«Le Viking Rose», il thriller anticonformista (e con una storia particolare) di Cristi Lavin

A volte i libri hanno alle spalle una storia particolare, curiosa, come è proprio il caso del romanzo «thriller» ambientato tra Norvegia e Romania (ma difficilmente inquadrabile: è un po’ la summa – debordante, politicamente scorretto, in parte autobiografico, con situazioni al limite dell’assurdo e qua e là un tantino, ma simpaticamente, logorroico – della letteratura di genere senza esserlo però fino in fondo) scritto dal bucarestino Cristi Lavin, stranezza che si evince già nel titolo, in francese, Le viking rose. Sì, perché il libro è stato pubblicato inizialmente, in versione elettronica, in lingua francese da Raoul Weiss, editore e traduttore stesso del romanzo che, folgorato dalla storia, ha deciso quindi di puntare su di esso pubblicandolo sul sito della sua casa editrice «Le Présent Littéraire». E l’autore ha espressamente lasciato il titolo in questa lingua (in romeno è Vikingul roz) in omaggio a questa sorta di «imprimatur». Un romanzo perciò con un debutto assolutamente inconsueto, partito in sordina ma che poi ha suscitato un qualche interesse anche in Romania, raccogliendo alcune recensioni positive dopo il lancio alla fiera del libro «Gaudeamus» del 2012 per i tipi della Tracus Arte. Suo «padrino» d’eccezione in Romania è stato lo scrittore Radu Aldulescu che ne parla straordinariamente bene e che ha appoggiato con convinzione fin dalla sua lettura in manoscritto, proponendolo a importanti case editrici romene però senza successo.

«Romanzo poliziesco per criminali» – così lo definisce l’autore – il libro è costruito lungo due assi narrative ciascuna con un suo protagonista: il romeno Cristi e il norvegese Gunnlaug. Il primo è un giovane bibliotecario di Bucarest che, in combutta con altri complici, traffica (o falsifica, alla bisogna) antichi incunaboli romeni; il secondo un cinquantenne gay collezionista, di Oslo, di antichi manoscritti. I due – colti in situazioni e contesti sfasati cronologicamente di dieci anni, legati fra loro da fili sotterranei e alla fine convergenti – incrociano le loro vite per uno strano gioco del destino (Cristi, per un’assurda scommessa-sfida lanciata a lui dai complici, si sposa, in modo rocambolesco, con il norvegese, che abbandonerà subito dopo le fugaci «nozze», e questi, ferito da quell’episodio, approda in Romania – per sottrarsi alla polizia norvegese che vuole arrestarlo – deciso a vendicarsi non di Cristi, ma di tutti i romeni). A rendere ancor più intricata la trama, s’inserisce un altro personaggio, l’italiano Giuseppe Pizzo, anch’egli collezionista di vecchi codici. Questi si sdoppia per così dire nelle due storie, giocando lo stesso ruolo ora nell’episodio con Cristi, ora in quello con Gunnlaug, del quale veniamo a scoprire che era stato fidanzato per un paio d’anni (ma con cui non si era sposato per non voler ripetere l’errore commesso con Cristi). L’italiano finirà assassinato in una toilette del Parlamento romeno, morto dissanguato con un cacciavite infilzato nella lingua mentre, si suppone, voleva approfittarne per praticare una fellatio a Cristi in stile «glory hole». Ma chi è stato l’assassino? Cristi, che si era dato appuntamento con lui per la transazione di un antico manoscritto trafugato dalla biblioteca in cui lavora? O Radu, uno dei complici della banda? Qui si fanno mille congetture, nulla è chiaro, forse è tutto frutto della fantasia allucinata di Cristi, suggestionato dalle figure sospese tra realtà e leggenda che animano le pagine di pergamena dei manoscritti che arraffa dalla biblioteca (come quella di Vlad Țepeș-Dracula). La risposta… non scontata è racchiusa nella logica del romanzo. Le viking rose è un romanzo che si legge con un certo smarrimento, è curioso e intelligente, costruito dosando con mestiere sensazionalismo e capacità introspettiva, visione personale della psicologia romena e destrezza stilistica, idee anticonformiste e detabuizzazione di determinati temi scottanti della società romena come l’omosessualità



Frammento da «Le Viking Rose»


Non saprei che scegliere fra Oslo e Bucarest. Sono a Bucarest perché mi è stato vietato di lasciare il paese. La polizia mi sta interrogando. Altrimenti sarei fuggito a Oslo da un pezzo per sfuggire a tutta questa ridicola baraonda creata intorno a me.
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Ho ucciso un uomo. Questo non costituisce un diletto a Bucarest, bensì una bazzecola, così…, qualcosa su cui spargere appena una lacrimuccia.
Il mio ideale è Canaliss, quel greco che ha fatto fuori due impiegati di una casa di cambio valute del Centro, e che dopo aver fatto schizzare tutt’intorno la materia grigia dei loro cervelli, gli ha infilato nel culo le lampade a raggi ultravioletti usate per individuare le banconote contraffatte. Durante l’autopsia i medici hanno dovuto indossare degli occhiali da sole, quando è arrivato il momento di estrarle. L’obitorio si è trasformato in un solarium, perché quelle diavolerie avevano su le batterie ed emettevano luci come quelle di una discoteca. Qualcuno gli ha domandato se si pentiva dell’efferato delitto che aveva commesso, mentre era ammanettato, ovviamente. Sapendo di essere un noto pregiudicato, e in Grecia aveva già riempito le fosse di mezzo cimitero, la domanda posta mi sembrava un tantino assurda. Intempestiva, in ogni caso. Lui era del tipo che, dopo aver commesso un crimine ed essere arrestato, veniva giudicato con rito abbreviato dal giudice che emetteva la sentenza digrignando i denti, il quale aveva anche cura di infliggergli una pena esemplare, ma il pregiudicato riacquistava subito la libertà – e non per buona condotta, bensì dopo aver ammazzato altre due, tre guardie carcerarie. E la sequenza della fuga dal penitenziario si era ripetuta già cinque volte di fila. La risposta di Canaliss alla domanda su citata è stata breve e diretta: «Chi ammazza un uomo può essere definito un criminale, ma chi ne ammazza cento è un eroe!». Ecco quello di cui la gente comune non ha la minima idea: distinguere fra crimine ed eroismo!  

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Paragonato a Canaliss ero un dilettante. Un unico crimine poteva significare solo che mi ci stavo facendo la mano!
Ce ne vuole ancora per arrivare fino ai cento, per cui risparmiatemi i vostri giudizi fino a quando succederà! Più o meno era questa la risposta che avrei voluto sbattere in faccia personalmente ai miei amici, nel caso in cui non si fossero astenuti dal farlo e mi avessero squadrato con aria severa e pavida. Non mi ero rivisto ancora con nessuno di loro – c’erano parecchi legami d’affari tra noi e ci vedevamo di rado anche prima. Ma mi immaginavo le facce che avrebbero fatto! Ci eravamo sentiti solo al telefono dopo che era scoppiato quel casino, e il loro tono non aveva mai raggiunto neppure per un momento livelli accusatori, ma avevo osservato che evitavano di pronunciare la parola «cimine». Se il discorso cadeva su quello che era successo, preferivano usare la parola «problema». Loro non potevano capire che ero entrato in una nuova età spirituale e che, finché il delitto perpetrato avesse conservato l’aura del crimine perfetto, mi sarebbe andata bene. Certamente ogni crimine è perfetto fino al momento in cui si viene arrestati. Ebbene, io avevo evitato questo momento dato che non esistevano prove convincenti. Con un pizzico di fortuna avrei potuto uscirne pulito. Quindi, risparmiato da imminenti rogne giudiziarie, nulla mi obbligava a rovistare nella mia coscienza. La mia vita acquisiva nuovo slancio, mi sentivo nuovamente un uomo integro e, in quanto tale, non avevo la benché minima propensione ad atteggiamenti alla Raskolnikov, né ombra di rimorsi, né mi angosciavo giorno e notte per via del mio abominevole gesto. Posso giurare in qualsiasi momento che Dostojevskij è un barone Münchausen, un truffatore letterario. Perché? Perché è l’assassino del crimine, che ne elimina tutta la pregnanza, che ne calunnia la purezza e ne guasta l’euforia.

[…]

Ero il miglior falsificatore di manoscritti antichi. E non si tratta solo di un parere personale – chiunque abbia avuto il privilegio di lavorare con me avrebbe dichiarato la stessa cosa. Per i membri della mafia di libri rari era un dato di fatto: anche se mi detestavano, dovevo essere loro amico. Non avevo mai avuto concorrenti e nessuno mi aveva superato. Per un motivo molto semplice: i romeni non sono capaci di scrivere manoscritti, e tanto meno di falsificarli! La cultura scritta va oltre le loro capacità! È come volerli mettere sotto a edificare piramidi. Piuttosto andrebbero a rubare quelle in Egitto!...
Senza di me tutta la combriccola che mi attorniava sarebbe morta di fame. Se fossi stato arrestato, Dio ce ne scampi!, l’unica alternativa per loro di continuare a trafficare sarebbe stata di rubare originali là dove potevano. Ebbene, tutti gli originali sarebbero finiti a un certo momento. I romeni, durante la loro travagliata storia, hanno avuto qualcosa di meglio da fare che starsene seduti a scrivere. Hanno usato le proprie mani per diverse altre faccende, e non esclusivamente per questa. A ogni modo, prima di riuscire a rubarli tutti, avrebbero rischiato di finire con me dietro le sbarre. In fondo, l’imminenza del mio arresto sfiorava ai loro occhi una situazione alla Fahrenheit 451: addio libri; sarebbero dovuti andare a vendere patate!
Ma non meritavano affatto che ne compatissi la sorte: erano stati i miei amici a immischiarmi in questa storia. L’italiano che avevo ucciso era un loro cliente. O meglio: mio.
A causa dell’interesse che loro avevano fatto suscitare in lui per i manoscritti falsificati da me, il tipo era giunto in Romania per arricchire la propria collezione. Io non lo conoscevo di persona, perché era stata la combriccola a fare da intermediaria fin dal principio negli affari con l’italiano e, logicamente, non avevo idea che fosse un loro uomo. Ho capito che le cose non erano a posto solo quando, dopo essermi rotto la schiena a falsificare Il diario di Dracula, un documento inesistente, inventato da noi a scopi commerciali, i compagni mi hanno detto che non potevo incassare il denaro perché la transazione non era andata in porto, dato che il cliente era morto. Come sarebbe a dire che è morto?, ho domandato io, molto sorpreso, ossessionato dal pensiero che volessero fregarmi e che avessero inventato quella scusa affinché io non protestassi e non mi accorgessi che loro, in realtà, si stavano sgraffignando la mia parte. Ma non hanno aperto becco. Ed è allora che sono stato colpito da una premonizione.   
Tira e molla mi hanno svelato alla fine il nome del cliente del nostro portfolio: Giuseppe Pizzo – coincidenza o no, era proprio il tipo a cui avevo fatto la pelle. Sapevo come si chiamava dopo che me l’aveva detto la polizia, che lo aveva scoperto leggendolo sul passaporto trovato addosso al cadavere. In qualche modo mi ero rovinato con le mie stesse mani. Ovviamente ai miei amici non importava un tubo che fossi io il criminale. Gli seccava solo il fatto che gli avevo sconvolto il giro di affari e che la bomba gli sarebbe esplosa fra le mani, dal momento in cui si sarebbe scoperto il motivo per il quale l’italiano era venuto qui e i legami che intratteneva con loro; insomma, alla fine si sarebbe potuto arrivare a loro.
Evitavano di invitarmi, come accadeva altre volte, a farci una birra, non perché non avessimo nulla da festeggiare, ma perché temevano che potessimo essere pedinati – io o loro, non contava poi più tanto. Si aspettavano già il peggio.
Quando mi hanno telefonato dicendomi che dovevamo vederci, mi sono spaventato. Ho pensato che volessero ammazzarmi. Soprattutto perché mi avevano detto che ci incontrassimo «là». «Là» era il nostro laboratorio, in una villetta abbandonata del centro di Bucarest. Era il luogo perfetto per uccidere qualcuno. Non capivo che cosa avessero in testa. Ma se loro mi vedevano già arrestato, non gli servivo più per il futuro, anzi, rappresentavo un rischio, nel caso in cui avessi cominciato a divulgare ciò di cui ci occupavamo, in modo da cavarmela eventualmente con una condanna più lieve. Sentivo il fastidio di dover andar là a malincuore, perché, se non avessi accettato l’invito, loro si sarebbero insospettati di più, e la loro intenzione di eliminarmi avrebbe avuto una ragione in più.                 
Desideroso in modo febbrile di sconfiggere i miei cupi pensieri, ho deciso di telefonare a una persona per dirle dove andavo – nel caso in cui mi fosse accaduto qualcosa di grave, affinché si conoscessero i responsabili. Non potevo chiamare un amico, tutti erano coinvolti. Sicché ho chiamato Ana, la mia ex ragazza. Non sapevo come avrebbe reagito, specie dopo che aveva saputo alla tv in che casino mi ero invischiato e che si era resa conto che era andata a letto con un criminale. Per mia fortuna Ana di professione aveva scelto di fare l’avvocata e si muoveva nel mondo delinquenziale come un pesce nell’acqua, dato che era specializzata in diritto penale. Ora o mai più! Delle due l’una: o mi chiude il telefono in faccia, o mi chiederà il doppio della parcella.
– Pronto, Ana?
– Non dire niente al telefono! Vengo io da te!
Non avevo fatto in tempo a dirle nulla. Ma con quel suo gesto precipitato, aveva aumentato in me la sensazione che attorno a me si stesse tessendo una cospirazione. E che io dovevo stare sempre più attento, temere addirittura della mia propria ombra. Spiare i telefoni è da noi una sorta di servizio supplementare che viene fornito in dotazione da qualsiasi operatore di telefonia. Gratis! In Romania c’è un detto: «Occhio e timpano». Questi due organi durante un certo periodo di tempo erano diventati perfino più importanti del pene. Del cervello che dire, era comunque la Cenerentola della biologia e chi possedeva una cosa del genere era come se fosse morto, dimostrando, in modo paradossale, che il cervello non era un organo vitale, ma anzi, il contrario! Ma l’occhio e il timpano erano organi onnipotenti, con essi la dittatura si autofecondava. Chi li aveva, viveva cent’anni. Prima della Rivoluzione gli occhi e i timpani appartenevano alla Securitate. Ma in seguito, ossia dopo il 1989, la Securitate è stata sciolta. Ovviamente in maniera formale. E le tecniche di controllo si sono beneficiate del traffico di organi. Gli occhi e i timpani vecchi si sono fissati su corpi nuovi, che si sono riempiti di organi dei sensi come fossero dei nei. A ogni modo, da noi c’è il maggior numero di agenti segreti per abitante che nel resto del mondo. Ancora!
Ana doveva arrivare a momenti. Ho pensato a cosa mettermi. Ma prima di tutto dovevo fare pulizia in cucina. È più facile ammazzare qualcuno che pulire in cucina! Lei diceva sempre che non le piaceva come le preparavo il caffè e preferiva farselo da sé. E se fosse entrata in cucina, avrebbe capito che non avevo una nuova ragazza da tantissimo tempo. Così come di un albero puoi contare i cerchi per calcolarne l’età in base al loro numero, da me potevi contare i centimetri di piatti sporchi e scoprivi così più o meno da quanto tempo non avevo una «domestica». E le pile di piatti sfioravano il soffitto! Sarebbe stato il colmo far lavare i piatti alle prostitute che mi portavo a letto. Quando Ana ha suonato il campanello, non ero neanche arrivato a metà. Mentre andavo ad aprire, odorante di lamponi (per via del profumo del detergente), mi è venuta un’idea per evitare quella situazione…
– Ana, che bello che sei arrivata! Non ti posso far accomodare, meglio se usciamo in città!
– C’è qualcuno in casa?
– No!
– E allora, perché non mi lasci entrare?
Mi sono avvicinato al suo delicato orecchio, ricoperto da una lanugine dorata, che mi eccitava sempre, però mi sono trattenuto dal baciarglielo e le ho detto:
– Penso che abbiano installato delle cimici in casa!
Ana non è stata lì a pensarci su, mi ha tirato subito per un braccio, senza dire una parola. Mi ha fatto intendere che dovevamo uscire dal raggio d’azione dell’apparecchio-spia. Solo una volta entrati nell’ascensore ha cominciato a parlarmi:
– L’hai proprio ammazzato?
– Sì, l’ho ammazzato!
– Ma come diavolo…?! Che ti aveva fatto?
– Te lo racconterò. È una faccenda complicata…
Avrei voluto che il mio crimine avesse qualcosa di spettacolare, per poter impressionare Ana. E che lei ritornasse da me grazie a questo delitto, che riflettesse che ero maturato e diventato più maschio. Che mi guardasse con rinata ammirazione. Se agli inizi adorava la mia aria innocente, da topo di biblioteca, volevo che passasse dall’amore angelico a quello demoniaco. Probabilmente avevo sempre avuto questa fantasia, perché Ana mi complessava. Lei incontrava sempre uomini pericolosi, tipo Canaliss, il sudore dei suoi clienti era impregnato dell’odore virile del peccato, e quando stringeva la mano a costoro, per motivi professionali, in pratica si macchiava del sangue delle vittime. La rimproveravo sempre di stringere la mano a dei criminali. E ora, toh, scendeva in ascensore in compagnia di uno di loro!
Temporeggiavo, perché non sapevo che cosa raccontarle o da dove cominciare. Non era stato un crimine premeditato. Le cose erano confuse anche nella mia testa, sebbene non fossero trascorsi neppure dieci giorni dal fattaccio. Sembrava allucinante, ma non ero convinto di averlo ucciso! Quello più sconvolto di tutti dalla notizia ero stato proprio io, quando la polizia si era presentata alla mia porta di casa. A ogni modo, mi ero autoinvocato delle circostanze attenuanti: quel vampiro se l’era cercata col lanternino!
Ma come è cominciato tutto? Quel giorno, quando nulla lasciava presagire che mi sarei incontrato con quell’italiano, gli eventi si sono succeduti a catena in modo tale che, se fosse mancato anche un solo gesto, la catena causale si sarebbe spezzata e nulla di quello che sarebbe dovuto succedere non si sarebbe più verificato. Aspettandomi al varco e approfittando di ogni coincidenza, una forza malefica mi ha guidato e aiutato a compiere il crimine. E io, in tutto questo tempo, credevo di fare la cosa giusta! E infatti lo credo ancora!
Lavoro come bibliotecario in un antico edificio vecchio di cent’anni, nel centro di Bucarest. Sono l’unico maschio, il resto sono tutte donne. Mi compiacevo della situazione, mi sentivo coccolato, ma allo stesso tempo sfruttato, poiché venivo spedito a compiere mansioni difficilissime – c’erano degli Atlanti scolpiti che decoravano le colonne portanti della facciata, ma le colleghe non si sarebbero mai sognate di spedire quei poveri maschioni ignudi a comprare per loro delle sfogliatine calde, sennò la biblioteca avrebbe rischiato di crollare in assenza di quei colossi dalle spalle possenti. Ovviamente, oltre al fatto di dover fare la coda ogni giorno in pasticceria, mi stressavano con altre commissioni. Dovevo allontanare lo zingaro che si piazzava all’entrata seduto su una seggiolina a vendere gamberi vivi. Ci rovinava l’immagine, e per di più a volte urinava addosso agli Atlanti. E non era neppure una strategia di marketing del tutto efficace, perché i gamberi sono un cibo che va bene per la plebe operaia e non per degli intellettuali raffinati che vengono a studiare in biblioteca. Ma lo zingaro riteneva che era una postazione eccellente e, una volta installatosi saldamente sul posto, mai e poi mai si sarebbe smosso da lì. Noi tentavamo di mandarlo almeno sul marciapiede di fronte, solo che dall’altra parte si trovava una sinagoga, e il custode lì lo cacciava via ogni volta che quello cercava di piantarci bottega. Non che quel custode avesse chissà quale autorità nei confronti dello zingaro, il quale minacciava sempre che sarebbe venuta la famiglia a farlo a fettine, ma la sinagoga era vigilata costantemente dai servizi segreti. Davanti al luogo di culto è appostata in permanenza un furgone dei Servizi Romeni Antispionaggio, che sta a protezione delle poche centinaia di ebrei (rimasti a Bucarest per via del fatto che erano troppo anziani per emigrare in Israele) in vista di eventuali episodi indesiderati, come per esempio, che si dimenticassero dove si trovava la sinagoga. Così come era immancabile la presenza del furgone, altrettanto costante era quella dello zingaro.
Due cose nere che rovinavano l’estetica della strada! E non c’era verso di farle allontanare! Per quanto abbia cercato di far spostare, per esempio, lo zingaro (poiché non ho esteso le mie azioni anche al resto degli aspetti indesiderati), lui ritornava con una cocciutaggine morbosa, non voleva rinunciare a quel posto, del resto così inutile sia per lui sia per il suo popolo, perché è più probabile vedere dei denti d’oro in bocca a un verme che un rom chino sui libri in biblioteca. Per corrompermi, il venditore ambulante mi offriva, ogni volta che mi trasformavo in gendarme, un chilo di gamberi, proponendomi così di chiudere un occhio, e lui avrebbe continuato a badare ai suoi affari, indisturbato. Non dimenticava di informarmi che un chilo di gamberi costava quanto dieci chili di arance, quindi dovevo accettarli senza fare tante smorfie, perché era un regalo che non si poteva rifiutare. Io mi sentivo importante non perché venissi corrotto, bensì perché non mi minacciava, come faceva invece con il custode della sinagoga. Un po’ per le proteste amichevoli, un po’ per la complicità da parte mia, lo zingaro aveva ottenuto la posizione da cerbero culturale, diventando una sorta di mascotte bibliofila esposta sul nostro cancello. Non so a chi vendesse i gamberi, di colore bluastro, che brulicavano frenetici in secchi non propriamente immacolati. Forse solo quelli dei servizi segreti lo sapevano. All’inizio le colleghe si limitavano a prenderne uno da quelli che ricevo come regalia, anche se io gliene offrivo molti di più. Non è che desiderassero farselo in tegame, lo portavano solo a casa ai figli perché ci giocassero e lo mettessero nell’acquario. Sicché il grosso restava a me, per la cena. Facendone razzia ogni giorno, sono passato a una dieta a base di crostacei, tanto più che sono facili da cucinare. Ricordo che una volta alcuni gamberi sono fuoriusciti dal sacchetto, e le ragazze che leggevano Eminescu con aria trasognata nella sala di lettura, si sono messe a strillare come delle invasate, come se il poeta nazionale le stesse violentando. Da allora mi sono procurato una gabbia per canarini nella quale tengo chiusi dentro i gamberi, e le colleghe si divertono a domandarmi se hanno già cominciato a cinguettare.
Mentre andavo con Ana verso il caffè dell’angolo, la studiavo, di nascosto. Ero curioso di vedere se aveva cambiato opinione su di me – e per quanto mi riguardava non è che ne avessi una di sicura, perché era incostante anche prima. Spiavo ogni sua reazione per constatare se gli importava veramente di me o se faceva finta. Sapevo che ora aveva un altro, un tipo più giovane. Quindi, in teoria, non le sarebbe dovuto importare della mia sorte – per lei ero solo un partito perso. Ma con Ana non si può mai sapere.
È il tipo di donna che si dimostra molto amichevole quando l’incontri per la prima volta. Pare un prodigio piombato dal cielo. Ti ascolta e freme quando le confidi i tuoi problemi. Ti esorta perfino a scaricare quello che hai dentro, a raccontarle con profusione di particolari quello che ti tormenta, ma non perché ti venga offerto un pretesto per immalinconirti e per farti avvolgere dalla tristezza in maniera irrimediabile – bensì perché ti ponga all’unisono con la sua felicità, che si rivelava una forza interiore inesauribile, cosicché tutto si scioglieva come una nuvola di fumo nella serenità dei suoi occhi azzurri. Agli inizi, vedendola così vispa e ben disposta, temevo che fosse troppo ingenua, ma a intelligenza era messa proprio molto bene: faceva politica. Orbene, non esistono politici ingenui. Così come non esistono neppure politici che saltano su di piacere per un nonnulla, come faceva lei! Ana era un amalgama inverosimile. E dire che non si fumava neanche una canna! Affermava di essere credente. Insomma, non cercavo di giudicarla. Ma quanto credente può essere un’avvocata che si frega le mani per la contentezza ogni volta che i criminali che si appellavano al suo aiuto se la cavano con una pena lieve o addirittura la facevano franca?! Forse di mezzo c’era in effetti anche una dose di fede, non lo nego. Mi aveva confidato che aveva vissuto per 10 anni con un uomo, e negli ultimi 5 era andato sparendo il desiderio di fare sesso con lui, perché non sentiva più nulla per il suo compagno, ma non osava lasciarlo, poiché si era creato un rapporto spirituale fra loro. E quello ogni tanto doveva violentarla per avere qualcosa di… non spirituale. Ana aveva compiuto 35 anni e aveva un aspetto stupendo, chiunque l’avrebbe desiderata, ma dai 30 anni in poi si era infognata in una relazione che non faceva altro che renderne cronica la frigidità.           

[…]

Mi sembrava un gesto carino da parte sua di essere venuta ad aiutarmi. Significava che non nutriva più rancore nei miei confronti. Vedendo che la stavo osservando in modo insistente, ha addirittura sorriso, in quel suo modo inconfondibile al quale mi ero abituato agli inizi, quasi come se si fosse trattato di nuovo del nostro primo incontro. Ma non ho potuto rispondere al suo sorriso. Le ho stretto un braccio attorno alle spalle, come ai vecchi tempi. Tentavo di mentirle anch’io. La gente per strada ci guardava con aria irritata; ci trovava ridicoli nella nostra intimità.
– Allora? Me lo racconti o no?, mi ha intimato dato che non aveva più pazienza che arrivassimo al caffè.
– Sì!... Non so neanche da dove cominciare, o che cos’è rilevante dal punto di vista giuridico…
– Quando è successo?
– Il 7 giugno.
– È stato quello il giorno in cui l’hai visto per la prima volta?
– No, ci eravamo già visti il giorno prima, in biblioteca.
– Ti conosceva?
– Per niente!
– Be’, e allora perché è venuto in biblioteca?
– Voleva che lo iscrivessi, che gli facessi il permesso.  
– Parla romeno?
– No! Le colleghe infatti mi hanno chiamato in sala perché traducessi per loro quello che diceva quell’idiota, perché non si capivano con lui.
– Hai avuto qualche screzio con lui quando l’hai incontrato per la prima volta?
– No, affatto, se n’è andato dopo cinque minuti, non c’è stato neanche il tempo per litigare con lui!
– Cristi, per favore: ricorda ogni particolare! Non puoi scherzare con la libertà!
Quando il tuo stesso avvocato non ha fiducia nelle probabilità di una sentenza favorevole – e questo ancor prima di sentire la tua storia – la causa sembra persa fin dal principio. Nonostante la sua proverbiale verve, Ana aveva momenti in cui si fissava su un’idea assurda e la ripeteva in modo ossessivo, come in un gioco di potere. Trattandosi di un rapporto di tipo professionale, che stabilivamo per la prima volta, pensavo che fosse solo una maniera per chiedermi denaro, in modo velato. È difficile capire la sua psicologia. Forse la sicurezza che ostentavo le creava una sorta di rivalità, dato che Ana era un maschio represso, anche se ciò non ti sarebbe mai passato per la testa.
Tentavo di mettere insieme le tessere del puzzle. Mi sembrava che la cosa più semplice da fare era raccontarglielo in ordine cronologico. Le avrei parlato dello zingaro, del furgone nero della polizia, della giornata torrida… Lei mi avrebbe esortato ad andare al sodo. Come un maresciallo lanciato verso la battaglia decisiva. Ma se fossi passato direttamente ai particolari macabri, credo che mi avrebbe ascoltato con la stessa attenzione se le avessi detto che fuori stava piovendo. In qualche modo volevo che in me restasse l’immagine innocente della donna che avevo amato, con il suo sorriso. Avevo bisogno di quell’immagine, soprattutto in quel momento. Ana era l’opposto del crimine – sebbene ne fosse quotidianamente a contatto. Almeno in me esisteva questa netta demarcazione. 
Siamo arrivati al caffè. Ci siamo seduti a un tavolino. Lei si è sciolta i capelli e solo allora ho notato che se li era tinti. Li teneva raccolti per via della toga, il che voleva dire che veniva direttamente dal tribunale. Era bionda naturale, ma ora era rossa. Le donava. Pensavo al sangue dell’italiano e poi guardavo i suoi capelli. Pareva che se li fosse imbrattati con quel sangue.
– Qui non ci sente nessuno. Parla!
– Quale dei crimini vuoi sapere?
Ha sgranato gli occhi. […]   




A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 4, aprile 2015, anno V)