«I gigli della prima liceo»: Gabriel Liiceanu e l’amore a prima vista

Cinque storie d’autore per cinque variazioni su un tema: l’amore a prima vista, il colpo di fulmine, la stoccata al cuore, tutto questo nel volume Povești de dragoste la prima vedere (Humanitas, 2008, 137 pp.) Cinque storie – I gigli della prima liceo, Trementina, Missione impossibile, L’eletto, Una scommessa a Parigi –, cinque autori d’eccezione – rispettivamente Gabriel Liiceanu, Adriana Bittel, Ana Blandiana, Nicolae Manolescu e Ioana Pârvulescu –, un unico tema: l’amore a prima vista. È questa l’idea attorno alla quale gira, trattata variegatamente per situazione e occasione, questa graziosa mini-antologia sui colpi di fulmini in amore. Fittizie o reali che siano, in primo piano o marginali all’interno del racconto, gli autori impegnati costruiscono vicende-tipo nelle quali il lettore può riflettersi o riconoscersi, perché queste archetipali cornici dei sentimenti o dell’infatuazione possono inquadrare vagamente o puntualmente episodi che possono essere stati vissuti in prima persona, restituendogli emozioni, immagini, scenari che potrebbero aver fatto parte un tempo del proprio vissuto sentimentale.
Adriana Bittel (Trementina) preferisce collocare ai margini del suo racconto la storia dell’infatuazione, risalente ai tempi del liceo, per il bel Paul, ponendo invece in risalto il fortuito incontro con un gruppetto di artisti pittori (l’atelier dei quali è intriso dall’odore pungente della trementina) la cui fine coincide più o meno con il repentino troncamento della sua relazione con il sempre più insipido fidanzato.
Ana Blandiana (Missione impossibile) da par suo ci cala nella pura poesia, inventando una storia tra il fantastico e il reale ma struggente con al centro l’incontro-rivelazione tra un’anima smarrita e il suo raggio di luce celestiale in un mondo grigio e disperante.         
Nicolae Manolescu (L’eletto) fa affiorare una sirena dai flutti che porta lo scompiglio in un gruppo di amici, che banchettano in riva al mare e che tutto si immaginano tranne che vedere sotto i loro occhi – specie quelli della rispettiva moglie… – il loro amico, l’ingegnere Apostoiu, stregato dalla favolosa creatura marina.
Infine, Ioana Pârvulescu esplora l’infatuazione di uno scrittore già in là con gli anni per F., una sua lettrice tedesca: storia breve e intensa nella romantica Parigi che ci fa capire che il fuoco della passione non muore mai.
Dei cinque racconti, scegliamo qui quello che apre la raccolta, quello più innocente e deliziosamente ingenuo. Gli amori liceali sono un classico, tutti li abbiamo sperimentati: in questo terreno iniziatico, fra i muri delle aule, alcuni trovano perfino l’amore della vita, altri invece ci transitano travolti dal furore puberale, passando da una cotterella all’altra. È quello che accade ai due protagonisti: un Liiceanu invaghito di una compagna di classe dai capelli d’oro, il quale la convince che sublime suggello per il loro amore incompreso e impossibile debba essere un talamo di gigli il cui mortifero afrore li condurrà avvinti in un abbraccio liberatore verso la paradisiaca ed eterna passione. Beata gioventù…!



«I gigli della prima liceo» di Gabriel Liiceanu


Mi innamorai a 14 anni. Tutto accadde all'improvviso. Sospetto che, fin dalla nascita, ci innamoriamo sempre di un prototipo. Il mio prototipo aveva i capelli biondi, gli occhi verdi e il resto non contava più. In realtà – e l’avrei scoperto molto presto –, era proprio il resto che contava, era proprio ciò che andava oltre quel prototipo che diveniva «quella cosa» unica e irripetibile che, da sola, rende possibile l’innamoramento. Il mio prototipo sedeva al terzo banco della fila di sinistra, quella vicino alla finestra. Io sedevo al quarto banco nella fila di mezzo. Era una ragazza non molto alta, dalla carnagione incredibilmente bianca. Così l’avevo anch’io, solo che ero bruno di capelli. Dal mio posto, avevo sempre davanti i suoi capelli biondi, che le ricadevano intorno alla testa come un drappeggio secondo la foggia in voga presso le attrici di Hollywood degli anni ’30. In casa, nel cassetto grande della credenza del salotto, avevo un pacchetto di cartoline color seppia con ritratti di attori. Tutte erano riuscite a passare indenni dalla giovinezza dei miei genitori alla sponda postbellica della storia. Fra di esse c’era quella di Greta Garbo, con quel suo sguardo evanescente e la testa fasciata da una strana retina che terminava con alcuni pendenti di cristallo. C’era anche Rodolfo Valentino, vestito da sceicco, con un turbante in testa e un pugnale infilato in un’ampia fascia legata attorno alla vita. E per finire c’era Lya De Putti, il cui nome da allora non ho più letto da nessun’altra parte. Aveva una frangetta che le scendeva fino a metà fronte, mentre i capelli, lisci, cadevano diritti, senza formare ciocche, fin sotto gli orecchi. Era esattamente così la mia bionda Cleopatra. Ogni tanto, durante le lezioni, il drappeggio dei suoi capelli cominciava a prendere vita, lei girava di colpo la testa verso destra, appariva il profilo del suo naso, obliquo e altero, seguito da uno sguardo verde che mi fissava per qualche secondo, con aria seria, sollevando in me un’ondata di calore e facendomi battere forte il cuore.
Non passò molto tempo fino a quando mi resi conto che la sua doratura nordica rappresentava solo lo sfondo, lo scenario su cui risaltavano i dettagli che più mi affascinavano: la pelle eburnea, cosparsa di minuscole lentiggini, le labbra sottili che si contraevano e si decontraevano periodicamente in lievi spasmi nervosi, le mani dalle dita gracili ed esitanti, il fiocco in testa che scendeva ogni tanto davanti alla bocca e che veniva ricollocato al suo posto con una rapida sistemata ai capelli. A ogni lezione mi mandava dei bigliettini e, adesso, dopo che da allora sono passati un bel po’ di anni, continuo ad avere indelebile il ricordo dell’emozione che mi assaliva quando vedevo il pezzetto di carta che di mano in mano, furtivamente, arrivava fino a me e di quando, aprendolo, gli occhi incontravano la sua calligrafia piena e chiara. Faceva seguito poi un salto negli abissi più profondi della disperazione oppure un ratto e un’ascensione vertiginosa verso il cielo della beatitudine suprema. Mi castigava o ricompensava a seconda di come le sembrava che mi comportassi durante la ricreazione, ovviamente senza che mi offrisse mai la possibilità di adeguarmi alle regole non scritte del comportamento ideale. Era estremamente esigente. Recitava il ruolo della dama di una corte medievale con arte sopraffina. Era la padrona piena di capricci che poteva decidere a suo piacimento della vita e del cuore del suo servitore. A ogni modo, fu allora che appresi che cosa significasse perdere la propria libertà e quanto fosse difficile in seguito rientrarne in possesso. Che cosa significasse dipendere da un gesto del capo, da uno sguardo torvo, dalla modulazione del tono di voce.
La cosa più sconvolgente era il modo tautologico con il quale, tramite quei bigliettini, mi dava appuntamento durante la pausa, anche se, non appena la lezione terminava, ci ritrovavamo automaticamente faccia a faccia. Ma quel segnale, quelle poche righe scritte, consacravano e davano solennità a una cosa che altrimenti sarebbe stata forse fagocitata da allusione e banalità. Percorrere con lei i corridoi del liceo, fuori dalla classe in cui si agitavano i nostri compagni, si trasformava in una fuga dal mondo, in qualcosa di intimo e di misterioso che creava fra noi quella complicità su cui si elevava ogni volta il mondo dell’innamoramento. Di solito, durante la ricreazione, andavamo a comprare degli «Eugenia», due biscotti di forma allungata, farciti alla crema di cacao e avvolti in carta pergamena sotto la quale s’indovinava, lungo tutto il contorno della crema, una striscia untuosa. Faceva aprire a me il pacchetto e poi lei mordicchiava un’estremità del biscotto come un topolino, sotto il mio sguardo estasiato, leggermente da ebete, credo, così come si confà a ogni ragazzo innamorato. Ero felicissimo quando la facevo ridere. Allora si fermava di colpo, batteva il piede sul pavimento mosaicato del corridoio, buttava indietro la testa liberando una risata cristallina, mentre il suo petto sussultava ritmicamente sotto i suoi effetti convulsivi.
Dopo un po’ di tempo l’armamentario della nostra relazione incominciò a essere insufficiente. Poiché il liceo «Gheorghe Lazăr», situato nel centro di Bucarest, accoglieva studenti provenienti da un ampio raggio, avevamo la sfortuna, al termine delle lezioni, di prendere direzioni diverse. Lei, attraversando il parco di Cișmigiu, prendeva verso via Știrbei Vodă, mentre io andavo dall’altra parte, verso Cotroceni. D’altro canto, le nostre giornate erano perfettamente cronometrate, le famiglie «borghesi» nelle quali crescevamo erano particolarmente rigide, noi eravamo ancora troppo piccoli per i «tè danzanti», sicché le occasioni per vederci all’infuori della scuola erano praticamente inesistenti. Fu per questo che la nostra relazione finì poco alla volta per nutrirsi di fantasmi. Fantasmi che dovevano far sì che avanzassimo verso una intimità la cui natura, almeno per me, non era affatto chiara. Allo stesso tempo mi ero costruito l’immagine del gentleman perfetto, che non avrebbe potuto far male alla propria amata neppure con un fiore.
Un fiore! Nella mente di chi fra noi due era apparsa per prima la soluzione salvatrice dei gigli? Nella mia, questo è poco ma sicuro. Siccome le cose erano giunte a un punto oltre il quale non vedevamo più nulla – io avevo perso l’appetito, sera dopo sera mi addormentavo sotto lo sguardo dei suoi occhi verdi, la mattina non facevo altro che contare i minuti che mi separavano dall’ora di pranzo, dall’ora dell’uscita da scuola, quando l’avrei rivista –, era evidente che l’unica soluzione che s’imponeva per mettere fine a quella situazione era… la morte. Senza saperlo, facevo il mio ingresso nella vita pensando esattamente come i membri di quella tribù tenuta in gran conto nel mondo arabo – Banu Udhra –, i cui adepti morivano puntualmente per amore. «Colui che non muore per il proprio amore non lo può neppure vivere», diceva, circa agli inizi del XIII secolo, il più insigne poeta mistico arabo, Ibn al-Farid. E io ero pronto, degno seguace della tribù udhrita, a sottomettermi a questo comandamento mistico che, nel XII secolo, era stato trasmesso da Bagdad alle assolate terre dell’Andalusia, accolto in seguito nei componimenti dei trovatori delle corti principesche provenzali, per poi espandersi verso il nord celtico, andando incontro a Tristano e, in fine, qualche secolo più tardi, a me, a Bucarest, a Cotroceni, dove le stagioni tendevano da un anno a quella parte, intessuta dalla loro vita e morte, la fune su cui aveva cominciato a librarsi, palpitante, insaziabile e tragica, la mia adolescenza.    
Perire insieme! Era chiaro che era questa la soluzione! Sì, era questa la soluzione per poter continuare indisturbati a stare l’uno accanto all’altro e assaporare in pace un’intimità che il mondo nella sua attuale variante, come era evidente, ci sottraeva. La morte sarebbe stata colei che ci avrebbe fatto avvicinare e offerto ciò che la vita non era stata in grado di fare. Il problema era che doveva essere trovata quella forma di morte che sarebbe sorta dal compimento di un’estasi preliminare. Di sicuro dovevamo morire, ma non in un modo qualsiasi, bensì avvinti l’uno fra le braccia dell’altro. Dovevamo avanzare nella morte ebbri del nostro stesso splendore, del nostro amore sublime, della sua purezza, di tutto ciò che al suo intorno poteva accogliere di santo, maestoso e nobile.
I gigli! Questa era la soluzione! Da bambino, quando mamma aveva cura di togliere dalla stanza in cui dormivo i gigli colti di giorno in giardino, ero convinto che questi fiori, che emanano la più stordente fra le fragranze, sprigionavano, di notte soprattutto, un profumo tossico. «Domani mattina ti sveglieresti con un terribile mal di testa», mi diceva mamma ogni volta che portava via dalla camera il vaso di gigli. E se durante la notte avessi dormito con tanti, tantissimi gigli? Avrei potuto forse morire nel sonno? Senza dubbio! Quando, di giorno, sprofondavo la testa nei calici bianchi dei gigli, solcati da strisce tra il porpora e il granata, e poi mi guardavo allo specchio per vedere le tracce lasciate sul mio naso dal polline giallo, ero preda di uno strano sentimento. Tra la bellezza e la morte non esisteva quindi alcun ostacolo insuperabile. Al contrario. Ero affascinato dal profumo dei gigli. Com’era possibile che questo profumo potesse uccidere? È vero che non avevo mai sentito dire che qualcuno si fosse tolto la vita inalando il profumo dei gigli, anche se, dicevo fra me e me, non si poteva immaginare una morte più bella di quella. Com’era possibile che fino a quel momento nessuno avesse fatto ricorso, nel corso dell’intera storia dell’umanità, a questa morte divina?
Ma ecco che ora era giunto il momento di valermi della competenza che avevo acquisito durante l’infanzia in materia di gigli. Avrei proposto quindi al mio amore dai capelli dorati di morire insieme, chiusi ermeticamente in una camera piena zeppa di questi fiori malvagi. Quando mi venne in mente questo pensiero, mi sentii sollevato. Una bella mattina mi svegliai con esso ficcato in testa. Era sorto probabilmente da un’immensa nebulosa notturna nella quale si erano mischiate allo stesso tempo lascivia, scintille di intensa purezza, disperazione, irruente passione, sconfitta, sogni di magnificenza, oscuri appetiti, venerazione e tutto quello che poteva sfilare senza freni nella mente di un ragazzo di 14 anni. Attesi fremente che arrivasse l’ora per andare a scuola. Una volta giunto, le annunciai di sfuggita che durante la pausa le dovevo dire qualcosa di molto importante.
Quando la lezione terminò, avevo la gola secca per l’emozione. La condussi in tutta fretta per i corridoi del liceo – prendendola ogni tanto per mano e sentendo ogni volta come, attraverso i canali delle sue dita, il suo essere fluisse in tutto il mio corpo – verso il punto più lontano dalla nostra aula, da qualche parte su al primo piano, dietro l’anfiteatro. Ci fermammo davanti a una finestra bassa, a due palmi di altezza dall’ultimo scalino, e le domandai con voce tremante: «Vuoi morire con me?» Le avevo posto davanti, sul vassoio di questa domanda, vasto come le acque in piena del fiume più maestoso al mondo, tutto il potenziale affettivo, mai prima attinto, del mio essere. C’era, in quella domanda, la più grandiosa richiesta di matrimonio mai formulata prima, la mia maniera di cadere nella polvere inginocchiato davanti a lei. Poi le esposi, con il cuore in gola, il mio piano. La mattina presto del giorno che avremmo deciso insieme, avrei comprato dei gigli in piazza S. Eleuterio, e se non ne avrei trovati a sufficienza, sarei andato in bicicletta fino a piazza Amzei. A casa mia, addossata alla soffitta, quindi all’ultimo piano, si trovava una stanzetta, che nessun usava, un ripostiglio, che si poteva raggiungere attraversando il cortile e salirci utilizzando la scala di servizio. Era il luogo ideale per il nostro progetto. Nei giorni a seguire, poco alla volta, per non destare sospetti, ci avrei fatto un po’ di pulizia. Quando la stanza sarebbe stata pronta e avremmo stabilito il giorno, i gigli sarebbero stati sparsi per terra, con gli steli posati al centro della stanza e le corolle orientate verso le pareti. Pian piano, strato su strato, si sarebbe formato, al centro, un letto di gambi verdi sui quali, sdraiandoci, saremmo sprofondati in mezzo ai candidi calici dei gigli. E lì avremmo atteso la nostra morte. «Come riuscirai a trasportare tanti gigli?» «Dovrò fare più viaggi». «Non darai nell’occhio comprando tanti mazzi di gigli?» «Dirò che servono per un funerale». «Quando ci chiuderemo dentro per morire?» «La sera. Dobbiamo stare almeno una parte della notte affinché il biossido di carbonio cominci a essere eliminato». «E che scusa inventeremo per allontanarci da casa?» «Diremo che usciamo a passeggiare un po’. Poi, una volta che avremo raggiunto la stanza piena di gigli, non importa. A ogni modo, non sapranno dove cercarci e quando ci troveranno, sarà di sicuro già troppo tardi. Ci stai?» «Sì, ci sto».
Tornammo in aula. L’universo ora aveva un altro colore. Lo guardavo, dalla prospettiva della mia morte approntata rapidamente e alla perfezione, con totale intendimento, e quelli che mi stavano intorno con indulgenza e disprezzo. Non potevano neppure immaginare che i loro giorni accanto a me erano contati! Che mi sarei allontanato da loro adagiato su un letto di gigli, con la testa appoggiata sul grembo della ragazza più bella al mondo.
Il mese volgeva ormai al termine e, con esso, si poteva ormai fare il contro alla rovescia delle settimane che ci separavano dalla chiusura dell’anno scolastico. A Cotroceni, presto i tigli sarebbero fioriti e mancava ancora poco allo sbocciare dei gigli. In base ai miei calcoli, l’operazione con i gigli sarebbe potuta iniziare durante l’ultima settimana di scuola. Sarebbe stato il finale di un anno glorioso. Le aule del liceo avrebbero risuonato negli ultimi giorni dell’ultimo trimestre e poi tutti sarebbero partiti per le vacanze – i professori, i genitori e gli studenti – portandosi dietro, riferendola con un nodo alla gola, la vicenda più sorprendente di tutta la storia del liceo «Gheorghe Lazăr». Le nostre fotografie sarebbero apparse probabilmente sui giornali e i nostri compagni di classe avrebbero raccontato che tipo di ragazzi eravamo e se qualcosa nel nostro comportamento lasciava intuire quello che sarebbe accaduto. A ogni modo, a me non interessava nulla di tutto ciò. Ero totalmente assorbito dal portare a termine il piano.
Durante il poco tempo che restava a disposizione, incominciai a mettere da parte il denaro per comprare i gigli. Feci il calcolo che avrei avuto bisogno di almeno un centinaio di gigli. E ciò non per assicurare il suo effetto tossico (supponevo, pensando al vaso di gigli che mamma portava via con precauzione dalla mia stanza da letto, che dai 20-30 gigli in su non avrei avuto sorprese), bensì per fare in modo che la stanza ne fosse coperta in modo uniforme e compatto. Era chiaro che nella mia mente l’elemento estetico aveva un’importanza preponderante; entrambi dovevamo essere sepolti letteralmente sotto i gigli. Tirai fuori quindi tutti i miei risparmi che avevo messo da parte e, in più, avevo preso a offrirmi, con una disponibilità alquanto sospetta, ad andare a fare la spesa al mercato ogni giorno. Oltre a mettere insieme la somma necessaria, avevo, d’altro canto, una grossa preoccupazione circa il giorno in cui avrei dovuto comprare i gigli. Difficilmente li avrei trovati tutti nello stesso mercato. Avrei dovuto fare più viaggi nel corso del mattino e tenerli tutti nell’acqua fino a sera, affinché il loro potere tossico rimasse intatto durante la notte. Dovevo fare tutto molto rapidamente. Durante lo stesso giorno, dovevo comprare e sistemare i gigli, dovevo andare a scuola come se nulla fosse accaduto, e verso sera, ci saremmo incontrati, avremmo raggiunto senza peripezie la stanza vicino alla soffitta dove saremmo poi morti. Sarebbe stata, senza dubbio, una giornata estremamente agitata.
Le ultime ore dell’anno scolastico cadevano un venerdì di giugno. Il giorno era stato fissato per martedì. Incominciai a gongolare di gioia. Solo una cosa mi dava il panico: e se non avessi trovato i gigli? La scuola chiudeva, saremmo andati tutti in vacanza e allora il nostro piano sarebbe dovuto essere rinviato all’anno dopo. La domenica mattina mi offrii di andare a fare spese al mercato e potei convincermi che di gigli ce n’erano in abbondanza. Lunedì mattina andai di nuovo al mercato. C’era solo qualche contadino e neanche l’ombra di un giglio! Corsi a piazza Amzei. Ne trovai solo in due posti, ma non erano sufficienti per riempire la stanzetta di fianco alla soffitta. Avevo fissato sul portapacchi della bicicletta un grande cestino di vimini e avevo calcolato che mi sarebbero serviti per lo meno una decina di cestini pieni zeppi per poter coprire il pavimento. A ogni modo, per precauzione, avevo portato su anche due grosse coperte nel caso in cui il letto di gigli da me pensato si sarebbe rivelato o irrealizzabile o non sufficientemente comodo per una morte decente.
Non voglio dilungarmi troppo. Comprare e trasportare i gigli furono un incubo. Ma mercoledì, poco prima dell’inizio delle lezioni, tutto era pronto. Decine di vasi e recipienti pieni d’acqua erano sparsi per tutta la stanza, e in ciascuno erano infilati, a mucchi, i lungi gambi dei gigli. Avremmo disposto i gigli insieme. Il profumo che aveva saturato la camera era talmente penetrante che mi dicevo che la morte sarebbe sopraggiunta con ogni probabilità prima che scendesse la notte. Arrivai a scuola livido d’emozione e con il cuore che batteva all’impazzata. Le lezioni terminavano quel giorno, alle sei di sera. Ci demmo appuntamento per le otto, all’ingresso del parco di Cișmigiu venendo da via Știrbei Vodă, a due passi da casa mia.
La guardai senza sosta durante le lezioni. Sembrava normale. Così come lo era anche durante le pause quando, dopo che avemmo stabilito l’ora dell’incontro, cambiò subito discorso. Feci solo in tempo a domandarle come si sarebbe vestita. «Lo vedrai…»
Alle otto meno dieci arrivai all’ingresso del parco. Mi sedetti su una delle rocce che contornano i laghetti formati da piccole fontane artesiane sparse qua e là. Proveniente dal Conservatorio, attraverso le finestre aperte, si udiva il suono di un violoncello. Osservavo la foglia di una ninfea e seguivo, attorno a essa, il saltellare delle libellule che si sollevano bruscamente in aria non appena sfioravano lo specchio d’acqua con le loro zampette. Avevo perso la nozione del tempo. Mi sforzavo di ricostruire, una e un’altra volta ancora, la scena che avevo portato con me per settimane di fila: noi due, fra i gigli disposti per terra con cura, girati uno verso l’altro. Ma mi risultava sempre più difficile tenerla ferma. Non appena si profilava, spariva nella sua stessa astrazione, sciogliendosi nel suo stesso archetipo. Avvicinandosi ormai al suo compimento, il sogno che avevo sognato per tanto tempo si disgregava nell’imminenza della sua conclusione.
Restai così, sospeso in aria, per un po’. Poi, d’un tratto, capii che non sarebbe più arrivata. Quando controllai l’ora, erano già passate le nove. M’incamminai verso casa attraversando il parco e uscii in via S. Costantino, passai il ponte di Hasdeu e arrivai a Cotroceni prendendo via Costache Negri. Il profumo dei tigli aveva avvolto l’intero quartiere. Andai a letto lasciando la finestra aperta. Il giorno dopo non venne a scuola, né venerdì, quando veniva pubblicata le media dei voti dell’ultimo trimestre e di tutto l’anno. Una compagna portò il suo certificato medico. Ci rivedemmo in autunno, il primo giorno di scuola. Aveva gli stessi occhi verdi e anche il drappeggio di capelli biondi, che si agitava a ogni movimento della testa, era sempre lo stesso. Ma questa volta ci separava, fissa in modo spettrale fra noi, quella cosa che era stata progettata nei più piccoli dettagli e che ci doveva unire per sempre: dei superbi gigli regali.


©Humanitas, 2008

A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 9, settembre 2014, anno IV)