più oscuri,  parossistici, deleteri. E dopo Pintilie, e prima di Porumboiu, si pensi a prodotti quali Topi rossi di Florin Codre, Vânătoarea de lilieci (traduzione letterale, «La caccia dei  pipistrelli») di Daniel Bărbulescu o il provocatorio Patul conjugal («Letto  matrimoniale») di Mircea Daneliuc: titoli la cui artigianale fattura non è esente da  suggestioni verso l'imminente Noul Val, nondimeno girati da cineasti  appartenenti a un periodo e a un cinema sospesi tra l'ancien régime e il nuovo che  avanza.
 In Când se lasă seara peste Bucureşti sau Metabolism c'è un elemento  che rinvia all'opera più nota del regista, A est di Bucarest: in  quest'ultimo la citazione filosofica di Eraclito e del platonico mito della  grotta, rimasticati da un anchorman di dubbia moralità per il proprio talk  show, erano pattern serviti in una dimensione grottesca, dove  l'ostentazione di cenni culturali prontamente veniva sbugiardata dal binario di  una realtà incapace di camuffare ignoranza e cialtronaggine dietro goffi  paraventi. Nel suo terzo lungometraggio, afferma Porumboiu, il metabolismo suggerito dal titolo – strofa di un motivo interpretato da Maria Răducanu, che sigla il film e ne è l'ermetica chiosa – è allegorico e concreto al  contempo, risiedendo in una sfera che fa della Settima Arte un surrogato  dell'esistenza, puntellato di mezzi intermedi. Il processo di vita, come il  cinema, è qualcosa da compiere da qualche parte e in qualche modo, e pur non  essendo una missione definitiva – parafrasando Eraclito – deve arrivare in  fondo. In identico modo, in Polițist, Adjectiv gli archetipi di moralità  e legge, etica e giustizia, erano influenzati dalle idee di Platone: ne erano, anzi, un riadattamento.
 Si cambia registro in Al doilea joc (t.i. «Seconda  partita»), dello scorso anno. «Questo film è una partita di calcio,  continua Porumboiu, un derby tra due squadre di Bucarest: la Steaua, la squadra  dell'esercito presieduta dal Valentin Ceaușescu figlio adottivo del dittatore  in carica, e la Dinamo, la squadra della polizia segreta. Mio padre era  l’arbitro. Abbiamo riguardato la partita insieme dopo circa 25 anni».  Anche in questa circostanza, come altre volte, il cineasta più  intellettualmente orientato dell'onda romena mostra una chiara predilezione per  imprevedibili tangenti artistiche, ché la sua visione di ciò che d'ilare può  esserci in un apologo si sposa con la modalità di racconto. Non c'è traccia di  cinecamera o di editor, qui, solo la ripresa documentaristica integrale  di un match trasmesso in chiaro, sulla rete televisiva nazionale, il 3 dicembre  1988. Il dialogo tra Porumboiu e il babbo Adrian – la sola colonna sonora  dell'opera – è escamotage che funziona sorprendentemente sino a metà  tempo, come rivela ogni bizzarro dettaglio di cui la partita è punteggiata,  prima di affievolirsi in una più faticosa seconda parte. Nonostante che il derby, girato con  tre telecamere, si disputi nel pieno di una fitta nevicata, e il campo sia al  limite della praticabilità, l'arbitro decide che ugualmente la partita abbia  luogo: la palla rimbalza senza attaccarsi al suolo, i giocatori possono vedere  il gol dalla linea di metà campo. La neve inizia a scendere nelle tribune, le  squadre si affrontano alla pari. La temperatura è sotto lo zero, lo stadio  gremito e costellato di ombrelli aperti: ma gli atleti offrono quanto possono  in un gioco di rapido movimento. Pure, l'arbitro fa del suo meglio per non  rallentare l'azione. Quando falli e scontri si verificano, la camera converge  con discrezione sulla folla, scomparendo veloce dietro la neve. L'atmosfera  surreale è fomentata dalla presenza di giocatori con fasce di lana attorno alla  fronte, che scendono come bende sugli occhi, e che si battono con tenacia e  furore come in un'arena con mise à mort.
 Nessuno, per usare le parole di  Adrian, è intenzionato a vedere un gioco vecchio. Al contrario, oltre che  occasione di epifanica nostalgia, l'assistere a un evento che per la Romania ha  una sua importanza storica è ghiotta risorsa per lo spettatore estero, che può  imbattersi in segnali culturali, se non inediti, almeno insoliti, magari  esplorando diverse concezioni dello sport e dell'agonismo. E, per chi organizza  le se(le)zioni di un festival, un'ulteriore scoperta di perle inestimabili,  tasselli che arricchiscono un già convincente mosaico. Ancora, benché il loro  numero possa apparire trascurabile, arbitri di tutto il mondo (come  appassionati di calcio in generale, dal numero illimitato) possono trovare,  nell'analisi di Porumboiu senior, una strategia professionale e, nelle  sue chiamate di fallo e presentazione di cartellini, un'enciclopedia di  vantaggiosi consigli.
 «È come uno dei miei film, confessa il regista, è lungo e non succede  nulla». Certo è che lo spettatore – memore dei precedenti Polițist e Metabolism, e alla ricerca di qualcosa  che soddisfi il suo occhio – può sempre trovare qualche apprezzamento politico  in campo pallonaro, confrontandolo con l'esclusione del sesso femminile negli  stadi iraniani, in Offside di Jafar Panahi, o, come in Polițist,  vederci qualche simbolismo o sottile gioco di parole. A quale seconda  partita si riferisce il titolo? Un altro ipotetico match sarebbe stato  diverso? Il fatto che si svolga un anno prima della caduta del «Genio  dei Carpazi» è sin troppo emblematico; ma la maggior parte degli spettatori giudica  da quanto vede sullo schermo: un gioco sulla neve che, nella seconda metà, si  fa via via ripetitivo e privo d'immaginazione.
 Il lavoro più recente di Porumboiu, Comoara,  si concentra su due uomini che, nel tentativo di scoprire il «tesoro»  del titolo, vanno incontro a una serie di episodi sorprendenti. Il progetto, in  fase di compimento, raduna un cast di attori professionisti e dilettanti: il  ruolo principale è affidato a Toma Cuzin, mentre gli esordienti Adrian  Purcărescu e Corneliu Cozma sono stati selezionati dopo un ampio reclutamento  di casting, condotto in tre mesi. Quanto alla pellicola di cui il  cineasta di Vaslui è sceneggiatore, La  limita de jos a cerului («Il limite inferiore del cielo»),  diretto da Igor Cobileanski nel 2013, ruota intorno  alle improbabili ambizioni di un piccolo trafficante di droga, che vive in una  città dimenticata da Dio, in Moldova. Il suo migliore amico lo trascina  nell'assurdo progetto di volare via con un deltaplano rotto (come già tentavano  di fare i protagonisti di Cum mi-am petrecut di Mitulescu), la  madre lo spinge a trovare un posto di lavoro, mentre la donna per cui spasima  preferisce andare con l'amante. Alla stregua del Liviu di un altro film di  Porumbou, il giovane pusher decide di cambiare la propria vita per il  meglio: ma presto si rende conto che il bene è una questione troppo delicata...  Andrei  Gruzsniczki e Florin Șerban, mai distribuiti in Italia Tra le recenti uscite della produzione romena, un titolo  mai distribuito da noi nell'ultimo lustro è lo spionistico Quod Erat  Demonstrandum (2013) di Andrei Gruzsniczki, autore dell'altrettanto inedito Cealalta Irina. Per  essere il frutto di un paese comunista, la Nouvelle Vague nazionale è ben lungi  dall’aver esorcizzato completamente l’oscuro passato del Paese: un eccellente  matematico diventa oggetto di un’investigazione segretissima nel 1984, dopo  aver pubblicato la propria tesi di dottorato in una rivista americana senza il  permesso del Sistema. Il fattore più inusuale del film, che aggiunge  all'assunto una nota di cinefilia in più, è che si tratta del primo  lungometraggio romeno in bianco e nero da oltre 25 anni.  Ciò non toglie che Quod Erat Demonstrandum sia una descrizione efficace  di un sistema sociale in cui ambizione ed eccellenza sono totalmente ignorati.  Nel periodo comunista il talento non basta: occorre godere di solide  conoscenze, quando non diventare una spia della Securitate, la polizia di  Stato, tramite la quale un migliaio di investigatori e una rete nazionale di  informatori obbligano un intero Paese a sussurrare nel terrore. Tutto cambia  per il matematico quando scopre che un'ex collega, della medesima facoltà,  progetta di emigrare in Francia dove il marito si è rifugiato: la donna, per  conto del Nostro, potrebbe portare una valigia contenente il suo teorema  innovativo... Quod Erat riesce nell'impresa di trasferire incessante il dramma sociale entro un  contesto familiare, offrendo alla love story i risvolti di un thriller,  giacché il regista-sceneggiatore Gruzsniczki tesse abilmente una ragnatela di  interessanti spunti intorno ai suoi personaggi. Il villain è un agente  segreto pronto al più nefasto gesto pur di scoprire l’importanza di quella tesi  e, nei confronti dell'autore, agire secondo le maniere che merita. Pur sempre,  però, l’agente è una figura che agisce secondo prassi e assiomi che il Sistema  gli impone: nessuno, sembra dire il regista, può sottrarsi alla realtà dei fatti  e alla tortura macchina statale, una macchina perfettamente oliata in cui ogni  singolo ingranaggio deve muoversi sotto pressione.
 Con un budget di soli 700.000 €, il film soffre  del fatto che per motivi economici non siano state possibili riprese in esterni,  ma l’anno 1984 – evidente l'eco a Orwell – è comunque rappresentato in modo  efficace grazie al bel bianco e nero del navigato direttore della fotografia Vivi  Drăgan Vasile e al convincente sforzo dello scenografo Cristian  Niculescu. Nello sguardo attento di Gruzsniczki, tre decenni di storia sono  rimossi mentre lo schermo si colma di oggetti, usi e costumi in un viaggio a  ritroso nel trascorso romeno, che riporta a galla, per lo spettatore meno  giovane di ogni paese ex comunista, memorie rimaste troppo a lungo nell’oblio.  Non ultimo, Quod Erat spende  più di un cenno verso il problema, attuale e urgente, della fuga di capitale  umano: a distanza di trent'anni dagli episodi narrati, ancora oggi le  eccellenze in campo accademico emigrano da un Sistema che non tiene in equa  considerazione il loro reale valore.
 L'altra Irina di Cealalta, moglie di un  guardiano notturno in un grande magazzino di Bucarest, accetta un incarico di  lavoro al Cairo e, contro il parere del coniuge, vola in Egitto, salvo tornare per  qualche giorno per ripartire nuovamente. Finché una telefonata non avverte il  marito che Irina si è suicidata: l'uomo si trova così a fronteggiare l’immagine  di una donna che sembra non aver mai conosciuto, e, contemporaneamente, tener  dietro ai cavilli burocratici di due paesi, e non dei più facili. Come Quod Erat, anche Cealalta Irina ha il sapore  dell'inchiesta gialla, qua e là di piglio etnografico nell'apparentamento di  culture dissimili per tradizioni e abitudini. Ma a contare è il drammatico aspetto  psicologico di una figura inesperta di fronte a tali costumi, e inesperta nei  confronti di un privato che, reputandolo al di sopra di tutto, lo mette dinanzi  ai propri egoismi.  Altra opera invisibile, realizzata nel 2010, è la commedia Eu când  vreau să fluier, fluier (alla lettera «Se voglio  fischiare, fischio»), per la regia di Florin Șerban: qui, lo sfacelo dell'odierno sociale  nazionale si misura con il peso di una generazione senza sbocchi, priva persino  di tare ereditarie, ma non di affetti sui quali si ripiega il senso di  un'esistenza misera, essendo le uniche cose che contano, da difendere con  unghie e denti per non farsene espropriare. A due settimane dalla fine della  pena, un diciottenne ribelle, in galera da quattro anni, riceve una visita da  suo fratello minore: questi lo informa che la madre è appena tornata  dall'Italia, dove lavora come receptionist in un albergo.  Nell'apprendere dal fratellino che sua madre ha intenzione di portarlo con sé  all'estero, il giovane detenuto perde la ragione: è stato lui infatti a  crescerlo, e non ha intenzione di lasciarlo alla madre, persona incostante e  inaffidabile che già una volta ha abbandonato i figli per seguire un uomo. Dopo  aver tentato invano di convincerla, il ragazzo arriva a compiere gesti estremi:  rapisce la propria assistente sociale, e la sequestra per attirare l'attenzione  dell'intero carcere e piegare la volontà della madre. Nonostante manchino pochi  giorni al rilascio, il giovane aggrava la sua posizione, ma, in un epilogo a  sorpresa, il rapporto con l'ostaggio conosce risvolti inattesi.  Uno spirito  cinematografico ricreativo Essendo la commedia il genere che più si presta all'esprit corrosivo e surreale dell'animus romeno, non sono mancati e forse  mai mancheranno titoli da indicare. Sunt o babă comunistă, ad esempio,  di due anni fa. Adattamento dell'omonimo romanzo di Dan Lungu,  il film si onora della firma di un collaudato  artigiano, Stere Gulea, per anni professore emerito presso la «Caragiale».  In occasione delle imminenti elezioni in Romania, una giovane telefona alla  madre dal Canada, dove vive e lavora: vuol essere sicura che voti «bene»,  senza dover optare per gli ex comunisti. Ma a sorpresa la pensionata, che ha  trascorso quasi tutta la vita sotto Ceaușescu, non è molto convinta che il  presente sia meglio del passato, e – come lo stesso titolo mette in risalto –  si scopre più comunista di quanto creda: com'è possibile rimpiangere quegli  anni di totalitarismo? Memori anche di un'analoga pellicola del 2003, Good  Bye, Lenin! di Wolfgang Becker, Gulea e Lungu ci regalano una divertente  rilettura di un regime, un'Epoca de Aur che colpisce per ironia e  sincerità. Per essere in effetti una cinematografia  semi-invisibile, la scelta dei titoli da citare si muove in spazi anche troppo  affollati, e il rischio è sempre quello della soggettività di giudizio. Vanno  comunque segnalati progetti in dirittura d'arrivo (non ultimo Miracolul din Tekir, a firma di Ruxandra  Zenide, che una decina d'anni fa girò il femminile Ryna), orientati a raccontare non tanto un passato o un  presente, quanto un Poi, poco importa se incerto e problematico, in  linea con i ripensamenti sociali del mondo odierno. E questo dopo anni di purga  oltranzista, di doloroso bilancio con un fardello storico ingombrante, e tuttavia  un Prima il cui peso ancora si avverte tra le pieghe di un minimalismo  persistente, di dolenti intimismi, di spettri mai completamente sopiti. La loro  presenza, nella quasi totalità dei casi, si rivela la sola base plausibile da  cui discendere e dalla quale partire. Il rischio, in questo caso, è che uno  stile trovato s'avviluppi su sé stesso e si faccia maniera.
 La Romania mostra la voglia di (continuare a) dire di  sé, con spruzzate di originalità e a volte di ambizione, senza realmente fare  il passo più lungo della gamba e confezionando prodotti di qualità dove il  coraggio finalmente possibile della denuncia fa il paio col gusto dello  spettacolo. Oltre all'inesausta volontà di denunciare, il Paese sembra  rassegnato a un nuovo e nelle intenzioni definitivo redde rationem,  aggiornando il suo cinema di episodi nascosti, inconfessati e impensabili,  della propria Storia, messi in scena con uno spirito cinematografico ricreativo, vero elemento di novità. Così  tutto è accettabile, dall'emigrazione romena all'estero in cerca di fortuna  alla varietà di tipi umani lungo sinistre lande di campagna, sino alla  complicità amorosa e al rapporto coniugale dentro o fuori istituti di pena.
 Persino la radiografia di una classe sociale che, per  salvare l'immagine, è capace della più bassa azione in nome dei sempiterni  egoismi: la medesima upper class che si prostrava riverente ai piedi di  Ceaușescu, e probabilmente era contraria alla rivoluzione, mostra in apparenza  di piangere e supplica in ginocchio le vittime dei propri errori (cioè gli  errori dei loro viziati figli) di non danneggiarne lo status. Tematiche  simili hanno fruttato a Il caso Kerenes un buon successo di critica e  pubblico, come discreta è stata l'accoglienza per Oltre le colline, che,  dietro la facciata di una storia d'amore possessivo e (auto)distruttivo  ispirato a un fatto di cronaca, ha permesso allo spettatore occidentale di  farsi un'idea del radicamento religioso e delle contraddizioni, ambiguità,  connivenze, commistioni e altro ancora, capaci di esercitare anche in tempi  recenti una presa molto forte su buona parte della società romena.
 C'è chi, infine, come lo scrittore e film maker Andrei  Ujică mostra coraggio a sufficienza per affrontare la figura del Conducător in persona nel  controverso Autobiografia lui Nicolae Ceaușescu (2010), restituendone un  ritratto – nelle intenzioni – il più filologicamente obiettivo ed imparziale.  Da dichiarato dissidente comunista, che nel 1981 lasciò la Romania  per stabilirsi in Germania Ovest, Ujică, ben lontano dalla facile influenza  delle propagande anticomuniste tipiche dei documentari, concepisce l'operazione  come una serie di immagini d'archivio in ordine cronologico – quasi sempre  estrapolate da riprese televisive romene – illustrate a mo' di lungo flashback  del dittatore durante  il sommario processo subito a Târgoviște, insieme alla moglie  Elena. Eppure, si ha la sensazione di assistere a un film d'azione:  tra verità accertate e inevitabili retroscena, punti di vista condiscendenti o  apprezzamenti negativi, successi e fallimenti, per tutta l'opera Ceaușescu non  ha niente del mostro costruito dalla propaganda mediatica nazionale e  occidentale, nonostante all'inizio del suo mandato si affermasse l'esatto  opposto. In Autobiografia lui  Nicolae Ceaușescu trapela ciò che in altri documentari o reportage  è stato accuratamente celato: lo sviluppo industriale ed economico della  Romania, l'importanza del Paese nella politica estera internazionale e il suo  ruolo come stato sovrano per difendere i propri interessi. Tre realtà, due decenni  dopo il colpo di Stato conclusosi con l'esecuzione del Geniul Carpaţilor, notevoli per  la loro totale assenza nella Romania odierna.
 Che il Paese goda di un terreno più fertile negli ultimi  anni, lo testimonia l'interesse di autori – alcuni molto noti come Coppola, ma  non solo – verso lidi che consentono la lavorazione di film con budget meno dispendiosi e più attenti al rientro-spese, prevenendo la paura di  rimetterci se le attese del pubblico non fossero ripagate. Come pure la propria  solida collaborazione nel finanziare, e concedere maestranze, tecnici e  personale per progetti stranieri: in alcuni casi, a loro volta, adattamenti  tesi a documentare episodi di estrema attualità (Diaz di Daniele Vicari)  o apologhi sociali in cui a far capolino è il rapporto empatico delle comunità  europee verso una cultura avvertita come distante dalla nostra, lasciando campo  libero a ostilità e pregiudizio senza realmente sapere quanto invece ci  appartenga.
 Si ha l'impressione che quello che dovrebbe essere un  Paese rappresentato in ogni possibile fuoriscena, messo a nudo nella sua  intimità da uno occhio sensibile al reale e alle difficoltà che incontra,  preferisca puntare tutto su un cinema più ammiccante. Uno spettacolo costellato  di epiloghi edificanti, di sentimentalismi prêt-à-porter, di  film-cassettagirati a ricalco di blockbuster esteri, i cui  incassi in patria sono l'unica risorsa affinché le sale cinematografiche  esistano ancora. Affatto strano: esiste da sempre un cinema commerciale in  grado di permettere a un cinema più importante di esistere, e dunque ben venga.  Affinché il tutto non si disfaccia come la manciata di neve sporca del  lapidario fotogramma conclusivo di Oltre le colline, offuscando  l'invadente presenza di un gelido ieri. Affinché tutti in quel Paese, chi fa il  cinema e chi lo guarda, non serbino livida memoria.
 
 
 
 Francesco Saverio Marzaduri(n. 5,  maggio 2015, anno V)
 
 
 |  |