«Abonatul nu poate fi contactat». Il convincente esordio editoriale di Cristina Andrei

Il romanzo di debutto di Cristina Andrei (1964), Abonatul nu poate fi contactat (Nemira, Bucarest 2014), si dimostra sicuramente un bel biglietto da visita per essere la prima esperienza in prosa dell'autrice. In un ambiente popolato da sedicenti scrittori improvvisati o malati di quella sindrome particolare e diffusissima per la quale ci si crede dei geni letterari incompresi, la mano allenata di Cristina Andrei (con studi in lettere – italiano e romeno – e cresciuta professionalmente nel giornalismo televisivo) risalta e colpisce per il suo eclettismo stilistico (si destreggia nei vari registri linguistici dei personaggi da versata alchimista di gerghi e idioletti, impenetrabili al profano), per la cura nei dettagli, per la capacità di delineare con pochi ma efficaci tratti tanti tipi psicologici quanti sono i tanti, numerosi personaggi (se ne possono contare più di una ventina: Irina, Cornel, Laura, Ioana, Silvia, Doru, Laurențiu, Marga, Oana, Olga, Sandu, Gina, Max, Manuela, Gogul…) attraverso cui li fa vivere. Già, perché la miriade di voci che ti accolgono in questo libro è travolgente, fluisce inarrestabile, tanto che inoltrandosi nella lettura a un certo punto si perde un poco il filo, faticando inevitabilmente a mettere insieme gli sparsi tasselli di questo mosaico (e chissà, forse è questo il lato debole del romanzo). Tuttavia, a rincuorarci e a tenerci legati al filo narrativo, ci soccorre la particolare tecnica narrativa, sorretta da una scrittura tesa e accattivante, che l’autrice sa intessere con misura, e con la quale introduce e fa parlare di volta in volta i vari personaggi cui viene assegnata un’ora (si comincia alle 18 con Irina e si finisce con la notte di Pasqua, e il tutto si svolge nell’arco di due giorni, tra il Venerdì Santo e la veglia pasquale), come guidati su un grande palcoscenico, quello della vita, e ritmati da precise entrate in scena, su cui recitano un loro specifico ruolo.

I grandi temi di questo macroscopico spettacolo sociale sono il vuoto di comunicazione (e il titolo del romanzo racchiude allusivamente nello stereotipato messaggio preregistrato delle compagnie di telefonia il suo senso intrinseco: pur in questa nostra realtà «iperconnessa» – internet, sms, facebook, twitter, whatsapp ecc. – l’uomo rimane comunque solo perché si è proporzionalmente isolato dentro), la perdita dei valori e lo sgretolamento dei rapporti tra le persone – familiari, affettivi, privati – cui ne fa da sfondo un altro, magari meno evidente, ma è quello entro cui viene incorniciato il romanzo non solo cronologicamente ma anche simbolicamente, ossia quello religioso. La cornice sacra suggella e s’interseca così con il contenuto e il significato profondo che l’autrice ha inteso dare alle vicende del suo libro. La morte di uno dei personaggi e il tema della resurrezione di Cristo che conclude il romanzo è poi aureolato da qualcosa di vagamente caravaggesco (e, detto per inciso, la trama del libro regala allusioni all’arte italiana) perché come nei dipinti del «pittore maledetto» il profano si mescola al sacro, la tragica mondanità al mistero del salvifico divino. Non a caso il titolo pensato inizialmente da Cristina Andrei doveva essere «Dio non abita più qui». Come a dire: è inutile chiamare, Dio si è stancato di rispondere invano.
Il capitolo finale, Epilog, una paginetta e mezza, è una sorta di sciarada: al lettore viene offerto il compito di mettere insieme gli sparsi elementi che, pazientemente recuperati e ricomposti, ritessono davanti ai suoi occhi allusioni, scenari e vicende incontrati lungo il libro. Una sfida e un gioco per la memoria che condensa il piacere di aver letto un romanzo coinvolgente, forte e sincero. 



Frammento da «Abonatul nu poate fi contactat»

VENERDÌ SANTO

IRINA, 18.00

- … ma perché, oh, mi piombi dentro così, non vedi quello che mi hai combinato? Fate sempre tutti così, toh, guarda qua che lerciume hai lasciato sul pavimento! Nessuno che mi chieda, stai bene, Florica stai male, Florica? Manco sapete qual è il mio vero nome, vi siete messi in testa di chiamarmi con questo, Florica, e Florica è rimasto. Non sei stanca, Florica?! Ora mi tocca lavare anche il pavimento, e pure il grembiule, al diavolo ’sto schifo di vita, ne ho fin sopra i capelli di tutto e di tutti.
Il piatto era volato via dalle mani della donna finendo in frantumi sul pavimento. L’uomo guardava incuriosito ora la donna che di punto in bianco se l’era presa con lui, ora le pesanti impronte di fango che stampavano con precisione il contorno delle suole e che si disfacevano in sottili rivoli d’acqua torbida, come sorgive che, cercando in fretta un loro letto, si disperdevano. Alcune s’infiltravano fra le crepe dell’assito sbiadito dal tanto strofinare, altre schivavano le striscioline di verza e le bucce di pomodori finite per terra, mischiate alla brodaglia della salsa di pelati. Qua e là qualche cannuccia, qualche foglia marcia di lattuga, sassolini, moscerini che svolazzavano su quella mota vischiosa che cambiava geografia in ogni momento.
Non aveva neppure lei tutti i torti.
- Toh! Una macchia. Dovrò comprarmi uno di quegli smacchiatori che fanno vedere in tv. E chi diavolo la toglie più! Dài, ragazza, prepara un altro piatto di verza, che quella, addio, è finita nella spazzatura. Perché il signore entra qua come fosse il padrone e io caccio i soldi, perché mica posso chiedergli di pagare quello che non ha consumato.
- Ma di’ un po’, com’è che ti chiami? Hai detto che tutti ti conoscono come Florica, ma te mica ti chiami così, no?! domandò l’uomo mentre si accomodava pesantemente sulla sedia sporca, lisa dal gran numero di tute che ci si erano sedute sopra in tutti quegli anni da quando nei pressi del cantiere era stata aperta quella bettola. Gli operai avevano preso l’abitudine di chiamarla «Il casotto». Perché era fatta tutta con pezzi di legno, assi di scarto di prefabbricati, di telai abbandonati dopo le demolizioni, e non ce n’era una uguale all’altra. Le finestre, una più grande o più piccola dell’altra, si affacciavano sghembe su un cielo coperto di polvere, mentre all’entrata c’era una porta da appartamento, con spioncino e serratura a cilindro, portata da un ubriacone che non aveva trovato altro di meglio per pagarsi i bicchierini di grappa. L’aveva rubata in un altro cantiere, sorvegliato saltuariamente da un guardiano, in una notte di novilunio.
- Lascia perdere, mica voi dovete sapere tutto. Ma dimmi invece, che ti do? gli disse brusca, col mento affossato nel petto, ispezionandosi la macchia rossastra sul grembiule, che tentava inutilmente di strofinare via con il dorso della mano.
«Irina mi chiamo, Irina!» le veniva da gridare, ma a chi sarebbe fregato? La macchia si era allargata, era passata attraverso la stoffa sottile e aveva la sensazione che le stesse colando sul petto. Questa cosa la faceva andare ancor di più in bestia.
- Su, di’, che ci sono altri clienti che aspettano…
La stamberga si era riempita di giacche a vento, di risate grasse, del puzzo pungente di barbe non rasate, del rumore di passi pesanti in stivali di gomma, che disseminavano tutti quei mucchietti di fango e ne formavano degli altri, a tal punto che il legno che ricopriva il pavimento della stanza non si vedeva più.
- Voglio una vodka, di quella marca là, Polare, e una minestra con carne affumicata. E del pane.
Le voci si diffondevano sovrapponendosi, si alzavano e scendevano ritmicamente, ondate di suoni fluttuavano nel fumo di sigaretta ammassatosi in una nuvola compatta sotto il tetto basso. I piatti piroettavano dal banco ai tavoli e viceversa come animati da una sorta di loro autonoma esistenza. Gli odori delle patate, della cipolla, dei fagioli in tegame e delle salsiccette grigliate sul fuoco vivo convergevano nell’atmosfera satura, cozzando contro le travi, e tornavano indietro storditi, confusi, insinuandosi nella stoffa dei vestiti, nei pori della pelle, fra i capelli e si fissavano lì docili, appagati, in silenzio.
Florica non teneva ferme le mani un minuto. Quando non portavano vassoi e bottiglie, pulivano i tavoli con uno straccio bisunto, passavano, ora l’una, ora l’altra, sopra quella grossa e brutta macchia sul grembiule per strofinarla via, anche se sentivano che si era asciugata, o correvano veloci tra le rade ciocche di capelli, che si ostinavano a non stare ferme dietro gli orecchi, o che facevano da barriera a qualche goccia di sudore che scendeva dalle tempie.             
Si muoveva in fretta. Aveva imparato a sentire solo le ordinazioni. Il resto delle parole le sbattevano addosso come contro una parete scrostata e si dissolvevano nel frastuono circostante, come se non fossero mai stati pronunciate. Era scampata ai toccamenti incedenti dei maschi eccitati alla svelta dall’alcol da due soldi. Era sfiorita nelle forme, il volto aveva assunto un colorito plumbeo, aveva gli occhi spenti, i capelli si erano opacizzati, aveva un’andatura meccanica, dalle movenze prive della grazia inutile e snervante della giovinezza.
Erano anni che non si chiedeva più come era finita lì. Come era diventata «Florica». Neppure la ragazza della cucina faceva più tanto la civetta come una scema con i clienti. Ascoltava concentrata quello che le veniva detto e riempiva in fretta e con misura i piatti con quello che le veniva richiesto. Si limitava ora sciacquare i piatti sporchi, a insaponarli con una spugnetta intrisa con un po’ di svelto e a passarli sotto il getto dell’acqua, per poi riempirli di nuovo.
La pioggia batteva sottile sui vetri della bettola, fuori era calato il buio, e gli uomini, barcollando leggermente, aveva cominciato ad andarsene, poco alla volta, diretti verso le loro faccende, verso le loro case sparse in periferia, verso gli appartamenti in anonimi condomini, dove li attendevano le loro mogli spossate. Era venerdì sera e cominciava il weekend, come si diceva in tv. Era il Venerdì Santo. Il Venerdì di digiuno stretto. Ma non era questo di cui avevano premura.
Andavano a casa attratti dal miraggio del telecomando, che gli facilitava l’incontro con una partita di calcio «avvincente», gli offriva «divertimento al massimo» e, a volte, incontri di lotta con donne mezzo nude che si rotolavano nel cioccolato. Seduti di fronte al televisore sulla poltrona migliore, ne ascoltavano complici i commenti scimuniti e quando gli prendeva la fregola, andava bene anche la moglie, quella che lavava le stoviglie in cucina, e gridava ai figli, quasi appiccicati col naso al teleschermo, di andare a dormire.
Piuttosto che finire come questi, meglio da sola, come me, diceva Florica fra sé e sé, sparecchiando dopo che tutti erano usciti. Ho visto come è andata a mia sorella, poveraccia!
- Io, signora, potrei anche andare visto che tutti se ne sono andati e che chiude prima. Sa, le avevo detto che mamma è malata e devo dar da mangiare ai piccoli, così arrivo prima di mio zio e non li sentirà frignare, sennò quello ci monta un casino, e poi scommetto che mamma è a letto, per cui Dio me ne scampi... Ho preso un po’ di patate e di peperoni che sono avanzati, posso?
- Vai pure che sparecchio io.
Altra disgraziata, pure questa. L’aveva beccata l’anno prima dietro la baracca mentre frugava nella spazzatura, vestita con… ma che vestita, semmai più svestita che altro, poverina, riempiva un sacchetto con avanzi di cibo, di croste di pane. In una busta di carta raccoglieva invece i mozziconi di sigaretta. Li teneva separati perché non si inzuppassero. Al principio la cacciò via, ma poi le fece pietà, la richiamò e le disse che se lavava i piatti, la sera le dava da mangiare quello che era avanzato, che poteva portarselo a casa. Aveva due gemellini, e il padre, quando si era ritrovato con altre due bocche da sfamare più una moglie invalida, dopo che aveva partorito, se l’era svignata.  
Avevano traslocato tutti in due stanze a casa di sua zia Sofica, sorella di sua madre, che aveva anche lei due bambini piccoli e un marito che, sebbene non bevesse, era cattivo. «Severo», diceva lui. Dava «grande importanza alla disciplina», esigeva che tutti gli ubbidissero né che nessuno prendesse iniziative. Tutto doveva brillare nella miseria in cui vivevano. Sia la casa sia i bambini. «A pennello e a stecchetto». Tutto doveva stare al suo posto e non doveva depositarsi neanche un granello di polvere. Sofica puliva da mattina a sera, e da quando era arrivata anche sua sorella con i suoi tre figli, tutto era più difficile. Dava anche la ragazza una mano, ma da quando aveva trovato lavoro alla bettola, non stava più tanto tempo in casa. Puiu, suo zio, non le diceva niente in faccia, ma non era stupida da non accorgersi che la spiava. Contava le fette di pane, perché… era lui a portarlo; lo tagliava in 16 e distribuiva i pezzi con meticolosità. Sapeva alla perfezione quanti ne erano rimasti e di quanti ce n’era bisogno per il giorno dopo. Contava anche le patate e le cipolle, pesava i fagioli e la verza. Sapeva quanta polenta si faceva con un chilo di farina gialla e quanto riso serviva per riempire una casseruola bella grande, sicché a prendersi cura di quella famiglia sbandata era toccato a Florica, perché la chiamava proprio così anche Florica. La gente si era abituata a chiamarle «Florica grande» e «Florica piccola». E sorgevano anche dei malintesi, ma nessuno si arrabbiava mai, ridevano i clienti, e quindi sorridevano anche loro. Quel nome le era stato affibbiato da un cliente un po’ burlone cui piaceva cantarle sempre «Florica, Florica, fioretto mio» dandole un leggero pizzicotto sul mento. Le aveva fatto la corte e poi si era spostato in un altro cantiere. Dietro di sé aveva lasciato il nostalgico sorriso di lei e il nomignolo con cui l’aveva resa celebre.
Ora seguiva con lo sguardo la ragazza mentre si avviava infagottata in un ampio cappottone scuro, a passo incerto, con indosso degli stivali enormi, trasportando una sporta verde piena di barattoli riempiti con il cibo da portare a casa. Finché la perse di vista nel buio.
Si mise a raccogliere piatti sporchi, cucchiai, forchette, coltelli smussati, cestini per il pane sfondati, briciole, sale, stuzzicadenti, salviette appallottolate e imbrattate di unto, a lavare le stoviglie, i tegami, le pentole, i vassoi, i lavelli, la cucina a gas, il forno, l’assito fino a sentire più le mani, i fianchi, le ginocchia. Guardò fuori. Era notte; il cantiere, buio e gigantesco, minaccioso, pareva possedere una sua vita, intricata, sconosciuta a tutti, quasi appartenesse al leggendario demiurgo Mastro Manole. Non sapeva che cosa stessero costruendo. Ci avevano cominciato a lavorare decine di volte. Il cantiere era poi stato abbandonato e di nuovo si fecero avanti altri investitori, con un altro progetto, lo stesso piano. Altri operai, che ruotavano di continuo. Al di là dei pannelli di protezione si svolgeva un rito carico di mistero. Era giunto anche a lei all’orecchio un tempo che lì si stava costruendo un condominio, ma poi, dopo la Rivoluzione cioè, ci avevano ripensato, e a lei, ora, non interessava più che cosa stesse accadendo. Era vicino al complesso residenziale universitario di Regie. Ma gli studenti non ci mettevano piede da lei. Poco lontano per loro era già stato aperto qualche bar all’aperto. Alcuni erano stati adattati anche per quella stagione e quelli andavano lì. C’era stata qualche bega all’inizio fra i proprietari sulla divisione dei clienti. Ma col tempo tutto si era risolto. Tanto che aveva sentito dire che in quei locali si facevano anche altri tipi di attività commerciali e ciò la metteva in pensiero, perché venivano sempre a fare controlli e la polizia si aggirava in continuazione per tutta la zona.
Ringraziava Dio – anche se non aveva molta fiducia che l’ascoltasse mai – che la sua misera bettola aveva sempre clienti. All’inizio tutti storcevano il naso, ma poi avevano imparato a conoscerla e ci andavano ogni giorno, anche solo per un cicchetto di grappa, e magari anche per buttare giù un boccone. I prezzi erano modici e nessuno si era ancora beccato la dissenteria. I pochi ispettori della Protezione Consumatori che si era avventurati fin da quelle parti le avevano fatto chiudere il locale un paio di volte. Ma lei di coccia sua aveva riaperto e quelli non erano più tornati a controllare se aveva raccolto tutti gli avvisi e se si era decisa a rispettare le loro raccomandazioni sanitarie. Poi ne venivano degli altri e si ricominciava da capo.  
Agli operai non importava e continuavano a frequentare il suo locale, che il cibo, anche se non era chissà che cosa, mangiato insieme agli amici aveva un altro sapore. E avevano come la sensazione di mangiare al ristorante, che qualcuno li serviva, e gli piaceva il fatto che, se sporcavano per terra, non arrivava furiosa la moglie a sbraitare che non ce la faceva più, tanto che gli veniva voglia di appiopparle uno sganascione. No, Florica veniva, brontolava un po’, spazzava, puliva, passava il mocio e non gli guastava il buonumore.
Eh, su, basta, andiamo a casa, pensò. È Venerdì Santo anche per te. Si guardò intorno, vide che tutto era al suo posto, sistemato a puntino come solo lei sapeva fare. Si tolse il grembiule sporco, dette un’altra occhiata alla macchia marrone, lo piegò e lo infilò in un sacchetto spiegazzato, si mise il cappotto rosso comprato in un negozio di vestiti usati in Ștefan cel Mare, un giorno, quando era andata in città appositamente per questo, si infilò in testa il berretto nero di lana calcandolo fin sopra gli orecchi, tirò fuori gli stivali da sotto il banco e fece mentalmente l’inventario: il portafoglio con dentro l’incasso della giornata, le chiavi di casa, la carta d’identità, il sacchetto. Bene, c’era tutto. Si piazzò accanto alla porta ad aspettare. Ritarda sempre, ma verrà. Gesù, quanti anni saranno passati? Quelli dopo la Rivoluzione, da un lato, e poi i due anni prima, all’università. Quanto parevano lontani… sembrava la vita di qualcun altro. Più un altro in quell’istituto, poi altri due a casa… In totale fanno già ventisei annetti tondi tondi. Chi direbbe che non ho neanche quarantacinque anni? Gesù… Vide un gruppetto di giovanotti che attraversavano la strada poco lontano. Probabilmente stavano andando al «Propaganda». Quel posto era più vicino.    

CORNEL, 18.45

La pioggia batteva sui vetri quella sera come quella in cui aveva trovato sua sorella con lo sguardo perduto nel vuoto, sulla sponda del letto, con un coltello in mano. I capelli bagnati le si erano appiccicati al viso e le gocce d’acqua colavano dall’orlo della gonna finendo sul pavimento, dove avevano formato delle piccole pozze… Si trastullava sguazzandoci le punte dei piedi, allargandole. Le guardò i polsi. Aveva un graffio appena su quello sinistro. Non pensava di averla interrotta. Sapeva che Olga non avrebbe avuto il coraggio di farlo. Non stava neppure vivendo un autentico dramma. La noia le impediva di andare oltre. Ma la sofferenza aveva qualcosa di voluttuoso e aveva voglia che il mondo sapesse che lei stava male. Il giorno dopo si sarebbe fasciata la mano e tutti alla facoltà avrebbero saputo, senza fare tante domande, che lei aveva voluto suicidarsi per amore.
- Sei pronta? La voce secca dell’uomo la riportò alla realtà, nella bettola immersa nel buio.
- Sì. Prendi qua i soldi, non c’è bisogno che tu mi accompagni.
- E perché, ti devi forse incontrare con qualcuno? insinuò Cornel a voce bassa, tentando di afferrarle il mento. Il tuo caro cognatino non lo deve sapere? Devo pur dire qualcosa a tua sorella quando arriverò a casa. Se sarà sveglia… eh?
- Senti, prendi i soldi e basta, che neppure te devi sapere tutto. Siete fissati, voi, volete sapere tutto, come se c’avete una soluzione pronta.
- Senti, Florica, ascoltami bene, anch’io come gli altri ti devo dire una paroletta… Irina, a me non mi parlare più così, sennò ti rispedisco bell’e infiocchettata la tua cara sorellina. Pensi che mi fa piacere vederla ogni giorno ridotta in quello stato? Ma sono uno di parola. Un po’ di rispetto, e che cazzo! Vedi, tutti quanti hanno ribaltato casa per le pulizie di Pasqua, si stanno preparando a colorare le uova di Pasqua, a mettere in forno il cosciotto d’agnello e il cozonac! Da me invece… c’è il deserto, un letamaio.
Non aveva neppure lui tutti i torti. 

IRINA, 19.30

Accese il televisore e si appassionò subito al messaggio del presidente sull’unità nazionale rivolto alla comunità ungherese del distretto di Covasna. Un secondo dopo, si indignò vedendo non so quale politico che si faceva ridere dietro in Africa mentre scimmiottava un ballo tradizionale. Si mise stancamente a fare zapping col telecomando del televisore, l’unico lusso che si era potuta permettere, e frammenti di frasi si mischiavano insieme, dando vita a nuovi significati e, per sua sorpresa, ugualmente coerenti a quelle messe in fila perché avessero un qualche senso. Spezzoni di film e di talk show, programmi sportivi, musica popolare, trasmissioni di medicina naturale, stilisti che davano consigli su come vestirsi, bambini che cantavano imitando gli adulti, ricette di cucina, contadini infervorati o rassegnati, che non avevano nessuno a cui sfogare il proprio malcontento, qualche erudito seduto da solo a un tavolo che presentava dei libri, lezioni di spagnolo, inchieste sul mondo immobiliare. Gesù, che razza di mondo! Si lasciò sprofondare leggermente sul divano, continuando ad ascoltare un notiziario e si immaginò di nuovo giovane.

CORNEL, 20.00

- Tua sorella non ha voluto che la accompagno a casa. Forse avrà qualcun altro.
- E a te che ti frega chi ha lei? gli rinfacciò Olga, in tono annoiato.
- Ringrazia Dio che non si trova un altro che gli tiene da conto i soldi e che te ne sgancia ancora, perché allora vedrai quanto me ne potrà fregare a me.
Provava odio. E montava.
- Ma guardati in che stato sei, per Dio. Se non ero uno di parola, a quest’ora ti stavano già mangiando i vermi. Vigilia di Pasqua.
Si guardava intorno schifato. Si mise a raccogliere i piatti sparpagliati in giro, con avanzi di cibo, le tazze sporche, con fondi di caffè rinsecchiti, i posaceneri ricolmi di cicche di sigarette fumate sino al filtro.
- Posso farmi assumere da tua sorella, come donna di servizio, dopo che finisco il turno al commissariato, buttò lì sarcastico a sua moglie, che lo ignorava.
Ne pose le stoviglie nel lavello, gettò il resto nella pattumiera. Mise a scaldare dell’acqua sul fornellino elettrico macchiato di caffè, di olio, di salsa di pomodoro, per lavare i piatti. Prese paletta e scopa e cominciò a pulire il tappeto sdrucito, il pavimento a mosaico scuro e sudicio. Faceva di fretta. Aveva invitato quella tipa strana, Silvia, impiegata alle Ferrovie, a uscire con lui per andare alla presentazione di un libro, alla quale gli aveva chiesto di andare sua sorella, la gran signora Demetriade. Eppure glielo aveva fatto vedere sui giornali e quella invece lo guardava ancora incredula. Ossia, com’era possibile che uno sfigato di poliziotto come lui fosse parente della moglie di un senatore? Erano anni che non si parlava con sua sorella. Da quando cioè per farle un dispetto si sposò con quella donna di cui non era neanche innamorato. Così aveva voluto agire per far imbestialire la famiglia sino allo sfinimento, mettendosi insieme con la più grande miserabile esistente al mondo, come diceva Laura. E un paio di settimane prima, di colpo, si era fatta viva telefonandogli al commissariato, lei, dama dell’alta società.
- Alza i piedi almeno.
Olga obbedì indifferente. Spense la sigaretta, si strinse intirizzita la vestaglia alla vita e si rannicchiò in silenzio in un angolo del divano. Qualche volta pensava a Irina. Non la compativa, non le importava della vita che faceva. In realtà, non sapeva neppure che tipo di vita facesse. Non le interessava per niente. Pensava che la vita avesse inferto a lei, solo a lei un duro colpo, tanto tempo fa, e che la sofferenza provocata dal destino le desse, egoisticamente, il diritto di comportarsi come voleva, senza remore. Sapeva che lavorava, non sapeva però che tipo di lavoro. Sapeva solo che pagava Cornel perché stesse con lei, ma neppure di questo le importava un granché. Guardava suo marito mentre dava di gomito in casa nervosamente, come si toglieva i vestiti e come li appendeva con cura al portabiti, riponendolo nell’armadio. Come tirava fuori il vestito marrone, orrendo, quello con cui si era sposato con lei, come lo spazzolava attentamente e come lo posava sullo schienale della sedia. Spostò impassibile lo sguardo verso la finestra di là della quale si scorgeva solo il buio rotto qua e là da qualche fioca luce proveniente dai miseri appartamenti del condominio di fronte. Al sentire lo scroscio anemico della doccia, si ricordò del suono della pioggia.





A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 3, marzo 2015, anno V)