«O dimineață la vânătoare», il debutto letterario di Ligia Ruscu

A cavallo tra il «roman de mœurs» e il romanzo giallo, con questa prova letteraria – O dimineață la vânătoare, Polirom, Iași 2015 – Ligia Ruscu è riuscita nell’impresa di fondere i due generi in una sintesi di ammirevole efficacia narrativa in cui il dato storico – rigorosamente fedele, una garanzia dato che l’autrice è docente di storia all’Università Babeș-Bolyai di Cluj (ma nella trama non vi è alcuna pesantezza «accademica») – e la bravura scaturita dal proprio estro letterario e personale, che ne ha dato forma, hanno avuto come esito un’opera che denota una scrittura dallo stile elegante, sostenuto e godibilissimo, opera che rappresenta anche il suo più che brillante debutto come prosatrice.
Come si accennava, il romanzo è collocato cronologicamente nella prima metà dell’800, in Valacchia («Țara Românească»), all’epoca dell’occupazione imperiale russa (ne era assoggettata anche la Moldavia) e dell’Ordinamento Organico, forma di governo qui imposto dagli occupanti (con a capo il generale Pavel Kiselëf (Kiseleff)) in seguito al Trattato di Adrianopoli, come conseguenza della vittoria sulle truppe turche, trattato i cui effetti si sarebbero prolungati sino all’unificazione di Valacchia e Moldavia – embrione di uno Stato unitario romeno – con l’ascesa al trono del principe Alexandru Ioan Cuza (1859), passando per i moti rivoluzionari del 1848, repressi duramente, e la guerra di Crimea. Non c’è dubbio che con questo libro viene dato rinnovato impulso al romanzo a sfondo storico sulla scia di una tendenza che nel panorama letterario romeno non si vedeva da tempo. Infatti, nell’appena trascorso 2015 sono stati pubblicati altri due romanzi «storici» come quello di Doina Rusti (Manuscrisul fanariot) e di Simona Antonescu (Fotograful Curții Regale), che, al pari di quello di Ligia Ruscu, pur ancorati a spazi storici assai diversi tra loro, sono accomunati dal ritrovato desiderio di riportare in auge epoche storiche che hanno caratterizzato momenti salienti del passato della Romania e che vengono ora sapientemente resi fruibili a scopi narrativi.
Il romanzo di Ligia Ruscu coglie poi in particolare un preciso momento storico, quello in cui nella società romena dell’epoca il modello occidentale si stava innestando – per scalzarlo, inesorabilmente – su quello oriental-balcanico, e nel libro ciò viene colto efficacemente con la descrizione dell’ambiente dell’alta borghesia bucarestina, in cui, per fare un esempio, le fogge dei vestiti femminili e maschili irradiate da Parigi, tripudianti, i primi, di crinoline, e i secondi, di tagli aderenti e diritti, contrastano con le svasature dei caffetani e dei torreggianti ișlice – i caratteristici copricapo di tradizione ottomana (Aferim! di Radu Jude, film premiato a Berlino nel 2015 con l’Orso d’Argento, e che sembra essere il pendant cinematografico di questa reviviscenza storica in letteratura, ce ne offre visivamente una splendida rievocazione) [1] – indossati dalla classe sociale dei boiardi, giovani e anziani, volgente al tramonto. In questo spartiacque antropologico della Romania ottocentesca, Ligia Ruscu si inventa un Poirot in gonnella, Sofia Scriban, una giovane donna da poco rimasta vedova, che, con femminile intuito ed eleganza, cerca di sua iniziativa – quale arditezza per una donna della sua epoca! – di gettare luce su un misterioso crimine, avvenuto in una mattutina battuta di caccia, a Nucet, località in cui si trova la residenza di campagna con attiguo podere del boiardo Constantin Dunca, postelnic. Il misfatto ha per vittima mortale, e accidentale?, colpito da una schioppettata, il maggiordomo del boiardo Dunca, Mitru Mărincea, dal cui corpo vengono sottratti dei documenti compromettenti, un evento che semina lo scompiglio nella famiglia e  tra i conoscenti più intimi, e uno choc tale per Dunca da ridurlo alla semiparalisi nella sua stanza da letto, da dove viene trafugato un grosso diamante che egli custodiva gelosamente… Insomma, il lettore è già avvisato, e dovrà scoprire da solo le mosse e contromosse di Sofia Scriban e assaporare il finale di un romanzo assolutamente imperdibile.                           

[1] A chi desiderasse approfondire il tema nei suo svariati aspetti, è utile la lettura del pregevole e agile libro di Ștefan Cazimir, Alfabetul de tranziție (Humanitas 2006).

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Frammento da «O dimineață la vânătoare»

1

Il mattino dopo il ballo – o piuttosto già verso mezzogiorno – Sofia, appoggiata ai cuscini e intenta a sorbire il caffè, stava passando in rassegna gli eventi della notte appena trascorsa. Era arrabbiata con sé stessa.
Innanzitutto perché era venuta meno ai suoi obblighi di chaperon nei confronti di Antița. Invero, sarebbe stato difficile prevedere che, fra tutti gli uomini presenti, proprio Tannenberg avrebbe avuto un tale effetto sulla ragazza; ciononostante, sarebbe stato suo dovere starle accanto per non permetterle di mostrare eccessivo interesse verso un’unica persona. Dopo che Sofia li aveva stanati dal loro nascondiglio all’ingresso, Antița aveva continuato a danzare e a fare conversazione, ma in maniera così meccanica e apatica, priva del tutto della vivacità che aveva mostrato prima, da indurre Sofia alla fine a condurla via da lì ben prima del termine della festa, senza che la ragazza opponesse alcuna resistenza. Giunte a casa, così come si erano intese, Antița si era ritirata dopo poco, adducendo come scusa di essere stanca, mentre Eleni, che era parsa non aver notato nulla di sconveniente nel comportamento della figlia, domandò a Sofia un’infinità di particolari sul ballo, sui cavalieri di danza di Antița, sulle mise delle signore e non si dimostrò particolarmente allarmata sentendo l’episodio con Tannenberg, espostole da Sofia in toni meno espliciti. Semmai era più interessata a sapere il numero di volte in cui Condescu aveva invitato Antița a danzare o a quante volte lui avesse danzato con le altre, con chi in particolare e con chi avesse conversato. Sofia poté sottrarsi a questo fuoco di fila di domande non appena era stato possibile, ma prevedeva che il discorso nei loro futuri incontri – escludendo il fatto che se ne sarebbe dal Paese per un paio d’anni – sarebbe girato intorno agli stessi argomenti.
Ma era stato il ricordo dell’incontro con Receanu a scatenare in lei un più forte sentimento di rabbia. In quel momento, alla fredda luce del giorno, non riusciva a capacitarsi come la propria capacità di giudizio avesse potuto abbandonarla in quel modo. Era ovvio che Receanu si era intrufolato in casa da ingressi occulti e salito scale segrete per incontrarsi con qualcuno, ma solo il sovreccitamento della serata e, aggiunse dentro di sé con severità, la reputazione di Receanu avevano potuto farle credere che si trattasse di un appuntamento amoroso. Non c’era dubbio che il modo scelto da Receanu per impedirle di vedere chi apriva la porta dietro di lei era stato di estrema accuratezza, ma c’era da dubitare che una donna accorsa a un rendez-vous galante sarebbe accondiscesa a seguire tale modalità. Dunque Receanu si trovava lì per un’altra ragione e la persona che si trovava davanti alla porta non era un’amante impaziente.
Ma chi era allora?
A un ballo con tante persone presenti per chiunque sarebbe stato facile avere un colloquio, anche più lungo, con qualcun altro senza dare nell’occhio. Se Receanu aveva preferito non partecipare alla festa, ma si era invece intrufolato in casa in quella maniera voleva dire che si doveva incontrare con una persona presente al ballo, ma in compagnia della quale non si poteva permettere di essere visto, neppure di sfuggita, e neppure per una banale conversazione. Ma allora di chi si poteva trattare? Nessuno che fosse un russo, probabilmente, dato che era arcinoto il fatto che egli frequentava svariati ufficiali e il console. Era poco probabile cioè che fosse una questione di natura politica: quando mai Receanu aveva dato segni di essere interessato in un modo o nell’altra alla politica? Era perciò una questione privata nella quale era implicata una delle persone presenti al ballo e che tale questione era assai compromettente sia per Receanu, sia per l’altra persona – di qui perciò che le possibilità fossero più d’una. Sofia sospirò. Quanto più ci pensava, tanto più Receanu le appariva sotto una luce più inquietante. Dietro quella facciata che mostrava alla gente, da bon viveur, festaiolo, donnaiolo e intimo degli ufficiali russi si celava dell’altro, e Sofia di colpo non era più sicura che tutto ciò che lui le aveva detto in faccia la sera scorsa non fossero in qualche modo dei rimproveri troppo blandi.   
Appoggiò di lato la tazza del caffè e raccolse di nuovo una lettera posata sulla coperta che aveva letto prima di coricarsi, e anche dopo che si era svegliata. Era la lettera di madre Glafira. Anca era tornata da Nucet la sera prima portando questa lettera che conteneva una descrizione dell’uomo che le aveva inviato la bottiglia di vino di Udrea (basso, tarchiato, dai capelli rossicci e la faccia lentigginosa), che non assomigliava né all’uomo che aveva visto Sofia a Nucet al villaggio, né a nessun altro fra coloro di cui lei si ricordasse di aver mai visto. Aveva solo avuto la vaga speranza che si potesse trattare di qualcuno che lei conoscesse. Sofia aveva scartato, quasi senza esitare, l’idea che l’assassino potesse essere qualcuno del villaggio e che il movente fosse in relazione a Mitru. La sparizione di ciò che si suppone fosse stato cucito all’interno della fodera del cappotto stava a dimostrare che era proprio questo il movente del crimine e, poiché quella mattina Mitru agiva su ordine del suo padrone, era assai poco probabile che suoi familiari o altri compaesani fossero al corrente dell’incarico che gli era stato affidato e di quello che portava su di sé. Dunque, la sua morte era solo un piccolo tassello di uno schema più grande, e fino a quel momento Sofia non aveva idea da che parte girarsi per trovare delle risposte.
La lettera non conteneva nessuna novità, se non si metteva in conto la calma con cui madre Glafira aveva accolto i sospetti di Sofia e con la quale discuteva della probabilità che nel podere dove abitava fosse stato commesso un omicidio. Sofia non era certa se questa freddezza si dovesse a un autocontrollo razionale o a una innata placidità, ma ne era riconoscente perché non c’era bisogno di calmare per corrispondenza nervosismi a fior di pelle; sotto questo aspetto aveva già parecchio da fare a casa. La madre la informava sullo stato di salute del boiardo Dunca (che era stabile, ma senza alcun miglioramento degno di nota), sul signor Udrea (che si era completamente rimesso in sesto), sul diamante (aveva potuto svolgere ricerche solo con discrezione, ma era effettivamente sparito nel nulla), sull’estraneo della bottiglia di vino (nessuno, da quanto aveva potuto appurare, pareva averlo visto, né al villaggio, né altrove).
Sofia tirò un altro sospirò e rimise da parte la lettera. Doveva assolutamente intraprendere qualcosa, ma in quel momento le sue scelte erano limitate.
La porta venne aperta ed entrò Anica portando con attenzione il catino e la brocca piena d’acqua. Mostrava una faccia mogia mogia ma, osservò Sofia con sollievo, non aveva gli occhi lucidi. Da quando era tornata da Nucet, dove era rimasta per più di tre giorni, la ragazza si aggirava per casa trasformata in una nuvola carica di tempesta lì lì sul punto di sciogliersi in una pioggia torrenziale ma che non riusciva a farlo. Aveva fatto solo vaghi e insoddisfacenti accenni a ciò che aveva visto e sentito a Nucet, ma per Sofia non fu difficile trarre la conclusione che Udrea, mano a mano che si rimetteva in salute, non schivava le attenzioni femminili che il suo rinnovato vigore e la sua interessante situazione da vittima erano tali da fargliele convogliare.
Sofia scostò le coperte e si alzò dal letto. Mentre faceva la sua toilette, Anca si muoveva per la camera, preparandole il vestito per quella mattina, e cercando i guanti e le calzature acconce. Era una bella giornata anche se fredda, e Sofia, che progettava di andare a Lipscani in compagnia della cugina Maria per far compere, si infilò in fretta la blusa. Mentre era piegata intenta a infilarsi le calze, sentì la cugina Maria bussare con discrezione alla porta e la invitò a entrare.
La cugina Maria si era vestita come se dovesse partire per una spedizione al Polo, con un vestito di stoffa di lana un po’ rigido e degli stivaletti foderati di pelliccia. Come suo solito, si era svegliata all’alba, aveva fatto colazione e ora, già pronta per uscire, trepidava tutta. Dato che aveva trascorso gran parte della sua vita in campagna – prima che Sofia la portasse a Bucarest – non si era ancora abituata alle botteghe della capitale e ogni uscita a far compere assumeva nella sua mente le proporzioni di una spedizione colma di peripezie.
– Hai preparato la lista, Maria? domandò Sofia, facendo segno ad Anca di venire a stringerle il corsetto.
La cugina Maria non usciva di casa senza prima aver stilato la lista delle cose da fare, sia che si limitasse ad andare alla chiesa più vicina per rivolgere una preghiera alle anime dei familiari defunti – che non erano pochi, sicché se ne annotava i nomi a lettere cirilliche minuscole e ordinate per non dimenticarsene nessuno – sia che si limitasse ad andare dalla sarta. Sofia aveva avuto il suo bel daffare nel convincerla ad abbandonare la moda orientale dei tempi in cui era giovinetta a favore dei vestiti di foggia europea e la cugina Maria aveva trascorso ore d’agonia selezionando i capi dai quali non riusciva a separarsi e decidendo che farne degli altri. Il nuovo guardaroba le era stato fornito da una sarta minuta e timida, che del resto lavorava più per le mogli dei mercanti ma che era ugualmente felicissima di avere l’onore di creare vestiti per una donna di alto rango così come era altrettanto intimorita di averci a che fare, e a malapena si azzardava ad aprir bocca in sua presenza. Questo era anche principalmente il motivo per cui la cugina Maria la spalleggiava e perfino ardiva a recarsi da sola ogni volta che doveva ordinare un vestito nuovo; per un’indole come la sua, la timidezza eccessiva dell’altra era un permanente incoraggiamento. Ma fino ad allora si era rifiutata categoricamente di avventurarsi da sola nelle botteghe della zona centrale della città, cosicché Sofia si ritagliava occasionalmente qualche mattino per accompagnarla nei luoghi di perdizione di Lipscani, di Șelari o di Gabroveni.
In questa occasione sembravano intenzionate ad acquistare delle trine per guarnire delle maniche o dei colletti – nere, ovviamente: la cugina Maria era vedova infatti da parecchi anni e si era rifiutata con risolutezza di togliere il lutto –, come pure dei guanti, una cuffia e forse un ventaglio, se non era troppo costoso. Sofia stava ascoltando tutto ciò senza prestarle eccessiva attenzione mentre finiva di vestirsi. Aveva provveduto a mettere a disposizione di Maria un sussidio che coprisse le spese durante la sua permanenza a Bucarest e che, aggiunto all’infima eredità che le aveva lasciato il suo defunto marito, facesse fronte a tutti bisogni della sua vita esente da pretese. Infatti Maria aveva colto saldamente l’opportunità che le veniva offerta di lasciare la fattoria del figlio, sposato da anni con una donna di una famiglia di signorotti di campagna. Costoro, occupati a riempire la casa di bambini, avevano assai poca pazienza con una suocera che consideravano un peso inutile. Oltre al sussidio, Sofia aveva cura di esentare la cugina Maria dalle spese di casa e di farle pervenire, sotto forma di regali, svariate minuzie, aghi, fazzoletti, calze, qualche profumo, che altrimenti, accumulandosi, avrebbero aperto un buco nelle sue economie. Tutto ciò non impediva comunque alla cugina Maria di comportarsi come se il suo decesso per inanizione fosse una prospettiva prossima a lei e per la quale doveva essere costantemente pronta.
– … e lucidami quegli altri stivaletti, per favore, che mi sono tutta inzaccherata di fango ieri quando sono stata alla chiesa di San Sava, disse continuando a impartire una serie di istruzioni ad Anca e delle quali Sofia, tutta intenta a vestirsi, aveva perso momentaneamente il filo.      
La cugina Maria non aveva una sua domestica e aveva respinto con orrore la proposta di Sofia di assumerne una per lei, affermando che fosse inadatto e addirittura indecoroso per una donna nella sua condizione permettersi simili stravaganze. Il che però non le impediva di servirsi occasionalmente dei servigi di Anca, ma con tale ritegno che la ragazza aveva piuttosto l’impressione che le stesse facendo più un bene che prestarle servizio.
– … ora hai un aspetto migliore, disse la cugina Maria e Sofia si girò verso di lei con l’aria corrucciata, ma la donna non stava parlando a lei, bensì ad Anca.
Questa sbuffò, ma non rispose, e la cugina Maria, che interpretò il rumore – in modo corretto all’apparenza – come un’espressione di malcontento, si affrettò ad aggiungere: – Ma sì, ma sì, ti ha fatto bene uscire un po’ fuori città lasciando queste quattro pareti! Guarda che guance rubiconde ti ha dato l’aria di campagna! Guarda come ti brillano gli occhi! E credo – continuò la cugina Maria con una spiacevole mancanza di tatto –che anche il cuoricino ti batta adesso ancor più forte rispetto a…
Non andò oltre. Anca aveva gettato a terra la coperta che stava per piegare, si portò le mani alla bocca e cacciò un suono come se qualcuno la stesse per soffocare. La cugina Maria, indietreggiando, lanciò uno sguardo interrogativo a Sofia, che sospirò e le spiegò:
– Temo che in questo caso le cose siano andate ben altrimenti a Nucet rispetto a quanto sperasse Anca…
– Una rossa! esclamò Anca sbuffando da dietro le due mani portate alla bocca, il che rendeva poco comprensibile ciò che stava pronunciando. Se l’è scelta apposta quella rachitica spilungona, coi capelli rossi! Io non avrei avuto niente in contrario se…
Sofia sospirò di nuovo e uscì dalla stanza. Erano già al primo dramma mattutino, e lei non aveva ancora fatto colazione. Si avviò verso la scala per scendere in cucina, seguita dalla cugina Maria, la quale ogni tanto proferiva qualche parola di simpatia, e da Anca, che si torceva il grembiule e riversava negli orecchi delle due padroncine la storia delle sue sfortune in amore. Sofia sentì qualcuno chiudere la porta della cucina sbattendola energicamente. Probabilmente il resto della servitù di casa – e del vicinato – aveva già sentito a sufficienza quella storia. Sospirò per la terza volta e cercò di pensare a qualcos’altro. Doveva ordinare anche lei alcune cuffie nuove e lì vicino, in via Șelari, c’era una modista minuta, dalle dita straordinariamente agili, dalla quale Sofia si comprava cappellini e cuffie fin da quando si era maritata. Doveva farci un’altra capatina. Tuttavia il tema delle cuffie non era sufficientemente accattivante da penetrare la voce acuta e piagnucolante di Anca e attirarne l’attenzione.
– … curato con le mie mani, me le sarei consumate fino all’osso, ma il signorino no, non ne aveva bisogno! In villa era riverito da tutte le donne, e quella rossa non si staccava dal suo letto di sofferenza! E se non mi avesse detto che mi…
Sofia entrò in salotto, soffocando un altro sospiro e la tentazione di sbattere la porta in faccia a quelle due. La cugina Maria, che aveva già mangiato, le era andata dietro unicamente per inerzia, e per la stessa ragione ascoltava ora quello che le raccontava Anca, sebbene la storia fosse popolata da personaggi che la cugina Maria non conosceva neppure per sentito dire. Si sedette al tavolo e fece uno sforzo per concentrarsi sulle sue due uova sode.
– … non gli interessa altro che quella sua scure! Tutte le volte che sono andata a trovarlo, sempre di quello mi parlava, come se a me interessasse poi! Forse sarà stata quella rossa ad abituarlo così, a parlare di scuri. Alla fine gli ho detto che non volevo sentirne parlare e che avrei preferito che l’avesse persa, così come pensava lui…
– La scure o la rossa?! fece Maria, confusa.
La storia cominciava a sovrastarla.
– La scure! E non l’ha neppure persa! L’aveva solo smarrita e poi si è messo a dare la colpa a tutti. Che era lo stesso giorno in cui è morto il povero Mitru, che Dio lo perdoni… E iniziò a farsi il segno della croce, imitata subito dalla cugina Maria. E poi l’ha trovata esattamente lì dove doveva trovarsi, cioè nella rimessa. Ma poteva lui riconoscere di aver fatto un errore? No, ma quando mai! Ha continuato imperterrito con altre storie con la scure, perché certe persone, quando cominciano, non sanno più smetterla…
– Ecco, hai detto bene, disse Sofia calcando le parole. Ma tu non avevi da fare in casa? Mi sembrava di aver sentito parlare di stivaletti…
Anca, distolta brutalmente dalla sua principale preoccupazione, si ritirò in tutta fretta, mentre la cugina Maria, sedendosi, si mise a di nuovo a parlare di compere.
Finalmente giunsero a destinazione per far compere. […]
Si fermarono davanti a una bottega grande e buia vicino alla locanda Theodoraki e la cugina Maria si perse presto in un groviglio inestricabile di stoffe, aghi, commesse e stecche per misurare. Sofia, che sapeva benissimo che la cugina Maria non aveva nessuna intenzione di comprare qualcosa subito, ma che avrebbe meditato almeno per altre due settimane e che sarebbe tornata alla bottega ancora un paio di volte, contemplò per un po’ lo spettacolo, poi uscì fuori a vedere ciò che accadeva in strada.
Non c’era granché da vedere. Il tempo uggioso non impediva alla gente di occuparsi delle proprie faccende, ma la bottega si trovava così discosta dalla strada che, dalla soglia, con la carrozza ferma davanti, se ne vedeva solo un pezzetto. Sofia guardò con aria distratta come passavano due borghigiani che discutevano concentrati agitando le mani; un uomo alto, dalle fattezze greche, con indosso un caffetano logoro; un gruppetto di bambini cenciosi che si davano alla fuga inseguiti da un fruttivendolo che agitava un bastone e che gridava con voce roca; una piccola carrozza elegante in cui erano sedute due donne che Sofia conosceva e che salutò con un cenno della mano; due monache che schivavano le pozzanghere a piccoli passi; un carretto pieno di patate; un venditore di sorbetti che stava raccogliendo la merce; un uomo vestito da borghigiano, dall’aria a lei vagamente nota; una donna con un canestro colmo di verdure; un soldato russo in uniforme, che portava in spalla un ragazzino biondo e che teneva per mano una donna; un…
Sofia cacciò un gemito e balzò indietro di un passo, calpestando con forza il piede di un uomo che stava uscendo dalla bottega. Dopo essere riuscita appena a bofonchiare delle scuse e scordatasi completamente di sua cugina Maria, sollevò le falde della gonna e si mise a correre verso l’angolo della strada dietro cui era sparito l’uomo vestito da borghigiano. L’aveva visto solo di spalle, ma era convinta di non sbagliarsi. Aveva già visto la sagoma di quell’uomo, sempre allo stesso modo, mentre si allontanava da lei a passi spediti e ampi. L’aveva visto al villaggio, a Nucet.
[…]
L’uomo scomparve dietro l’angolo della strada. Sofia affrettò di nuovo il passo, maledicendo l’intrico di stradine che componeva il centro commerciale di Bucarest. All’angolo rallentò di nuovo; per fortuna l’uomo che stava inseguendo non camminava troppo in fretta. Non perdeva il tempo però a guardare le vetrine o le donne, ma avanzava come chi avesse uno scopo ben preciso in mente, anche se non si affrettava più di tanto a raggiungerlo. Sofia lo tallonò, a una distanza ragionevole, per alcuni minuti. Si inoltrarono di parecchio verso il lato di oriente, in una zona occupata da laboratori e magazzini che le era poco nota e cominciò a perdere il senso dell’orientamento, quando d’un tratto l’uomo varcò un portone spalancato, e svanì. Sofia, che lo aveva scrutato con prudenza nascosta dietro un angolo, mosse due passi sulle sue tracce, poi di colpo si girò sui tacchi e tornò dietro l’angolo. Aveva visto l’insegna appesa sopra il portone. «Hanganu et Cie» era una ditta che commerciava in pellicce e articoli di pelle che portava, infatti, il nome di qualcun altro, ma di cui casualmente Sofia sapeva che era di proprietà di Scarlat Resa. Per cui pareva assolutamente incomprensibile che quell’uomo, entrato in quell’impresa che apparteneva a costui, da lei visto a Nucet il giorno in cui morì Mitru, fosse una mera coincidenza.
– … Guardate, comprate…, noccioline, semi di zucca, di girasole… bakın, alın… comprate noccioline…
Scuotendosi, Sofia ebbe come la vaga sensazione che stesse ascoltando quella litania da alcuni minuti. Sempre concentrata, camminò su e giù per il marciapiede, del tutto incurante delle occhiate o dei commenti dei passanti. La venditrice ambulante sedeva su una cassetta dall’altra parte della strada e, tenendosi bene stretta la mercanzia, non stoglieva lo sguardo da Sofia. Era una vecchietta mingherlina e rinsecchita come una prugna, bassa e ingobbita, con la faccia solcata da rughe che si diramavano in ogni direzione, con le guance incavate sopra le mandibole, probabilmente senza denti, con certe mani nodose e segnate dai calli. Del resto, le mani e la faccia erano le uniche parti visibili in lei, poiché il resto era ben coperto per proteggersi dal freddo sotto vari strati di indumenti di colore, qualità e usura fra i più variegati. Aveva la testa imbacuccata in un fazzoletto pesante e nero, che la vecchia ogni tanto si tirava fin sopra la bocca, soffocando così da sola le monotone parole della litania che andava ripetendo inalterata probabilmente fin dalla mattina, e senza neppure mostrare segni di stanchezza.
Notando di aver attirato l’attenzione di Sofia, la vecchietta intensificò la cantilena. Sovrappensiero, Sofia infilò la mano nella borsa per tirare fuori qualche spicciolo, poi le venne un’idea. Attraversò la stradina, tolse due sacchetti di semi da una seconda cassetta posta vicino alla vecchina e ci si sedette sopra.
– Si sporcherà la gonna, signora, disse questa, interrompendo la sua tiritera.
Da vicino poteva osservare che da sotto il buffo fazzoletto saettavano un paio di occhi grigi. Sofia, slacciando i cordoni del sacchettino, estrasse una moneta d’argento che trattenne un attimo fra le dita quasi non capisse come ci fosse finito lì, poi lo serrò nel pugno. Gli occhi della vecchietta si concentrarono sul pugno chiuso, poi si sollevarono verso il viso di Sofia, con un’espressione d’innocenza.
– Qualcuno che se ne sta qui tutto il giorno, fece Sofia con voce meditativa, può vedere e sentire un sacco di cose.
La vecchietta la fissò negli occhi e attese.
– Si può vedere che tipo di persone transitano per la stradina e dove entrano, continuò Sofia, a bassa voce.
– Come per esempio un uomo abbigliato da borghigiano che è passato per di qua diretto verso la ditta Hangianu.
E Sofia continuò la descrizione dello sconosciuto quanto meglio poté. La vecchietta la ascoltò con attenzione e alla fine scrollò la testa, come se avesse udito qualcosa che si aspettava.
– L’hai visto? domandò Sofia.
La vecchia scrollò di nuovo la testa.
– Lo conosci?
– No… L’ho visto che sarà… una settimana? mi pare – sempre così, arrivava dalla strada ed entrava lì da Hangianu. Non è di queste parti, spiegò lei con l’aria di chi poneva fine a una discussione.
– Puoi venire a scoprire di chi si tratta? domandò Sofia impaziente.
La vecchietta le lanciò un ultimo sguardo indagatore, poi con uno delle sue dita nodose sfiorò leggermente il pugno chiuso nel quale Sofia teneva stretta la moneta. Lei lo aprì e la moneta rimbalzò nel palmo rugoso della donna. Dopo di che, questa, senza proferir una parola, cominciò a raccogliere le sue noccioline e semi in sacchetti di vari colori, che sistemò in varie parti del suo corpo. Poi, facendo segno a Sofia di alzarsi, che l’aveva osservata affascinata, raccolse le due cassette, le infilò una dentro l’altra e scomparve dietro un portone. Lasciata da sola e di nuovo cosciente da ciò che la circondava, Sofia gettò uno sguardo attorno per vedere quanta gente prestasse attenzione allo spettacolo di una signora seduta in strada accanto una venditrice di noccioline. C’erano in effetti un paio di curiosi, due mocciosi con le fionde in mano, una lavandaia con il cesto del bucato, un acquaiolo con la sua botte d’acqua, un ciabattino sulla soglia della sua bottega, un tizio che sembrava essere un garzone di qualche famiglia di boiardi – tutti costoro si erano bloccati nel bel mezzo delle loro occupazioni o avevano interrotto il loro cammino per guardarla e dire la propria. Sofia si strofinò via la polvere dalla gonna e li guardo tutti, uno per uno, negli occhi, finché, a eccezione dei ragazzini con le fionde, smisero di fissarla e ripresero le loro faccende.
La vecchietta, sbarazzatasi delle cassette, si avvicinò a Sofia e, guardandola in su, le domandò:
– Dove devo venire?
– Alla chiesa di San Sava, rispose subito Sofia.
Era abbastanza vicina alla sua abitazione, ci poteva arrivare velocemente, magari più verso sera. La vecchietta fece una smorfia.
– Lì non ci posso stare a vendere semi. Conosco bene il sagrestano, è cattivo come la peste, mi ha già cacciata via una volta…
– Be’, la prossima volta non avrai bisogno di vendere niente, le rispose Sofia leggermente persa nei pensieri.
Proprio in quel momento si era ricordata della cugina Maria, che probabilmente era già nel panico più assoluto. La vecchietta fece una smorfia come a voler dire: perché sprecare l’opportunità di guadagnare qualcosina?, ma annuì e fece per andarsene.
– Ferma! disse trattenendola.
La vecchietta si girò per metà e, da sotto il fazzoletto, la guardò da un solo occhio, scintillante come quello di un uccello.
– Come ti chiami?
– Ilinca mi chiamano, la vecchia Ilinca, rispose e tornò ad avviarsi.
Percorse la breve distanza fino alla ditta Hangianu e Sofia osservò come camminava a passi piccoli e saltellanti, come un passerotto, con una agilità che non si confaceva all’età che dimostrava di avere. Fatto qualche passo oltre il portone, che rimaneva chiuso, la vecchia Ilinca si fermò in un angolino meno esposto al vento per stringersi più forte il fazzoletto sotto il mento e porse ai passanti una mano rinsecchita simile a un artiglio. Sofia la scrutò ancora per qualche istante, poi si girò e ritornò indietro. Prima che potesse allontanarsi troppo, la raggiunse un’altra monotona litania: Che Dio vi abbia in salute… 
Si fermò all’angolo seguente e si guardò intorno. Quando era venuta, era stata talmente assorbita dall’inseguimento da non aver prestato attenzione alle strade che attraversava. L’abitudine di spostarsi sempre in carrozza, si disse con stizza, cercando di orientarsi, aveva di negativo che ti impedisce di imparare a cavarsela da soli quando ne sorge il bisogno. Si avviò lungo una strada che le sembrava vagamente familiare, poi un’altra, ma il paesaggio le sembrava meno noto di prima. Una stradina che pareva quella buona era bloccata da un carro da cui stavano scaricando dei bidoni che dall’aspetto sembravano contenere del catrame. Sofia decise di schivare quella stradina, ma la strada seguente a sinistra era senza uscita. Ritornò sui suoi passi, svoltò alla prossima, che dopo pochi passi si biforcava, svoltò in un’altra strada e poi in un’altra ancora, ma senza aver l’impressione di giungere da qualche parte; era colta da un crescente nervosismo e tentava però di scacciare dal volto l’espressione scocciata per non attirare ulteriormente l’attenzione. Ma l’angolo dopo, per sua grande irritazione, la riportò sulla via dove si trovava la ditta Hangianu.
[…] Non le rimaneva perciò che tentare ancora una di volta di cercare la strada, e ripartì con tutta la determinazione che le era rimasta, quando una voce alle sue spalle pronunciò il suo nome.
Sofia si girò, con il cuore che se lo sentiva pulsare fino al collo. Si trovava faccia a faccia con Alexandru Receanu, l’ultima persona che si augurava di vedere dopo la notte appena trascorsa. Stava scendendo dallo stesso cavallo con il quale era stato tempo prima a Nucet.
– Constato di averla sottovalutata un’altra volta, disse lui in tono gentile, anche se gli occhi la studiavano con freddezza. Qualsiasi delle nostre signore, reduci da un ballo come quello della signora Negru, sarebbe stata lietissima di non smuoversi dal letto prima di mezzogiorno. Lei invece non solo non sente il bisogno di riposo, ma si aggira freneticamente per il quartiere commerciale come se niente fosse. Sofia lo guardò scura in volto. Non aveva nessuna intenzione di rendergli conto delle sue azioni. 
– Ci vuole ben altro che un semplice ballo – disse lei con una freddezza pari a quella di lui – per sentirmi svigorita.
– Ne sono convinto, replicò lui, e un lieve sorriso gli increspò gli angoli delle labbra, senza raggiungere gli occhi. Dal momento tuttavia che questo non è proprio il luogo adatto per una signora sola, perfino per una dai modi poco convenzionali come i suoi, mi permette di accompagnarla fino al luogo che desidera raggiungere?
Sofia si fece ancor più scura in volto. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di poter permettersi di mandarlo a prendere il fresco, ma aveva urgente bisogno di ritornare dalla cugina Maria, la quale dopo tanto tempo probabilmente si trovava nel panico più totale, e a quanto pare da sola sarebbe durata ancora un po’ la ricerca della strada. Cosicché posò leggermente la mano sul suo braccio e gli spiegò dove voleva andare.
Mentre parlava, una parte della sua mente era presa da un altro dubbio. Non le piacevano le coincidenze e la presenza di Receanu in quella via fra tutte quelle esistenti a Bucarest, proprio nel momento in cui lei per caso era sulle orme di un presunto assassino, non le procurava alcun piacere. Con chi mai si era dato appuntamento lo sconosciuto, con Scarlat Resa o con Receanu? Se Receanu non aveva alcun legame con costui, che cosa stava facendo lì? Forse l’aveva seguita o le aveva messo qualcuno alle calcagna? Lanciò un furtivo sguardo al suo profilo impassibile. Sembrava poco probabile, ma neppure impossibile. E, colta da un fulmineo e gelido brivido, si ricordò che nella via, per tutto il tempo che aveva aspettato la vecchia Ilinca, c’era un tizio che dall’aspetto sembrava un garzone di famiglia di boiardi. Aveva bisogno di una conferma. 
[…]
– Ma lei che cercava in questo quartiere privo di eleganza? Non sembra, a prima vista, un posto dove lei venga con molta frequenza.
Lui le gettò uno sguardo che Sofia giudicò, con fastidio, come divertito.
– In effetti non lo è, e ho le mie ragioni per dolermene. Guardi in che stato sono i miei stivali!
Si fermò un istante per mostrarle un piede calzato in un impeccabile stivale di pelle nera tirata a lucido il cui splendore era appena offuscato da alcuni schizzi di fango, e continuò in tono garbato:
– Come lei saprà di sicuro, ho trascorso parecchi anni all’estero e non conosco ancora abbastanza bene Bucarest. È una mia pecca che ho intenzione di correggere e, come direbbe il nostro amico Radu Manea, un dovere patriottico.
– Non ho alcun dubbio che nel frattempo lei abbia memorizzato l’intera cartina di Bucarest, con tutte le sue stradine e tutti i suoi incroci. Ma perché proprio oggi da queste parti?
– Lei mi sta adulando, rispose lui facendole un inchino. Come mai dunque da queste parti? Vediamo un po’. Diciamo che si tratta… di un capriccio. Già, un capriccio dovrebbe bastare come spiegazione. Specie per una donna. Non ci viene detto in tutte le salse che un capriccio è una giustificazione in sé…?
– Se viene da una donna, non nei confronti di una donna, gli rimbeccò Sofia, riconoscendo con dispiacere di non saper più come continuare il discorso, ma soddisfatta comunque della situazione. Mi azzarderei a dire quindi che lei mi concederebbe la cortesia di offrire una spiegazione più intelligente?
– Le concedo, rispose lui piano, la cortesia di reputarla con abbastanza sale in testa da capire che non è il caso che lei si intrometta a ogni costo in faccende che non le competono.
– E che farei meglio a occuparmi di ricami e di feste? continuò lei irritata, sebbene si rendesse conto che si stava comportando in modo tanto irragionevole quanto una donna che non avesse in effetti altre preoccupazioni.
– E anche del podere, rispose lui con calma. Direi che basterebbe a ogni donna.
– Ma, come ha riconosciuto lei stesso, tende a sottovalutarmi, fece lei con sarcasmo.
– Al contrario, disse sospirando e tacque.
Erano giunti a un angolo di strada da dove Sofia poteva vedere l’entrata della bottega di stoffe e la sua carrozza spostata un po’ in là, ma senza la cugina Maria dentro.
– Sospetta che io abbia qualcosa a che fare con la morte di quell’uomo di Nucet, non è vero?
Si fermò piazzandosi davanti a lei e la guardo fissamente, senza più alcuna traccia della frivolezza di poco prima. Sofia, colta di sorpresa da questo improvviso attacco, esitò. Non avrebbe dovuto meravigliarsene comunque, pensò lei in fretta; si era fatta scoprire abbastanza la sera prima; doveva serbare per sé almeno quel poco che sapeva. Rispose come un bambino cocciuto:
– Si chiamava Mitru.
Lui sospirò.
– Da lei mi sarei aspettato molta più franchezza. Non a caso ha dimostrato di esserne capace.
L’allusione a ciò che era accaduto la notte prima la fece arrossire, ma partì al contrattacco con decisione:
– Che cosa otterrei da lei con la franchezza? E, siccome è una qualità che lei sembra di apprezzare, si suppone che lei ne sia pure dotato: vediamo, mi può giurare che lei non c’entra nulla con questa faccenda?
Sul suo viso parve calare una sorta di ghigno, lasciandolo completamente inespressivo. – No, non posso giurarlo.
– N-no? balbettò Sofia, che non si aspettava minimamente una risposta del genere. Allora… chi?
Lui le sorrise, un sorriso che a Sofia parve sinistro.
– Non si aspetterà sul serio che io glielo dica.
– Era un’eventualità, mormorò Sofia, che non riusciva a credere che stesso portando avanti una conversazione come quella nel bel mezzo della strada; poi, d’un tratto, rabbrividendo, fu riconoscente del fatto che c’era gente intorno. Se non ha nulla da nascondere…
– Ma ho un sacco di cose da nascondere, le replicò, continuando a sorridere. In questo come anche in altri casi.
– In altre parole, ricominciò Sofia, che stava per innervosirsi, c’è un’unica cosa che dovrà dirmi. Che farei meglio a non immischiarmi, e questo me l’ha già detto; o voleva forse solo premonirmi riferendosi a qualcosa di concreto?
– Purtroppo questo non rientra nei miei poteri, ma farebbe benissimo a starne lontana. – Se lei crede di poter spaventarmi con simili… cominciò con fervore, ma lui la interruppe, scuotendo la testa.
– Non sono tanto cattivo da mettere spavento alle donne, specie quando dovrebbero ascoltare con la ragione, e non con… nervosismo, non crede? La guardò con occhi indagatori. Cerchi di pensare a quello che le ho detto. Si tolse il cappello e la salutò con un profondo inchino che a Sofia parve ironico, poi salì a cavallo e si allontanò senza dire una parola.
Sofia rimase immobile per un istante, con la fronte corrucciata, poi si avvio a passi lenti verso la carrozza.
– La signora Maria è ancora dentro? domandò al cocchiere. Questi si strinse nelle spalle, con l’aria innocente. Sofia, rammaricandosi ancora una volta del fatto che il carattere di sua cugina rendeva impossibile farsi rispettare dalla servitù, entrò senza molta convinzione nella bottega, dove, come c’era da aspettarsi, di Maria non c’era traccia. Fermò il primo venditore in cui si imbatté.
– Qual è la chiesa più vicina? 

 



A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 2, febbraio 2016, anno VI)