Anteprima: «Immigranti» di Ioana Baetica Morpurgo

Ioana Baetica Morpurgo, nata nel 1980, dopo la laurea alla Facoltà di Lettere di Bucarest, ha seguito i corsi del Master di Antropologia Culturale della SNSPA (Scuola Nazionale per gli Studi della Politica e dell’Amministrazione). Nel 2004 si è iscritta al dottorato presso la Exeter University (Gran Bretagna) – università dove ha dato anche un seminario sulle «Società contemporanee» – il cui oggetto di ricerca è la cultura della transizione nella Romania postcomunista. Ha al suo attivo numerosi articoli su temi letterari e socio-culturali pubblicati nelle maggiori riviste letterarie romene ed estere. Ha debuttato come prosatrice nel 2004 con il romanzo Scheda d’iscrizione (Fişa de înscriere, Polirom), che è stato selezionato per il premio all’opera prima della rivista «Romania Literara». È presente inoltre con suoi racconti e saggi nei volumi collettivi Il libro dei nonni (2007), The Review of Contemporary Fiction (2010), Erotographos 50+1 (2010). Attualmente risiede nel sud dell’Inghilterra, dove, oltre a coordinare un progetto sull’edonismo delle idee intitolato «Lectures on Everything», si dedica alla scrittura e a impartire lezioni di pianoforte.    

In questo nuovo romanzo di Ioana Baetica Morpurgo, la giovane scrittrice dà una prova maiuscola delle potenzialità della prosa romena contemporanea in quanto a originalità e a stile, facendone uno degli esempi più felici che siano usciti dalla penna di una delle attuali leve di scrittori della Romania e un fulgido risultato della prosa europea moderna.
Il romanzo è costruito attorno alle storie di cinque personaggi, ognuno per ciascun capitolo, tutti e cinque diversissimi per estrazione, ambiente, vocazione, professione, stile di vita, frequentazioni, che si sfiorano appena lungo la narrazione, inseriti dall’autrice nei capitoli degli altri in rapidi flash, ma tutti e cinque accomunati da una stessa doppia condizione: essere romeni emigrati in Inghilterra per varie ragioni (per studiare, per lavorare, per motivi coniugali, per indigenza) e abitare a Londra.   
Il romanzo si apre con il capitolo Răzvan. È uno studente gay (innamorato di Ravi, un semplice ragazzo hindi di umili origini  – altro immigrante – che vive in segreto la propria omosessualità per timore di essere scoperto dalla famiglia, ma già vittima predestinata di un matrimonio combinato, secondo tradizione), dottorando, giornalista di sinistra, paladino dei diritti umani, anti-americano (indaga sulle black sites, le prigioni della CIA per i detenuti di guerra aperte segretamente in alcuni paesi d’Europa, tra cui la Romania); l’ambiente che frequenta è quello del mondo degli intellettuali londinesi, in cui eccentrici letterati snob più o meno anti-Sistema (si veda la figura dominante del poeta radicale Martin Boswell-Harper, che deciderà di suicidarsi lasciando una lettera-testamento agli amici più vicini, fra cui Răzvan) si mescolano a vari artisti, come Julian (l’ex di Ravi), più frivolo e su posizioni politiche più conservatrici. È su questo colorito sfondo umano e letterario e di passione politica che s’intesse l’impossibile storia d’amore tra Răzvan e Ravi, ma in cui fanno capolino anche le altre storie sentimentali rievocate e vissute in Romania ma arenatesi inevitabilmente (come quella con Mircea, ora sposato e futuro papà).  
Maria è sposata con Dorian Holt, un facoltoso mercante d’arte, che viaggia per lavoro in tutto il mondo; anche Maria è legata al mondo dell’arte, è una pittrice, ma di scarse qualità ed essendone cosciente vive questa sua, per così dire, menomazione con fastidio e con malcelata rassegnazione. Integrata nel più tipico entourage dell’agiata middle class londinese, che mal sopporta, Maria scarica la sua solitudine scrivendo in un diario le sue impressioni e osservazioni  quotidiane che rivelano, in ultima essenza, il proprio vuoto esistenziale e affettivo. Durante un fine settimana rivede a Londra il suo ex, Alex, che le rinfaccia di aver preferito sposarsi per i soldi di Dorian invece di continuare a stare con lui. Una verità che le scoppia in faccia ma che lei si ostina a nascondere a se stessa. In questo sua compiaciuta esistenza, nella quale ha scelto la sicurezza materiale rispetto a quella affettiva, il suo orizzonte non spazia oltre o, al massimo, termina appena oltre il giardino dei vicini di casa, detestati per i continui e debordanti lavori di sistemazione della casa, che minano la loro privacy, e alle quali lei reagisce, assieme al marito, con geniali e gustosissime azioni di boicottaggio, in una vera propria guerra dei nervi. Altrettanto gustoso è l’excursus nella sua infanzia e adolescenza, dai primi giorni di scuola fino al primo rapporto sessuale, in cui Maria regredisce in questa sua catarsi anche nella forma, con errori ortografici e con un linguaggio pasticciato tipico di una ragazzina. E, una volta ritornata alla realtà, alla sua vita insignificante e di poco spessore, deve trovare il modo di dire (con timore?) a Dorian che è incinta…      
Traian lavora come broker nella City, un lavoro che gli assicura una vita benestante ma che non lo compensa nel suo intimo poiché ciò che doveva essere l’occasione professionale della sua vita, si trasforma in un incubo della solitudine. È circondato da colleghi insipidi e arroganti che non trovano di meglio che affibbiargli un nomignolo tanto fastidioso quanto scontato, visto il suo paese d’origine: il Vampiro. Ma anche lui ha un epiteto degno per i suoi colleghi: li definisce CV. Traian è reduce da una vicenda personale che l’ha sconvolto psicologicamente – e che spiega il suo sentimento di abbandono: solo un mese dopo il suo matrimonio con Simona, lei gli chiede divorzio. Non è più disposta a seguirlo a Londra: le hanno offerto un lavoro cui non può rinunciare, scoprendo d’un tratto che quel matrimonio era stata una pazzia. Lui sospetta che non sia questa la causa della rottura, ma che ci sia un altro uomo. Sbandato e con un matrimonio-lampo fallito, solo e sperduto nella metropoli londinese, Traian cerca di fuggire da se stesso in lunghi viaggi o per ritrovare se stesso, come la volta in cui, all’improvviso, cambia il biglietto per la Polinesia Francese con uno per Bucarest per rivedere i suoi amici. Una notte, poi, decide di fissare un appuntamento con una escort in un bordello di lusso: enorme sarà la sua sorpresa nel trovarsi di fronte la sua amichetta del cuore dei tempi dell’infanzia.
Sabina fa la badante a casa di un anziano, il signor Ferguson, malato di cancro in fase terminale; il figlio, Oliver, è appena uscito dal carcere dopo aver scontato quattro anni per tentato stupro ai danni di una minorenne e conosce Sabina per la prima volta quando torna a casa: il padre non gliene aveva parlato nelle lettere che gli spediva al carcere. Sabina è una donna semplice, provinciale, molto religiosa, ex infermiera in un ambulatorio della profonda Moldavia rurale. Ha lasciato in Romania un figlio, Andrei, affidato alle cure dei nonni. Nei mesi in cui sta a casa dei Ferguson, Sabina s’integra nel menage familiare, tanto che, dopo che il signor Ferguson soccombe alla malattia, lei decide comunque di rimanere in Inghilterra e come se non bastasse lei e Oliver s’innamorano e si sposano. Nel testamento il padre lascia tutto in eredità a Sabina e non al figlio, una decisione che lascia attonita Sabina dato che il signor Ferguson era simpatizzante di un partito nazionalista, noto per le sue posizioni xenofobe. Sabina viene fatta emergere in questo capitolo in tutta la sua ingenuità di donna provinciale, con i suoi lati da beghina, ma profondamente umani, che si esprime in un linguaggio dallo schietto registro dialettale di notevole coloratura espressiva – cui sembrano seguirla adeguandosi, il signor Ferguson e il figlio, in un processo inverso per cui la lingua dei «dominatori» si stempera in quella dei «dominati» e non viceversa come avviene normalmente;
Gruia è uno zingaro dalla Transilvania, della città di Brașov. Seguendo l’esempio del fratello partito per la Spagna (aveva venduto un rene per procurarsi un passaporto falso), finito poi in carcere per furto di automobili, tenta anche lui di arrivare nell’opulenta Europa (ci arriva salendo clandestinamente nell’Orient Express che fa tappa a Brașov nel 2006), con il violino lasciatogli dal nonno, con cui si guadagnerà da vivere suonando prima per strada e poi in un ristorante tipico balcanico, «Balkan Star»), e con una moneta d’oro, ricevuta dalla nonna, che nasconderà sotto terra in un parco di Londra, e che sarà dissepolta per pagarsi una notte d’amore con una prostituta, di cui si era innamorato, e che ucciderà strangolandola durante l’agognato amplesso. Sullo sfondo di questa vicenda dal sapore quasi di tragica fiaba, emerge invece la triste e avventurosa storia di Gruia – raccontata parzialmente in forma di intervista –, colta dalla sua infelice infanzia, cresciuto senza affetto in una famiglia rom marcata  dalla miseria e confinata ai margini della società, al suo clandestino approdo a Londra, vivendo alla giornata per sopravvivere e arrangiarsi in una società altrettanto ostile quanto quella lasciata in Romania.     
Nel breve Post-scriptum finale l’alterego della scrittrice (che si definisce come The Great Puzzler e si firma con un altisonante pseudonimo, Uther Pandragon) passa in rassegna i cinque personaggi, illustrando che ne è stato di loro in seguito, interagendo con loro come se fossero delle persone reali, commentando le loro richieste, giudicando il loro comportamento, venendo a patti con loro su cosa togliere o lasciare nel romanzo che li vede coinvolti, e decidendo della loro sorte.
     
      
Il romanzo si fa apprezzare per il suo linguaggio espresso in uno stile che cattura immediatamente il lettore grazie al suo carattere diretto e brioso, e che varia a seconda dei personaggi e delle situazioni (dal tipo standard, a quello più colloquiale e informale), con alcuni momenti surrealistici e onirici; l’autrice gioca, come accennato sopra, anche su sottilissimi richiami interni dei cinque personaggi: in questo senso è una narrazione che stimola e sorprende il lettore lungo la sua lettura. In un paio di occasioni, nel capitolo su Gruia, l’autrice ricorre all’artificio dell’intervista tra il protagonista e l’alter ego della narratrice. Altra peculiarità sono le note sparse qua e là, a piè di pagina – fittizie o esplicative – e, specie nel primo capitolo, alcuni testi in inglese, senza traduzione. I personaggi sono delineati con precisione e acume psicologico, un aspetto questo che eccelle in special modo nei capitoli su Sabina e Gruia. È un romanzo che si legge con trasporto e viva curiosità, senza mai stancare. Sono quasi 400 pagine scritte con originalità e bravura.
I cinque brevi estratti che qui proponiamo, ciascuno per ogni protagonista, tratti dal romanzo, danno subito al lettore la cifra dei rispettivi profili psicologici e di vita, che potrà percepire con immediatezza e immedesimarvisi grazie a una scrittura che glieli restituisce con spiccata efficacia, una scrittura che l’autrice sa dispiegare con acume adattandola alla realtà e alle circostanze in cui si muove ogni singolo personaggio. Sono cinque quadri di un’umanità variegata e singolare che rispecchia, oltre al loro essere emigrati in un paese straniero, l’Inghilterra, anche ciò che questa condizione fa ripercuotere sul loro orizzonte esistenziale. Dall’incomunicabilità e dalla difficoltà di interagire e di relazionarsi delle persone nella società moderna – nella quale l’immigrato figura qui come metafora delle nostre esistenze a compartimenti stagni –, al  sistema di controllo dell’informazione da parte delle grandi potenze e allo scarto socioculturale che diventa abissale da un paese all’altro, da un continente all’altro del globo, questo romanzo ne traccia e ne sonda con intelligenza e varietà espositiva la realtà trasfigurandola attraverso cinque personaggi-simboli che «casualmente», potremmo dire, sono romeni ma che potrebbero essere perfettamente di altra nazionalità perché sempre portatori di un messaggio nel quale riconoscersi e su cui riflettere.


răzvan

Not  weapons. Conscience.
That will suffice.
(Martin Boswell-Harper)

(1)
seaford, maggio 2009: is it true that salmon swim
back up their stream?

Ti ricordi del tizio in Non bussare alla mia porta? che arriva in quel buco del mondo dove tutto il suo passato – i figli, la madre, la donna amata – continua la propria fantomatica esistenza sganciata dalla sua? Una spina staccata dalla presa. Questo sono. A Londra ho la sensazione di sentirmi in qualche modo più a casa mia. Il buzz del centro mi anestetizza le emozioni. Invece, il mare, le colline qui attorno nel Dorset me le intensificano, tanto da sentire direttamente nel cuore la necessità di amare, come un’impellenza. Come quando hai disperatamente bisogno di sesso e ti passano continuamente davanti agli occhi tutti i tipi più strafichi e i muscoli sotto l’addome ti si contraggono fino a farti venire un’erezione così feroce da far male. Più o meno è così che mi sento adesso, con il cuore in… erezione. Sento come il torace mi si sta rattrappendo e come presto comincerà a farmi male.
Sting passa da un pezzo all’altro nel cd player con una voce pop gracidante, fastidiosa, adolescenziale, che canta I love you come se volesse rimproverarti qualcosa, o spingerti davanti a un plotone d’esecuzione. Al tavolo di fronte è seduto un signore anziano che si è già versato dieci bustine di zucchero nel tè e ora sta contemplando gli autobus multicolori che sfilano davanti al finestrone. Alla mia destra c’è una carrozzina con dentro un bambino addormentato. La carrozzina è stracolma di compere, un numero impressionante di buste di plastica Morrison, piene di non so cosa, agganciate all’impugnatura. Uno dei ragazzi del bar, quasi simpatico, sta spazzando il linoleum giallo, con aria assolutamente svogliata. Quanto al resto… giochi elettronici le cui lucine ti fanno ricordare la morte. Proprio… – come si potrebbe dire? – un mondo postnuclerare in cui non esiste nient’altro se non un deserto di rovine e alcuni marchingegni come questi che emettono le loro lucine colorate nel buio più pesto. E la voce di prima – I love you, love you, love youuuu…  
Devo ingannare il tempo per altre due ore. Fino all’una, quando Ravi ha la pausa per il pranzo. Una grassona con indosso una camicetta rosa attillata e delle zeppe vertiginose, spinge la carrozzina fra i tavoli per uscire dal bar o dalla tavola calda, o quel diavolo che è. Svanisce fra gli autobus e le automobili parcheggiate nell’autostazione. Una di queste – una Mercedes rossa – è parcheggiata proprio davanti al finestrone di là del quale sono seduto io. Una tipa giovane dai tratti asiatici e un tipo con i capelli tagliati corti alla SS discutono accesamente seduti all’interno. Stanno litigando. Ovviamente non ho modo di sentirli. La tipa gesticola in modo troppo esagitato, probabilmente tenta di farsi capire nel suo inglese stentato. Il tipo – di quelli ben conservati, muscoloso, sui cinquant’anni – sta perdendo la pazienza e controbatte sbraitando alle sue spiegazioni, con un’espressione della faccia i cui muscoli sembrano in preda a un attacco convulsivo. È il genere di individui che ha dato la stura ai movimenti femministi. A parte il viso, l’intero suo corpo sembra essersi fissato in una posizione statica, d’impassibilità, di totale rilassamento, con un braccio appoggiato sul volante. Ma ecco che il suo cellulare si mette a squillare proprio nel bel mezzo della discussione. Lei gira la testa dall’altra parte, cioè verso dove sono io, di là del finestrone del Café Royale. Non mi vede. Non vede niente. Gli occhi le si riempiono di lacrime. Le lacrime si riempiono di rimmel. Dopo alcuni minuti, il nazista mette giù il cellulare e lei si soffia il naso. Non litigano più. Non parlano più. Entrambi guardano da qualche parte nel vuoto, ognuno nel proprio vuoto, lei abbattuta, lui incazzato. Rimango sorpreso nel ritrovarli nella stessa identica posizione quando torno dal bagno. Alla fine il nazista gira la chiave nell’accensione ed entrambi si dileguano nel traffico insieme con il loro dramma. È ora che me la svigni da questo caffè (ambiente stile Edward Hopper), mi sta mettendo tristezza.
È sabato, attorno a mezzogiorno, e a Seaford è il giorno del mercatino. Ciabatte di plastica, una bancarella di delicatesse francesi, antiquariato quasi autentico, vetrine con paccottiglia zen, celtica e new age, vestiti vintage, dolci locali, Friends of the Earth, un’orchestrina militare, verdure con o senza fertilizzati chimici, tazzine spaiate, ottonerie, fazzoletti, arnesi per il giardino, pseudo arte e tanta gente. «Di quante cose al mondo posso fare a meno!», mi sembra dicesse papà Socrate. Tuttavia, su uno dei tavoli sistemati fuori in strada davanti a un negozio di libri usati («Wild and Homeless Books» – bel nome per un posto che vende libri usati, no?) prendo per Ravi un’edizione speciale di Terra desolata. È meno dieci. Devo avviarmi verso il Taj Mahal.

«Non ho voglia di niente. Non ho poi tanta fame.»
Ravi invece si abbuffa sopra un piatto stracolmo di curry, un po’ nervoso, un po’ insicuro di sé, un po’ perplesso – una combinazione di umori che mi ha sempre attratto in lui perché ogni suo movimento viene avvolto in qualcosa che ispira delicatezza. Grazia.
«Che ci fai qua a Seaford?» mi domanda senza alzare gli occhi dal curry.
«Sono venuto a trovarti, ovvio. Cosa credi che ci sia venuto a fare qui…?»
Pausa di tensione.
«E anche per darti questo».
Gli porgo T.S. Eliot sopra il pane naan rigonfio come una vescica. Anzi no, come un’enorme placenta. Che proprio in quel momento lui sta prendendo a morsi.
Ravi apre il libro e lo sfoglia per un po’ mentre mastica la placenta.
«Ah…» 
«Dicevi che, se vuoi capire un mondo straniero, il modo migliore per cominciare a farlo è quello di leggerne la poesia», gli dico nel tentativo di fargli ricordare una conversazione che avevamo avuto in un bar di Londra un anno prima.              
Ravi aveva dato il ben servito a Julian quel mattino. Lo invitai a casa mia quella sera stessa, ma lui preferì che ci rifugiassimo al Corinthian, a Soho, a parlare di poesia. Me ne pentii amaramente. Ma mi ricordo quello che diceva. Diceva che la poesia è una specie di sistema di trasporto sotterraneo, come la metropolitana, che ti porta da un angolo all’altro senza che tu debba distogliere l’attenzione dai piccoli dettagli della superficie. E che ogni poeta è come una linea di metropolitana che ti conduce in una determinata direzione dentro una cultura, intersecandosi inevitabilmente con altre linee in fermate essenziali… la morte, l’amore, la natura… bla bla bla.
Ravi ha appoggiato la forchetta sul bordo del piatto e mi ascolta.
I suoi occhi incredibilmente profondi si sono fissati sulle mie mani, che stanno stropicciando una salvietta.
«E che l’intera rete di linee, cioè di poetiche, copre per quanto possibile tutto il territorio di una cultura».
«Sì, mi ricordo di quella conversazione, risponde. Ma, a parte questo, perché sei venuto?»  
«Per implorarti di non sposarti».

La spiaggia sembra una cartolina illustrata. Passeggio in lungo e in largo in una cartolina illustrata che dista, a piedi, massimo una mezz’ora dal mercatino affollato di questa mattina. Da migliaia di anni le imponenti coste a strapiombo vengono erose dal flusso e il riflusso del mare. Da sotto la loro pelle verde affiora una polpa molle, vecchia, fatta di una melma violacea e ispessita. Un enorme pene di cemento si protende infelice sull’acqua. Il promontorio, voglio dire. In un chiosco di lamiera una vecchia signora anemica e azzimata vende tè e gelati.
Ravi l’ho conosciuto all’inizio dell’estate dell’anno scorso. Durante il mio primo anno di dottorato, per la precisione. A una festa. Ci era venuto con un inglese stile dandy, un tale Julian, studente di Belle Arti, sempre all’UCL, come me. Ricordo che allora con questo Julian abbiamo conversato sull’argomento della sua ricerca – il numero aureo dagli antichi greci ai postmoderni. Una cazzata di argomento. Gli inglesi stanziano fondi per ogni tipo di ricerche imbecilli. Ravi è rimasto immobile, reggendo in mano un bicchiere di vino rosso e senza pronunciare una sola parola per tutto il tempo in cui il suo fidanzato si è lanciato in complicate spiegazioni. Era come l’ombra muta e oscura dell’altro. Ogni tanto, quasi in modo meccanico, il corpo vivo, cioè il lì presente Julian, toccava leggermente la spalla alla sua ombra con una mano, come a consolarlo di qualcosa che non aveva detto. O come per assicurarsi che fosse ancora lì. Che non aveva smarrito la propria ombra, come Peter Pan. Avevo già perso la logica della teoria del numero aureo e di quali equazioni si devono applicare per scoprirla nelle istallazioni di Damian Hurst e facevo di tutto per adocchiare Ravi senza essere notato. Indossava un’ampia camicia di lino con il colletto alla coreana e dei jeans neri piuttosto stretti. Sul suo volto riluceva quel tipo di sorriso che si condensa intorno agli occhi, lasciando decontratti i muscoli facciali e le labbra. Alto, quasi tanto quanto me, ma sembrava molto più fragile. Mi sarebbe piaciuto vederlo muoversi, fare qualche passo nella stanza satura del fumo di sigarette, di voci, di cocktail e di dottorandi.
«Anche Ravi è un prodotto umano dello stesso numero aureo», disse Peter Pan e gli scostò sulla fronte una ciocca di capelli neri, con un sorriso «a doppio senso», credeva lui – «da fesso», avrei detto io.
Che fu l’unica cosa detta da Mr. Golden Number che mi parve innegabile nel corso dell’ultima mezz’ora in cui m’intrattenne a conversare.
Ravi abbassò lo sguardo sui motivi persiani del tappeto – sembrava un tappeto piuttosto costoso – schiacciando con un piede senza pietà un acino d’uva. Non notò nessuno quella cosa all’infuori di me. Julian stava mezzo girato di spalle. Il padrone di casa gli stava presentando una fag hag che non so cosa diamine stesse organizzando alla Tate Modern.
Ricordo di aver trascorso tutta la serata cercando di raccogliere il maggior numero di dati su Ravi. Venni a sapere che aveva venticinque anni – eravamo coetanei quindi – e che era arrivato in UK alcuni anni prima assieme ai genitori, a quattro sorelle e a uno zio. Peter Pan l’aveva agganciato in uno dei cinema gay di Soho. Stavano insieme da alcuni mesi. Ma non per molto ancora. 
(…)

°°°
maria

Everywhere an excess of dreams,
of forebodings,of art forms…
(Ben Okri)

(3)
L’infrangitore di sogni

20 agosto 2009

Oh, Gesù, che vicini simpatici abbiamo qui in Exhibition Road. È già tanto se ti salutano, quando capita, sventolandoti un hello con la mano girati di spalle, come l’estremità di una sciarpa di cachemire. In cambio li senti ininterrottamente martellare, piallare, sbatacchiare, rumoreggiare, battere chiodi, sfasciare pareti costruendone di nuove, rifare l’intonaco dentro e fuori, cambiare le tegole del tetto, smontare finestre, mettendone delle altre al loro posto, spostare la serra da una parte all’altra del giardino, passare il tosaerba, spruzzare insetticidi. Ti verrebbe da pensare che la loro unica forma di vita sia un continuo lavoro di ristrutturazione. Si sono trasferiti qui da un anno e da allora, quasi ogni fine settimana, decorano il loro nido. Di loro non sappiamo granché. Tranne che lui è un direttore PR a Waitrose, e che fa soldi a palate, e che lei ancheggia in non so quale casa di produzione cinematografica come make-up artist, probabilmente facendo sempre soldi a palate. E quello che guadagnano lo spendono in decorazioni d’interni e in romantici fine settimana in paesi caldi e assolati, dai quali fanno ritorno felici e abbronzati. Insomma, questo è quello che suppongo io, perché per saperlo non lo so con certezza, dato che da loro come unico riscontro ricevo solo mazzate alle pareti quando meno te lo aspetti o l’estremità di una sciarpa.
[È la sindrome di coloro che hanno perduto qualsiasi controllo su ciò che accade al loro intorno e non gliene importa un fico secco, perché comunque sia l’arte, sia la politica, sia i problemi sociali a loro non riguardano direttamente. Quindi hanno scoperto che possono attivare il proprio istinto di controllo applicando la quantità di potere di cui dispongono nel proprio universo domestico, nella loro tana middle class che perforano con il trapano, alla quale applicano decorazioni e che smontano fino a far disperare i propri vicini.]
Il PR e la sciampista avevano appena finito di ingrandire la cucina, che già quelli in fondo al cortile si erano messi a costruire un gazebo a vetri. Almeno con questi ogni tanto ci si scambiava una o due parole da sopra la staccionata, anche se, visti gli ultimi avvenimenti, credo che batteranno in ritirata. Avranno sui quarant’anni, entrambi al secondo matrimonio, con figli già indipendenti e con una loro famiglia. Lei ha un centro di relax/meditazione/tantrismi e altre coglionerie, lui lavora alla Toyota. Non avevamo niente da ridire su questi, anzi, mi erano pure più simpatici dei vicini che stanno dall’altro lato, fino a quando si sono messi in testa di costruire quella porcheria di gazebo e, invece di tirarlo su rispettando certi criteri, al livello del suolo, che t’inventano? L’hanno poggiato su dei piloni: lungi da loro, certo, l’idea di dover scendere tre, quattro scalini dalla loro cucina, quando possono far strusciare comodamente sulle piastrelle di ceramica luccicante le loro pantofole da casa, senza incontrare ostacoli, transitando direttamente dalla cucina al gazebo…
Dorian ha detto loro: «Abbiamo anche noi diritto al nostro spazio privato. Se lei mi colloca quel cubo di vetro al livello della staccionata del nostro giardino, la nostra intimità va a farsi friggere». Pensate che al Toyota sia importato qualcosa? No. Ha fatto come ha voluto lui. Ora quel gioiellino è stato portato a termine. In questi giorni sono stata in agguato, perché la finestra del mio studio dà sul giardino. E non appena li ho sorpresi mentre entravano nel loro cubo come dei pesciolini in un acquario sospeso sopra la nostra intimità domestica e si sono seduti beati sulle poltrone di raffia attorno al tavolino di raffia con le loro tazze di tè, ho messo in atto il mio piano. Sono uscita in giardino, ci ho collocato in mezzo una sedia, mi ci sono seduta sopra rivolta verso di loro. Loro mi hanno guardato, perché non mi potevano non notare. Da quell’altezza, attraverso le pareti di vetro, più della metà di ciò che è visibile è la superficie del nostro prato. Poi ho tolto con comodo i tappi dal binocolo che ero andata a prendere in casa e l’ho puntato su di loro finché se ne sono accorti e hanno alzato i tacchi prendendo su le loro tazze di tè e facendo ritorno in cucina. To’, ve la do io l’intimità! V’insegno io che cos’è.     
(…)

°°°
traian

And I’m like someone standing in the Judean desert
looking at a sign “sea level”.
He cannot see the sea, bu he knows.
(Yehuda Amichai)

(1)
opuscoli

(…)
La pioggia si era già asciugata sui tetti e sui marciapiedi quando sette ore più tardi la sveglia di Traian si mise a suonare. Fa una doccia. (Purtroppo, ha chiuso la porta del bagno, sicché – pausa…) Ora apre l’armadio e tira fuori il completo grigio e la camicia blu Armani. Poi però li rimette al loro posto sull’appendiabiti, nell’armadio. Si è ricordato della mail spedita dalla tipa delle PR che circolava ieri nelle inbox di tutti gli impiegati della Luxembourg Exchange e probabilmente, in diverse variante, di tutti gli uomini d’affari della City.

Dear All,
Guess what! Tomorrow – 1st April – although it’s Wednesday and you are not going to play cricket or take your partner for a shopping trip, you may, nevertheless, show up at work dressed casually as if you did. There’s a green protest announced to take place in the City ant it is advisable to look as un-business as you can bare. This is not an April’s Fool sort of thing, it’s serious!
Don’t get used to your trainers though, it’s only lasing for a day.

Un paio di Adidas quindi. Una camicia a quadretti senza cravatta. E i jeans. E perché no, anche l’apparecchio Canon, just in case.
Tutta la sponda settentrionale del fiume parallelo alla City pullula di gente. Ragazze hippie con gonne colorate a frange, dreadlocks e piercing alle labbra, attivisti con cartelli:

Change your ways, not the climate!

Vote for the planet!

NO BUSINESS WITHOUT A PLANET!

Ecc. Giornalisti con microfoni e telecamere, alcuni gazebo e tavolini con informazioni, tanto rumore per nulla. Per nulla, perché comunque Traian percorre imperturbato il suo solito tragitto passando tra i manifestanti, con il laptop a tracolla, con indosso gli occhiali da sole, entrando come sempre nell’edificio a cinque piani, prendendo il solito ascensore, augurando come sempre good morning ai colleghi d’ufficio vestiti in uniforme da weekend e aprendo come sempre il file della borsa valori internazionale. Un giorno come un altro. Dalle finestre laminate e antisole non si sente né si vede nulla. Il rumore esterno di quei perdigiorno non penetra dentro il Luxembourg Exchange.
«Ehi, Vampiro, stai meglio vestito casual che in completo», butta là qualcuno di passaggio mentre trasporta una pila di cartelline piene di dati.
«Vampiro» è il nomignolo che gli hanno affibbiato in ufficio fin dalla prima settimana di lavoro. I colleghi sapevano tre cose della Romania, anzi, quattro: 1. che le romene sono belle e facili, 2. che c’era stato qualcosa chiamato comunismo a un certo momento, molti anni fa, 3. gli zingari e i bambini degli orfanotrofi e 4. che lì c’era l’headquarter del Conte Dracula. Traian ha accettato il nomignolo, da un lato, perché era stato sorpreso in qualche modo dall’aggressività del cliché e, dall’altro, perché voleva arruffianarsi i colleghi dalla prima settimana. Inoltre, con il tempo, quel nomignolo risultò essere l’unica cattiveria che fu costretto a ingoiare in quel contesto. Per il resto con lui si comportano con la stessa indifferenza che usano tra di loro. Che batta sulla tastiera del computer per ore di seguito di fianco agli altri per cinque giorni alla settimana o che si trovi in non so quale viaggio d’affari all’estero o che trascorrano le serate in gruppo nei club o al bar, lui è avvolto da una solida armatura che lo isola dagli altri. Ognuno sa dell’altro tanto quanto il contenuto di un CV: che studi hai fatto, dove hai lavorato, quali qualifiche e che età hai, se sei sposato o single. Alle volte le colleghe sanno anche quanti minuti dura l’atto sessuale con determinati ragazzi dell’ufficio. Ma nient’altro.
«Con me neppure dieci minuti… cinque al massimo! E pensare che ce l’ha anche bello grosso, peccato per l’arnese!» (E ridono.)
Durante la pausa per il pranzo, scendono a mangiare in una caffetteria lì vicino, dove su un enorme schermo trasmettono una partita di calcio qualunque. Traian è rimasto in ufficio per terminare di leggere un rapporto di marketing di una compagnia giapponese, mordicchiando uno Snikers. Quando si alza dalla sedia per sgranchirsi la schiena, nota che all’esterno, sotto di lui, un gruppo di giovani si è messo a ballare. Non riesce a sentire la musica, però i loro movimenti gli sembrano particolarmente interessanti. Una sorta di danza sperimentale, eseguita con una certa professionalità. Gli viene in mente di azionare lo zoom in con la sua macchina fotografica per vedere meglio e per alcuni minuti segue una tipa con indosso dei calzoni alla zuava verdi e una maglietta arancione mentre si contorce ai suoi piedi, e balla con le braccia in alto attorno a loro agitando i suoi capelli lunghi. A Traian piacerebbe stare lì, vederla più da vicino, sentire la musica al ritmo della quale la ragazza si sta muovendo così bene, per starle tanto vicino da sentire il suo respiro affannato per via dello sforzo fisico, per sentire anche il suo leggero odore di sudore. «Hey, you, back to work! Occupati di quella compagnia giapponese!»
Questo mondo globalizzato, multiculturale e dalla mente aperta è scisso nel suo stesso nucleo di libertà. Non si può comandare al computer shut down, neppure hybernate e prendere l’ascensore per scendere in strada e ballare con quella tipa con i pantaloni alla zuava verdi. E neppure lei può venire quassù, al quinto piano, per ballare fra i rapporti di marketing. Nessuno dice che non si possa fare, non c’è nessuna legge che impedisca a Traian di prendere l’ascensore in questo momento per arrivare in strada e mettersi a ballare. È semplicemente un divieto talmente tenace e ben radicato nella natura della realtà che non lo si può ignorare. Una sorta di and so it goes, così stanno le cose, con la sua dose di finalità presa da Mattatoio n. 5. Un dogma assolutamente necessario per il buon andamento della realtà scissa.
«Un apartheid trasparente» avrebbe detto Traian qualche anno fa. Ora però la sua mente è completamente vuota.
La pausa pranzo è finita e i CV ritornano, commentando qualcosa circa la partita di calcio. A uno di loro viene la geniale idea di offrire agli ecologisti in strada la sua variante della storia:
«Dài, facciamo veder loro com’è la realtà», suggerisce questi.
E in quattro e quattr’otto tutto il quinto piano lo segue. Aprono le finestre e cominciano a sventolare ai manifestanti delle banconote da dieci e da venti sterline disposte a ventaglio.
«Dài, Vampiro, che fai? Tira fuori anche tu il fascio di soldi!»
Traian non si è unito a loro. Non perché non avesse dei contanti con sé né perché non avesse avuto tempo di pensare che cosa potesse significare sventolare dei soldi dal quinto piano di un edificio d’affari verso una folla di gente che protesta contro il consumismo. Si tratta semplicemente di una paralisi. Alle volte si lascia invadere da una paralisi che lo lascia senza reazione. Talvolta addirittura in momenti decisivi. E poi ne esce fuori, afferrandosi al primo gesto attivo che la gente rivolge alla sua persona.
«Va’ e mostra a quei fottuti che cosa conta realmente a questo mondo!»
Il tipo gli porge alcune banconote.
«E vedi di darmele indietro poi!»
Dalla sua fitta nuvola di nebbia nella quale respira e attraverso cui osserva il mondo da un po’ di tempo a questa parte, afferra i soldi. Li sventola anche lui alla finestra, finché quelli giù cominciano a scandire in coro:
«Jump! Jump! Jump!»
(…)
«Bravi, ragazzi!» gridò un CV, lo stesso che aveva prestato a Traian il ventaglio fatto di biglietti da venti sterline. «Ben gli sta, che imparino questi comunisti ridicoli! Vampiro, questi sembrano come quelli dalle tue parti, dall’Europa dell’Est, anticapitalisti».
Traian sta quasi per rispondergli che l’Europa dell’Est non è più comunista da un pezzo e che, a ogni modo, la libertà di protestare come fanno quelli a voce spiegata e nell’ombelico della capitale c’entrano come i cavoli a merenda con il comunismo, però si trattiene. Risponde tuttavia a un’altra osservazione. E cioè:
«Che vogliono questi? Sono tutti della middle class, non hanno problemi», ha continuato lo stesso.
«E se anche fossero della middle class significa che non hanno ragione? Non sei anche tu della middle class
Con il salario che percepisce nella City, anche le donne di servizio sono della middle class. Ha ragione. Inoltre, gli inglesi sono ossessionati oltre ogni limite dall’appartenenza di classe e questa è una delle prime cose che Traian ha capito due anni fa quando è arrivato.
«Tu non hai idea di quello che vogliono quelli. Sai cosa vogliono? Che tu non salga più comodamente in aereo per fotografare la tua bella aurora boreale quando ne hai voglia, che tu non usi più la macchina bensì la metropolitana e i loro sudici autobus, che tu ti mangi i funghetti raccolti nei campi con le tue stesse manine e non l’arrosto al forno perché le mucche sono tutte delle fottute – ruttano e scoreggiano e il diossido di carbonio assottiglia lo strato d’ozono. Vogliono che tu non ti mangi le fragole dalla Spagna perché vengono portate ai supermercati in aereo, che tu non usi più l’elettricità perché non proviene da fonti eoliche e neppure il petrolio perché inquina e le riserve sono agli sgoccioli – allora non ti resta che mangiare merda al buio delle cavità degli alberi, ti piacerebbe? Fanculo a ‘sti progressisti…»
A Traian non piacerebbe, certo. Non a caso ha trascorso l’infanzia sotto il comunismo. Sicché non gli replica più. (…)


°°°
sabina

 

Il respiro è una decisione assolutamente personale
Che ogni tanto regola il silenzio
con un clic.
(Răzvan Ţupan)

(1)
per chi ha votato, signor ferguson?

Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il Tuo nome, venga il Tuo regno, sia fatta la Tua volontà, come in cielo, così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano e liberaci dai nostri peccati come noi li perdoniamo ai nostri debitori. E non c’indurre in tentazione ma liberaci dal male. Tuo è il regno, la potenza e la gloria nei secoli dei secoli. AMEN
«Per confessarmi, non posso confessarmi, perché mica so come si fa in inglese. Non posso. Non mi viene. Magari più avanti, quando sarò più pratica della lingua». 
Sabina in cambio accende delle candele: una per la Madre del Signore (che bacia pure), una per i morti (per l’anima dei cari defunti che sono parecchi – Sabina ha tutta una sua tecnica per tenerli a mente: Maria Geta mamma Veta / Gheorghe Mirea Pătru Silea / papà caro, mammina e zio Ghiţă) e un’altra per i vivi (fra di loro rammenta anche Sănducu, anche se non se lo merita). E poi via a casa, perché questo pomeriggio arriva Oliver. Oliver però non è venuto direttamente a casa di suo padre. Prima è passato dal barbiere per tagliarsi i capelli anche se erano già corti. Sabina ha avuto tempo per fare una torta alle mele su suggerimento del signor Ferguson. È giorno di elezioni. In tv non la finivano più questi con tutte quelle ciance sulla politica. I Labour, con l’attuale primo ministro alla guida, perderanno dopo essere stati tredici anni consecutivi al potere.
«Per chi voterà, signor Ferguson?»
Non è che capisca granché del programma politico conservatore, Lib-Dem o Labour o che gliene importi in qualche modo. Neppure al suo paese le interessava cosa votare. Erano tutti della stessa risma. Ma, così, era solo per il piacere di chiacchierare e perché il signor Ferguson sembrava preso dalla faccenda delle votazioni. Oggi si è svegliato di buon’ora e si è messo il completo buono, con la cravatta, tutto a puntino, ha preso da bravo le medicine e, spinto sulla sedia a rotelle da Sabina, è stato trasportato al seggio più vicino.
«Per quelli dell’UKIP ho votato», le risponde.
«E chi sono?»
Qualcuno alla porta ha suonato il campanello, il Figliol Prodigo.
La prima volta è stato quando a Oliver è sfuggita di mano una fetta di torta facendola cadere a terra. Allora sono cominciate le scuse. Accavallando e scavallando le gambe, avrà chiesto scusa per tutto il pomeriggio almeno una ventina di volte e, secondo Sabina, per motivi di cui meravigliarsi, cose alle quali lei personalmente non ci avrebbe tanto badato, come, per esempio, che si era dimenticato di togliersi le scarpe all’ingresso, anche se nessuno era mai stato tenuto a togliersele all’entrata in quella casa, da quando cioè i Ferguson la acquistarono negli anni ’70. O che non aveva avuto tempo di vestirsi in modo un po’ presentabile; i capelli sì, se li era tagliati, ma i vestiti – lavati a novanta gradi con detersivi aggressivi insieme ad altre decine di capi di altri detenuti – erano sgualciti e scoloriti, a suo modo di vedere. Ma secondo Sabina, quello era un particolare insignificante. Le sembrò che al figlio del signor Ferguson fosse andato un po’ di volta il cervello durante quei quattro anni trascorsi in carcere. Pareva che non riuscisse più a distinguere tra ciò che conta e ciò che non conta, tra ciò che annoia e ciò che accende la curiosità di una persona. A lei le lavatrici della prigione non interessavano affatto. E tanto meno al padre di Oliver per lo stato in cui si trovava.
«Porta la sacca di sopra… se vuoi. Zahbiina, lo aiuti tu? Ti ho fatto preparare il letto in mansarda…»      
Ovviamente c’erano anche delle scuse che avevano un senso che le chiedesse. Per esempio, per non aver mai risposto a nessuna delle quindici lettere spedite da suo padre in tutto quel tempo. In questo caso, oltre alle scuse, doveva andare anche delle spiegazioni:
«Non sapevo che dirti, papà. Tutti erano contro di me e io continuavo a non capire in che cosa avevo sbagliato. Neppure adesso a essere sincero non posso dire di aver fatto qualcosa di male. E nelle lettere mi sembrava che tu stessi dalla loro parte… Mi dispiace…»
Un’altra scusa. (…) 


°°°
gruia

I am a sightless vagrand on the road
With not one letter in civilization’s alphabet.
Meanwhile in my own time I plant my trees
I sing of my love.
(Mahmoud Darwish)

(1)
nitrato d’argento

Quando ti sei avviato lungo l’argine del fiume, non avevi ancora in mente nessun posto specifico. Dove si può scavare una piccola fossa nella più grande metropoli europea, una fossa profonda quanto il palmo di una mano calda? Un posto tranquillo, dove non ci costruiranno sopra degli uffici. Un parco, ovviamente, relativamente lontano dal traffico e dal rumore, un rifugio sicuro della tua storia. Non un materasso, né una banca, né una cassaforte.
Il caso ha voluto che, per un mutamento di direzione spontaneo e istintivo, come guidato da una cartina della città tracciata sulla mano di un bambino, tu sia finito in una zona di musei e di gallerie d’arte, e non ti sembrava proprio il posto più adatto. Ti sei avviato quindi giù per Exhibition Road, all’ombra dei mattoni rossi degli edifici, fino alla stazione della metropolitana di South Kensington. Qui no. Non va bene. Sei tornato indietro, hai percorso a zigzag come il tracciato di un cardiogramma il West End, mentre con una mano tenevi stretto in tasca l’involucro fatto con una salvietta e un sacchettino di plastica in cui hai messo al sicuro il tuo segreto. Fino a Hyde Park. Hyde Park potrebbe essere il luogo ideale. C’è molto verde e non c’è traccia di tassi o di talpe che potrebbero, scavando e dissodando la terra, scoprire ciò che non deve essere scoperto. Ma vediamo, non facciamoci prendere dalla fretta. Un-due, un-due, come un soldato partito per una missione del tutto speciale. Senti che la scarpa sinistra ti stringe un po’. Ti pieghi per scioglierne i lacci. Per l’inerzia, il tempo passa e lascia alluvioni inopportune sotto le tue orme. L’ora di pranzo, per esempio: è una di quelle alluvioni. Intempestiva, perché ti viene fame e oggi non hai niente da mangiare. Non mangi da stamattina, ma è da questa primavera che non mangi più di mattina, e questa è una cosa che non si prende più in considerazione. Il pranzo però è tutt’altra questione. All’una e mezzo non riesci a pensare ad altro. Vuoi un trancio di quella pizza che sta addentando il ragazzino sui pattini. E un goccio di quel caffè che sta sorseggiando la signorina. E quei Dixi che si sta sgranocchiando una bambina di cinque anni. Soldi non ne hai, perché oggi non sei stato sul ponte di ferro a strimpellare sul tuo violino. Oggi ti sei svegliato con un unico pensiero in testa. Trovare un posto sicuro. È rischioso andare sempre in giro con quella nella tasca del giubbotto. Se ti fermano i poliziotti e ti trovano senza documentazione, e ti perquisiscono, e la trovano e dicono che l’hai rubata? Te la confischerebbero. O se ti rincorrono i punk, e ti prendono, e ti fracassano di botte e te la fregano? Così come ti hanno rincorso tre settimane fa in Hackney. Per fortuna che non ti hanno acchiappato.
Ma torniamo a noi. Hai visto, l’intestino brontola anche se hai dell’oro in tasca. Paradossalmente. Più tardi, verso sera, quando apriranno i ristoranti all’aperto, andrai a grattare un po’ le corde con il tuo archetto e allora racimolerai qualche spicciolo per una minestra, o forse anche per un hot dog. Per il momento fa’ finta di niente e resta seduto sulla panchina di Hyde Park. Segui quello sulla panchina di fronte con indosso i pantaloni di nylon, le scarpe da ginnastica rosse e il cappellino da baseball perché a quanto pare – come definirlo? – non è un autoctono. Cioè sembra essere un tipo non abituato alla pulizia degli spazi pubblici. È il genere d’individui che, a un certo punto, potrebbe perfettamente, per puro istinto, gettare per strada una bottiglia vuota di coca cola senza avere problemi di coscienza. Sono quei tipi che potrebbero semplicemente lasciare un contenitore in poliestere con i resti del take-away cinese proprio lì, sulla panchina, dove hanno mangiato. Seguilo attentamente.
Signore, grande è il tuo potere e, sebbene le tue vie siano in generale contorte, fa’ un semplice sforzo questa volta. Nessuno ti chiede di trasformare l’acqua in vino o di riempire di pesci le reti dei pescatori qui, nel centro di Londra. Fa’ sì almeno che quel tipo con i pantaloni cascanti di nylon non si pappi tutto quello che c’è in quel contenitore in poliestere, per prima cosa, e secondo, se la tua pietà è grande, fa’ sì che butti il contenitore in quel cestino dei rifiuti distante tre metri, a destra. Signore, rendi quella persona insensibile, irresponsabile rispetto alla nettezza pubblica!
Il tempo passa, lo stomaco brontola. (…)
Ma, vedi, Dio esiste. Ti alzi lentamente dalla panchina e ti siedi tranquillamente, senza essere notato da nessuno, sulla panchina da dove le scarpe rosse da ginnastica si sono allontanate. Così, per caso. Tanto per dire che ti sei spostato su questa panchina perché c’è più sole, per esempio. Ti avvicini al contenitore di poliestere come se fosse una signorina straniera con la quale vuoi attaccare bottone. Hello, beautiful! Ha i capelli del colore della soia e i capelli di noodle le coprono gli occhi a mandorla, da cinese. How are you today? Fine? Good. What is that I want from you? Oh, but I want to eat you, of course. May I?   
Fatta! Per fortuna che gli immigranti non hanno ancora scoperto a che servono I cassonetti. Altrimenti molti stomaci a Londra continuerebbero a brontolare.
(…)

A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 9, settembre 2012, anno II)

NOTE

[1] UK Independence Party, con un programma politico nazionalista a favore dell’indipendenza della Gran Bretagna dall’Unione Europea e con un rigoroso controllo sull’immigrazione (Le note sono dell’Autrice).
[2] Millennium Bridge.