Lucian Raicu, sguardi sulla Francia nelle «Cento lettere da Parigi»

Lucian Raicu (pseudonimo di Bernard Leibovici), nato a Iași nel 1934 e deceduto a Parigi nel 2006, è uno dei migliori saggisti della seconda metà del ventesimo secolo, un’autorità nel campo degli studi su Gogol, Tolstoj, Thomas Mann e Ionesco. Laureatosi alla facoltà di Lettere dell’Università di Bucarest e della Scuola di Letteratura «Mihai Eminescu», diventato redattore delle riviste bucarestine «Gazeta literară» (l’attuale «România literară») e «Viața Românească», si fece licenziare da quest’ultima (1958), ed espellere poi dall’Unione degli Scrittori di Romania, vittima delle persecuzioni antisemite del regime comunista. Nel 1986, costretto all’esilio, assieme alla moglie, la scrittrice Sonia Larian, raggiunge Parigi, dove farà il cronista per i programmi in lingua romena di «Europa Libera» e di «RFI – Radio France Internationale».     
Le sue opere più importanti (di cui alcuni brani sono stati tradotti in francese da Odile Serre e Dominique Ilea) sono: Gogol sau fantasticul banalității (Cartea Românească, 1974); Calea de acces (Cartea Românească, 1982); «Journal en miettes» cu Eugène Ionesco (Litera, 1993); O sută de scrisori din Paris (Cartea Românească, 2010). Ha scritto inoltre: Critica – formă de viață (Cartea Românească, 1976); Reflecții asupra spiritului creator (Cartea Românească, 1979); Scene din romanul literaturii (Cartea Românească, 1985); Dincolo de literatură (Hasefer, 2008).
Durante gli anni ’90 del secolo scorso, Lucian Raicu fu, al microfono del programma in lingua romena della «RFI», la penna e la voce di una serie di cronache settimanali, in gran parte riprese dalle riviste «România literară» e «Vatra» di Târgu-Mureș. Nel 2010 esce a Bucarest una raccolta di un centinaio di queste impressioni «a caldo», giorno dopo giorno, sulla vita letteraria parigina: presentazioni di libri, conferenze, mostre, interviste radiofoniche o televisive... Ci ritroviamo il Raicu maestro del carboncino, della freccetta che colpisce nel segno, dell’angolino insospettato che ridisegna interamente un paesaggio «familiare». Testi da leggere d’un fiato, appena inframmezzati da respiri: Benjamin Fondane – quel profeta imprudente; Pascal, Bernanos oppure Paul Ricœur – riflessioni sul male e sul dolore; ma anche una specie di vie, mode d’emploi – come savoir jouir loyal de soi-même (direbbe Montaigne); il riso di Voltaire o di Cioran – haro sur le cliché; meditazione sullo «stile», il solo che potrebbe redimere il mondo – con Proust e Deleuze; fascinazione per la voce – quella di Mauriac, oppure di Barthes; prospezioni dal lato di Ionesco o di Gherasim Luca; ridimensionamento di Paul Claudel o ritratto commovente di Antoine Blondin, le flâneur de la rive gauche... Tout Paris in una bottiglia della migliore annata.  


Una frase di Victor Hugo


Tra le belle parole rivolte alla Francia, sceglierò queste, trovate da Victor Hugo: France, France, sans toi le monde serait seul – addirittura. Da ripetere tra sé e sé nei momenti di depressione. Forse sarebbe stato opportuno ribattere al poeta che anche la Francia si sentirebbe da sola senza di lui. Ma chi si è mai spinto tanto nel riconoscere il ruolo tenuto da uno scrittore nel destino del proprio paese? L’ingratitudine, l’ironia, la diffamazione, l’indifferenza, l’oblio, il tedio, non ci sono forse reazioni, riflessi ben più naturali, meno forzati, meno enfatici della riconoscenza, dell’emozione, dell’omaggio?
«Senza di te, il mondo sarebbe solo.» Convinzione che peraltro non impedì a Hugo di lasciare la patria e di viverne lontano per tanti e tanti anni, quando convinzioni di altra natura, ma altrettanto forti, glielo imponevano. Non poteva fare altrimenti, a meno che egli smettesse di essere quello che era, mentre sapeva benissimo che cos’era. L’esilio non contraddiceva la sua patetica e «radicale» dichiarazione d’amore, anzi, essa dava a lui molta più credibilità – e lo corroborava perfino ancor di più nell’autorità di reiterarla ogni volta attestandone puntualmente la fondatezza. Al tempo stesso, con un orgoglio che non gli era affatto estraneo, obbligava l’«essere» temporaneamente abbandonato – la Francia – ad affrontare analogamente, per quanto fosse poco disposto e soprattutto capace di sentimenti leali e forti, l’esperienza della «solitudine». A vivere, privato del grande uomo, del suo più grande poeta, l’amara esperienza dell’assenza, dell’isolamento, della relegazione. Quell’esilio non era unilaterale. Più semplicemente, una delle due parti era più «sensibile» dell’altra.
Senza la Francia, il poeta non sarebbe stato quello che fu. Ma neanche senza l’esilio. Si trattò, senza dubbio, di un «certo tipo» di esilio. Qualunque fosse tale esilio, poiché il transfuga era anche lui «un certo tipo di uomo», diverso dagli altri, dalla gente di sensibilità media, di dignità, d’orgoglio e di talento similmente di medio valore...
Chi tranne lui avrebbe mai osato pensare e pronunciare l’«enorme» frase citata sopra, una da par suo, conforme alla «formula» del suo genio, e a cui non manca nulla, né la grandezza, né la dismisura, né, s’intende, il ridicolo? Né persino il coraggio di avere un’aria ridicola, il coraggio più grande che ci sia.
Passando davanti alla cattedrale di Notre-Dame, oppure attraversando Place des Vosges, camminando davanti alla casa in cui visse Hugo – per quanto bizzarro possa sembrare, anche lui visse da qualche parte, ebbe una casa, una famiglia, delle quotidiane incombenze –, ogni volta idee pari alla sua statura ci invadono, ci paiono eccessive, «sconvenienti», un po’ «enfatiche», senza un ovvio nesso con la vita del «giorno dopo giorno», con la vita «così com’è». Ma, in fondo, com’è la vita, e perché dovrebbe rimanere totalmente al di fuori di tali riflessioni? Su Victor Hugo, hélas [la frase ironica di André Gide, n.d.t.], sulla poesia, sulla Francia e altri paesi «d’origine», sull’esilio, sulla solitudine, sulla fierezza, sulla ribellione, sulla collera, sulla rassegnazione – con o senza la maiuscola?
Viviamo oggi (si è affermato con immotivata fierezza, quando sarebbe stato più opportuno affermarlo con mestizia e umiltà) in un’«era del sospetto» [il titolo della famosa raccolta di saggi sediziosi di Nathalie Sarraute, n.d.t.]. Che cominciò già molto tempo fa, da che mondo è mondo, col «processo a Socrate», per riferirci a una «data» non troppo convenzionale – e che ovviamente non è finita coll’«esiliato» Victor Hugo... Il cui allontanamento era appena iniziato che già un grande critico scriveva che leggere il, nonostante, grande poeta ci dà la sensazione di uno gnomo che ci percuote le gambe con un piccolo bastone mentre passeggiamo in un giardino meraviglioso, colmi di felicità... Così colossale sarebbe stato dunque il potere di quel Nano – in senso proprio e figurato – il quale si accostava alle «letture» di Sainte-Beuve – il potere di quello gnomo del «sospetto»



Traduzione e presentazione di Anca-Domnica Ilea
(n. 10, ottobre 2015, anno V)