«Mușcând din moarte ca din ciocolată»: il dramma degli istroromeni nel romanzo di Cela Varlam

Cos’è e cosa si nasconde dietro quel sapore di cioccolato che mordendolo, dolce e un po’ amaro allo stesso tempo, ti fa andare con la mente all’idea stessa della morte? È proprio questa immagine, reale e metaforica, attorno cui Cela Varlam (n. 1952) costruisce il suo romanzo Mușcând din moarte ca din ciocolată (Cartea Românească, Bucarest 2015, pp. 324) nel quale, per la prima volta – crediamo, ma possiamo essere smentiti – è raccontato da un autore romeno il dramma della comunità istroromena che, assieme alle altre comunità, tra cui quella italiana, trapiantate in Istria da secoli, fu vittima prescelta e innocente degli efferati eccidi (noti tristemente come «le stragi delle foibe» del Carso) perpetrati durante i rastrellamenti per mano dei partigiani del maresciallo Tito, all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale, in quel clima di odio incrociato fra popoli, attizzato dall’una e dall’altra parte per ragioni ideologiche e politiche.
È la fine di un’epoca: l’Istria allo sbando e terreno di vendette, abbandonata a se stessa dopo il crollo del regime mussoliniano, cade in balia di un altro regime, quello titino, ed è proprio su questo sfondo storico che si apre il romanzo. I rovesci della storia hanno dirette conseguenze sulle vite di migliaia di civili esposti a barbare violenze, la cui quiete familiare è stravolta e trasformata in un incubo di morte. Ed è un incubo come questo che si spalanca agli occhi anche della protagonista, la tredicenne Ena Bataru strappata una notte dalla propria casa nel paesino istroromeno di Sușnievița insieme a tutta la famiglia: il fratellino Gabriel di quattro anni, e i genitori, la mamma Albona, il papà Milutin, nomi «esotici» risonanti di una latinità mescidata di echi slavi. Tra Filip, l’ufficiale croato che capeggia i soldati che irrompono nella loro casa, ed Ena si instaura poco a poco (e continuerà in seguito in una storia d’amore impossibile), durante il tragitto verso la foiba e la morte preannunciata, un rapporto di complicità. A un certo punto l’aguzzino, affascinante e dai begli occhi verdi, le si avvicina per offrirle un po’ di cioccolata, e da questo gesto quasi d’intesa Ena e Gabriel hanno salva la vita; vengono lasciati allontanare dal gruppo di prigionieri e fatti imbarcare su una scialuppa che li porterà a Trieste, nel campo per rifugiati di Padriciano, mentre il destino dei suoi genitori è tragicamente segnato. E da questo episodio crudele e drammatico partono i fili di altre storie, che si intessono ora col passato, ora con i nostri giorni, avviluppando altri personaggi e altri momenti storici (l’amica ebrea Tamar Zverling, conosciuta a Padriciano e che sfuggirà ai lager nazisti, i coniugi Antonella e Guido Trevor – il capitano della scialuppa, amico di Filip, colui che prende Ena e Gabriel a bordo per il viaggio della salvezza), insomma tutti testimoni e vittime delle tragedie umane che hanno segnato l’impazzimento del secolo scorso.
Con una scrittura sensibile ma forte e diretta, qua e là però con qualche debolezza di tenuta nella trama (e con alcuni refusi sfuggiti nella fase di rilettura), Cela Varlam ci regala una storia impressionante e commovente che ci catapulta negli orrori bellici, nei quali ogni tanto la natura umana era capace di ridestarsi dal sonno della ragione; al contempo l’autrice riporta alla memoria le vicende e le sorti della comunità istroromena, fratelli lontani di una stessa cultura e lingua madri, oggigiorno quasi del tutto dimenticata e destinata ormai a scomparire per sempre.       



Da «Mușcând din moarte ca din ciocolată»

1946
Iniziò così…


Era notte. Rastrellavano i vecchi e i bambini, e perfino le donne. Io avevo tredici anni. Che cos’ero a tredici anni: ragazzina o già donna? Neppure oggi lo so. Piangevo in silenzio, con il mento sprofondato nei vestiti affagottati che stringevo fra le mani. Dovevo sempre tenere qualcosa in mano. Mi sembrava che stringendo in mano un fazzoletto o una mela o una pera avessi qualcosa a cui appoggiarmi. Mamma diceva che, già da piccolissima, mi avvinghiavo a tutto quello che mi capitava a tiro e che non volevo più staccarmene. Aggiungeva che, a mano a mano che crescevo, andavo sviluppando una forza pari quasi a quella di un ragazzo, ma la paura non mi dava tregua. Così fu anche quella notte, tenevo stretti i vestiti e piagnucolavo. Mamma era sfigurata, quasi livida in volto, come non l’avevo mai vista prima. La ricordo come fosse un ritratto dipinto, che vorrei avere ora appeso a una parete o nel mio portafoglio. Era livida ma bella. Come? La bellezza in lei non veniva mai meno, qualunque cosa accadesse. Era come un oggetto antico, passato indenne alla prova del tempo e che resisteva, nonostante tutto, al freddo o alla canicola, all’acqua o al fuoco, alle percosse o al cambio di proprietario. Una sorta di icona lasciata in eredità di generazione in generazione, forse di legno, forse d’argento, pochi colori sbiaditi, appena visibili, e il resto… tutta forza. Papà ogni tanto le urlava qualcosa, anzi, la sgridava spesso, troppo spesso, ma sul suo viso non si muoveva un muscolo, nei suoi occhi non spuntava una lacrima. E avevo continuamente l’impressione che lei uscisse vittoriosa da quella muta lotta, e che papà si ritrovasse pesto e dolorante, anche se così non sarebbe stato. E mamma, quella notte, mi ripeteva insistentemente che dovevo prendere con me tanti vestiti, che li dovevo ficcare nelle tasche, nei pantaloni del pigiama, che portavo sotto un altro, felpato. E aggiungeva, mentre vestiva il mio fratellino, di stare vicino a lei o a papà quando ci saremmo messi in cammino. Perché capissi che non mi poteva prendere in braccio, che ero già bella grande, come una donna. Che avrei avuto freddo, anche se fuori non faceva così freddo. Che avremmo battuto i denti, papà no magari, ma io e lei sì. Non capivo come facesse a parlare in modo così lucido. Mi dava buoni consigli, pareva che la sua mente funzionasse a velocità ridotta e che scegliesse, fra tutte le cose a lei note, solo il meglio. Tremava, così come le tremavano le mani e anche la schiena sussultava mentre infilava al piccolo dei vestitini. Tuttavia sapeva cosa dirci. E anche a papà dava qualche consiglio, ma sembrava che non la stesse ascoltando. O forse non gli interessava più niente. Forse sapeva che ci aspettava la morte e voleva che morissimo in fretta, il più rapidamente possibile, affinché non soffrissimo tanto. Noi, i grandi, preparavamo i nostri fagotti. Non dovevano essere pesanti, ma neppure troppo piccoli, perché non si sapeva dove ci avrebbero portato, né per quanto tempo ci avrebbero tenuto, né quante stagioni avremmo trascorso vagabondando. Mi spaventai quando la sentii dire che non mi dimenticassi di portarmi dietro tutte le mutande, perché ero una ragazza già grande e per tanti mesi non saremmo più tornate a casa, e chissà se ci saremmo potute lavare. Quello fu il momento in cui cominciarono a passarmi per la mente cose orribili circa il viaggio che stavamo per intraprendere. Che ti si parli di mutande quando si sta lasciando la propria casa non è normale. È una cosa che fa veramente ribrezzo, per non dire che incute proprio paura. Tentai di scacciare subito quella terribile sensazione e continuai a frugare tra i miei vestiti. E cercai di perder tempo facendo cose insignificanti o stupide: chiamai col pensiero il cane dei vicini, aprii il rubinetto dell’acqua senza che ce ne fosse bisogno, mi venne voglia di uscire in cortile per contare le foglie di un ramo del mio albero. “Non ci sto più con la testa”, mi dissi, ma sapevo invece che ero perfettamente razionale. E allora mi venne un’idea più interessante, che cambiò il mio stato di disperazione. Mi posi il problema del mio nome: pensavo se fosse abbastanza bello per far conoscenza con altre persone. I nostri nomi devono essere adatti ai posti affollati. Né troppo lunghi, né troppo corti, non devono essere stridenti, né troppo leziosi al pronunciarli, ma devono passare inosservati. Non si sa mai quali occhiatacce ti potrebbe lanciare chi fa l’appello. A scuola sei sempre sotto lo sguardo severo dei professori, che vogliono sapere come ti chiami. Ma se hai un nome insignificante, la passi liscia senza problemi. E mi resi conto che il mio non andava bene per niente. Io mi chiamo Ena, il mio fratellino fu battezzato Gabriel, il nome di papà è Milutin, e quello di mamma Albona. Il nostro cognome era Bataru. Neanche questo era un nome così diffuso nella comunità istrorumena. I miei genitori avevano dei vicini che di cognome facevano Vretenar o Licul. Come la mamma, anche a me erano cominciati a passare per la testa tanti pensieri, ma non tremavo ancora. A papà erano cambiati gli occhi. Dalle palpebre che parevano essergli quasi cascate fin sopra le guance, saettavano ora due occhi tondi, spalancati e vivi. Lui cercava fra i documenti. Cercava gli averi fra le carte della casa, i loro segreti di genitori. E li scartabellava uno a uno centinaia di volte, per poi ricominciare ogni volta da capo. Io pensavo che lo facesse di proposito per non pensare a cose più importanti, ma sentii mamma che gli diceva nella nostra lingua, e anche in italiano, che non doveva alzarsi da lì finché tutto non fosse stato messo in ordine. Solo loro due potevano sapere di che tipo di ordine si trattasse. Per tutto il tempo fuori si sentirono grida, urla, strilli, ordini dati dai militari, un pesante incedere di passi, porte sbattute, pianti e spari. Era sempre più evidente che papà aveva avuto ragione: ci dirigevamo verso la fossa.
L’autunno non ci faceva più capire bene se facesse caldo o freddo. A volte c’erano notti più fresche, sicché mamma forse aveva ragione quando diceva che avremmo battuto i denti. E forse fu per questo motivo che vestì pesante il mio fratellino. Ma, se ricordo bene, anche a me disse di mettermi qualcosa di leggero e di pesante, una flanella, il paltò, neppure io sapevo più quale capo di vestiario l’avrebbe soddisfatta. Capii insomma che era insoddisfatta di quello che facevamo noi, gli altri. Alcune foglie rosse penzolavano sopra la porta d’ingresso. Il nostro vecchio albero si era piegato. E avevamo sete.
Alla fine, delle voci spaventose si avvicinarono a casa nostra. Ebbi l’istinto di scappare, come quando i ragazzi volevano picchiarmi, ma resistetti. A ogni modo non ci sarebbe stato niente da fare. Fui forte. Non mi lamentai, non gridai, non mi gettai a terra in ginocchio. Guardai verso la porta, che continuava a restare chiusa. Una macchia verde si allargava davanti ai miei occhi fino a far smarrire la propria sagoma. La maniglia mi riportava alla mente tutta la mia infanzia: come l’abbassavo lentamente quando tornavo tardi, entrando in casa di soppiatto, facendo molta attenzione; come scappavo via da mamma quando mi veniva incontro con la mano alzata, tutta inviperita; come la maniglia si rompeva spesso per colpa di papà, che, biascicando improperi, se ne andava a bere un bicchierino con i «ragazzi»; come l’accarezzava la mamma mentre parlava sottovoce con la vicina, quando le chiedeva in prestito qualcosa o quando si preparava per andare da qualche parte. Ogni volta che passavo davanti alla nostra porta verde, ne sfioravo con dolcezza il metallo, quasi che fosse il mio migliore amico. A volte era fredda come una lastra di ghiaccio, altre volte invece sembrava vellutata come la pelle. Mi era molto cara, ma ora pensavo furiosa che non sarei più potuta tornare a casa come avevo sentito dire fosse già accaduto ad alcuni dei nostri vicini. Ossia, era possibile che ci avrebbero uccisi tutti e che sarebbe rimasta questa casa, vuota e abbandonata. Non sapevo che dire. A quell’età, sapevo solo di desiderare che tutto quello che accadeva a uno di noi accadesse anche a tutti i membri della nostra famiglia. Oppure che morissimo subito, o che mangiassimo subito o che ci addormentassimo, la sera, più o meno allo stesso tempo. Sapevo che avrei pregato l’ufficiale di fare quello che doveva fare a noi tutti, subito. E sapevo che, quella sera, io avevo molta più forza dei miei genitori. Il piccolo Gabriel si mise finalmente a piangere. Si era annoiato e gli era venuto caldo o, come succede con gli animali, aveva sentito avvicinarsi il pericolo.

La porta fu spalancata e tre uomini ne varcarono la soglia, senza che fossero stati invitati a entrare, pronti a farci del male. Prima che qualcuno ti faccia del male, gli leggi in faccia come andranno le cose. Se ce l’ha gelida e brutta, non è affatto un buon segno. Se sorride con un ghigno che sa di beffa, non va bene lo stesso. Se ti parla con dolcezza fin dal principio, non si sa. Può essere l’una o l’altra cosa. Quelli che ci erano entrati in casa urlavano. Di perché ce ne stessimo lì come dei cretini e non uscissimo in strada, visto che loro l’ordine l’avevano già dato da un pezzo. Si avventarono su di noi afferrandoci per le mani quasi staccandocele dai polsi. Ci colpirono in faccia. Il piccolo Gabriel strillava disperato. Capivamo tutto quello che ci dicevano perché uno di loro gridava in italiano, anche se avevamo sentito dire che venivano dalla Croazia, ma credo che avremmo capito comunque. Del resto il luogo in cui abitavamo era un luogo lasciato a tanti altri popoli. Lì, insieme, ci eravamo noi istroromeni, e poi i tedeschi rimasti da quelle parti chissà da quando, e poi molti italiani, ma anche sloveni, croati e non so più quanti altri ancora. Si viveva tutti in armonia, e nessuno ci faceva più tanto caso. Che parlassimo lingue diverse ci pareva normale, e in più le apprendevamo parlando fra di noi. Per questo capimmo quello che ci avevano gridato i soldati. Colpirono a destra e manca finché non si fece avanti un quarto ufficiale, che pareva essere il capo, quelli lo ascoltavano e facevano quello che diceva lui. Questi, subito dopo aver varcato la porta, spaziò con lo sguardo in camera, guardò il mio fratellino e domandò quanti anni aveva. Eravamo increduli. I miei occhi rimasero attaccati alla grande stella rossa che portava in petto. Ma mi affrettai a rispondergli, non so perché avessi avvertito che quella domanda mi autorizzava a sperare. Sentii ardermi dentro qualcosa, che salì su fino alle guance, e la notte parve quasi svanire. L’ufficiale-capo mi guardò e mi domandò brusco perché rispondessi io al posto dei miei genitori. Era giovane e bello. Parlava velocemente, io non conoscevo molto bene il croato, ma capii lo stesso. Non gli risposi più. Abbassai la testa, senza che fossi seriamente spaventata. La speranza durò ancora un po’. Uno degli altri soldati piazzò un fucile in spalla a mio padre, che doveva chiudere il plotone della nostra famiglia, e ci mettemmo in cammino. Un cammino lungo cui ci conducevano loro.
Non vedevo più il colore delle foglie, ma non volevo andarmene senza salutare la nostra casa, né l’albero o il cortile. Un po’ più in là incontrammo alcuni vicini, ammassati da altri soldati i quali gli facevano scandire il nome di Tito. Non conoscevano canti serbi comunisti e ciò li fece andare su tutte le furie. Ma avrebbero dovuto usare un po’ la logica. Dove potevamo mai averli sentiti e di conseguenza imparati? Nessuno fra coloro che abitavano in Istria era comunista. Come diavolo potevamo conoscere dei canti comunisti? Certo, avevamo sentito parlare di Tito, ma i miei ne parlavano sottovoce, e io ero troppo piccola, non mi interessava nulla di tutto ciò. Mi dispiaceva aver dimenticato o, semplicemente, non aver prestato più attenzione a quello che dicevano fra loro i miei genitori. In fondo, a tredici anni, ero già una ragazza grande, e avrei dovuto sapere molte più cose. E invece capitano di quelle cose a questo mondo che ti colgono impreparato e tutto diventa più difficile. Se avessi saputo chi fosse questo Tito, forse avrei potuto salvare dalla morte i miei genitori. Se solo fossi stata capace di uscire dalla fila e guardare dritto negli occhi gli ufficiali e mettermi a cantare quello che loro si aspettavano da noi… Il collo rigido, come un vero soldato, le braccia dritte lungo il corpo, i talloni uniti e il petto in fuori, esattamente come facevano loro quando ricevevano o davano ordini… Tutti si sarebbero domandati che diamine stessi facendo, si sarebbero spaventati perché magari mi sarebbe successo qualcosa, magari mi avrebbero fucilata. Di punto in bianco mi sarei messa a cantare. A voce spiegata e senza errori. Con tutte le parole conosciute, tutte le strofe, anche il ritornello, tutto. Sono sicura che ci avrebbero lasciati andare a casa, perché nessuno si sarebbe aspettato qualcosa di così bello e, invece di una punizione o della morte, sarei diventata una sorta di eroina. Domandai a papà, sottovoce perché non mi avesse insegnato quel canto. Papà mi teneva per mano, anche se ero grande quasi quanto lui, robusta e dai seni prosperosi. I ragazzi di Sușnevița attaccavano briga con me, mi rincorrevano per toccarmi i seni o il sedere o le gambe. C’erano anche uomini sposati che mi dicevano sconcezze. Avevo i capelli lunghi, un po’ ondulati, di un colore un po’ più chiaro di quello della pelliccia degli scoiattoli. Mi piacevano i miei capelli e ci affondavo sempre le mani. O per sistemarmeli, come se dovessi prepararmi per andare a un incontro, o per scarmigliarli, gettandoli, con una mossa attenta del capo, a sinistra e a destra e viceversa, o me li tiravo perché sembrassero più lunghi o li raccoglievo, solo per qualche minuto, in una treccia. Agli uomini piaceva un sacco questa cosa dei capelli. Papà mi dette uno strattone così forte al braccio che quasi credetti che me l’avesse staccato dalla spalla. Feci anch’io la stessa cosa. Ero forte. Gli fece male. E allora ficcai le dita della mano libera nel fazzoletto che avevo in tasca stringendolo fino a strapparlo. Mi venne da piangere. Non dovevo però. Dovevamo intonare il canto dedicato a Tito, e non piangere. Si fece un altro passo avanti. Con il piede destro davanti, così come stavamo tutti, portammo quello sinistro vicino a quello destro e, così, ci spostammo. Andò bene. Non so come e perché, ma andò bene. L’uomo deve continuamente fare qualcosa. Deve muoversi. Non starsene fermo. Anche se lo fa per andare a sotterrare sé stesso. È meglio camminare che stare fermi. Pensai che forse mi sarebbe piaciuto fare il militare, correre al fronte, arruolarmi e combattere. Assumendomi ogni rischio. Sospiravo piano, non mi sentiva nessuno, neppure papà. L’ufficiale-capo che era entrato in casa nostra impartì un ordine. Papà mi sussurrò che aveva spedito i soldati a mangiare. Nessuno girò la testa per vedere dove fossero entrati o dove mangiassero. Lui rimase con noi e ci passava accanto, fiutandoci come un segugio. Sono sicura che ci stava annusando. Annusò anche me. Anzi, si piegò un poco in avanti e chiuse gli occhi. Conoscevo, comunque, anch’io un paio di cose a questo mondo, perché papà era stato un sorta di professore senza averne i titoli. Non esistevano scuole dove si insegnava la nostra lingua, e papà che aveva un cervello così e aveva letto tanti libri, procuratisi chissà da dove, in estate piazzava nel nostro cortile una specie di lavagna come quelle che si trovano nelle scuole vere, e impartiva lezioni di istroromeno e di aritmetica. Ci venivano molti bambini. Ma se ne andavano a casa quando ne avevano voglia o quando li chiamavano i genitori. Non erano lezioni disciplinate. Però papà si intestardiva a tenerle comunque, dicendo che, un giorno, qualcuno avrebbe fondato una scuola di lingua romena. A me aveva insegnato un sacco di cose, sapevo molto bene fare di conto e fare le moltiplicazioni, le divisioni e risolvere problemi di matematica abbastanza difficili. Mamma non sapeva tante cose quanto me. Lei cuciva. Aveva una macchina per cucire e guadagnava dei bei soldini. Ma era anche molto sveglia. Credo che noi tutti fossimo molto svegli. Mentre l’ufficiale mi stava annusando, girai la testa verso di lui. Colto di sorpresa, mi guardò negli occhi. E così feci anch’io. Non avevo paura. Erano verdi e molto belli. Passò oltre. Con la coda dell’occhio, vidi di nuovo le foglie rosse di uno dei nostri alberi. Mi ricordai della nostra vita in pace fino a quel momento. Mi venne nostalgia di una pietanza che ci preparava la nonna un tempo, qualcosa con dei peperoni colorati, pomodori, aglio e uova. Cucinata in una padella. Io ci spargevo sopra del formaggio di pecora e insegnai a farlo anche ai miei. Le foglie rosse mi riportarono alla mente il profumo di quella pietanza. Me la stavo facendo addosso. Domandai all’ufficiale se potevo andare a fare pipì. Non me lo permise. Cominciava il calvario? Mi dispiaceva essere ragazza. Una persona. Un topo di campagna, una talpa, un mulo o un gatto avrebbero potuto fare i loro bisogni in modo semplice e rapido, senza vergognarsene. Perché eravamo persone? Che sciagura! Me ne resi conto allora, per la prima volta. Papà mi teneva per mano, e con ciò? Non serviva a niente. Mi sentivo scoppiare il ventre e la vergogna mi aveva congestionato le guance. Ero rossa e con la pelle della faccia dilata per la sofferenza. Bastava ancora poco e, ai miei tredici anni, me la sarei fatta addosso, lasciando libero sfogo alle schifezze che mi tenevo dentro, e che facciamo di tutto per nasconderle quando il nostro cervello si sveglia e fino al giorno in cui moriamo. A che serve un cervello pieno di parole, di buone maniere, di tabelline, di poesie e canti, di storie, se non siamo in grado di disfarci delle schifezze dentro di noi senza che tutti lo vengano a sapere? Che importava se ero bella e se gli uomini attaccavano bottone con me, se quella stramaledetta pipì stava per zampillare dal mio ventre insozzandomi per sempre? Quanto siamo tutti schifosi! Che puzzolenti! Siamo soltanto degli ipocriti mucchi di spazzatura! Delle pance comandate da altri: o ti viene permesso di nasconderti o dai sfogo al caldo fiotto davanti a tutti. Ti scavi la fossa, facendo pipì, davanti a tutti. Odiai per sempre quell’ufficiale, quando, all’improvviso, proprio nel momento in cui volevo morire, mi trasse in disparte, mi strattonò e mi scaraventò dietro un albero grosso e vecchio. Avrei potuto costruire una casa dietro a quell’albero e non la si sarebbe potuta vedere. Mi alleggerii. Dette una sistemata ai vestiti, ai capelli e allo sguardo, come se mi stessi preparando per andare a una festa in ballo. Mi sentivo raggiante e forte, pronta ad affrontare, da quel momento in poi, di tutto. Ora potevo andare tranquilla alla fossa, tutto si era fatto semplice e bello. Tornai al mio posto, guardai, riconoscente, l’ufficiale. Era stato il mio salvatore. Aguzzino e salvatore. Mai più mi sarei dimenticata di lui.             
[…]                                  



A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 6, giugno 2016, anno VI)