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 |  | «Luntrea lui Caron», il romanzo  postumo di Lucian Blaga
 
  Luntrea lui Caron (Humanitas, Bucarest  1990, 2013): prova letteraria eminentemente autobiografica – il  lettore che abbia una minima conoscenza della biografia del grande poeta e  filosofo di Lăncram (1895-1961) ve ne ritroverà allusione in quasi ogni sua  pagina – il romanzo «de sertar» postumo di Lucian Blaga (dato alle stampe solo  nel 1990, ma preceduto da brani inediti nel 1989 con questo titolo – che non  appartiene all’autore ma che la figlia Dorli approvò – in  «Revista de istorie și teorie literară»  mentre suoi ampi estratti erano già apparsi in varie riviste letterarie nella  seconda metà degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso) lo si legge, e lo si  coglie, più come sequenza di eventi, di pannelli – come in un ciclo pittorico –  atti a illustrare e a esporre narrativamente gli episodi di una vita che come  romanzo inteso nella sua canonica accezione. Proprio per questo suo non facile  incasellamento dentro gli schemi del romanzo, lo si è paragonato a una sorta di  diario personale, di pagine di intime confessioni. Narrato in prima persona  dalla voce, o, potremmo dire, dal doppio e alter-ego dello scrittore, Axente  Creangă – professore di filosofia, allontanato dall’università di Cluj e  degradato («munca de jos» era il termine per indicare l’attività cui erano  relegati gli indesiderati del regime) a bibliotecario in una biblioteca di  provincia, per essere un «nemico del popolo» – e inserito cronologicamente tra  la fine della seconda guerra mondiale (l’affresco narrativo blagiano inizia con  i bombardamenti degli Alleati del 1944) e l’«ossessivo decennio» dello  stalinismo romeno, coincidente perciò con gli anni della maturità dello  scrittore – il romanzo è il racconto in chiave morale e filosofica, con densi  sconfinamenti poetici e meditativi, della tragedia vissuta dall’intellettualità  «borghese» romena – espressa nella trama anche attraverso un ventaglio di  archetipi umani – espulsa e radiata dalla società civile dal nuovo e illiberale  ordine politico che si apprestava a mutare e a stravolgere il destino della  Romania, scardinandone l’assetto sociale e culturale. A tutto ciò assiste da  vittima predestinata l’intellettuale Blaga-Axente Creangă – rischiando anche a  un certo punto di cedere alle sirene comuniste cui riesce però a sottrarsi –,  opponendo a questa situazione la sua integrità di uomo libero e la sua volontà  di non abdicare ai valori che lo sostanziano e ai quali non intende rinunciare.  Su tutto ciò s’innestano altri temi fondamentali e paradigmatici della voce  narrante, come quello erotico-sentimentale; due sono le figure femminili che  s’incrociano nella trama con il protagonista, sposato e padre di una bambina  (altro dato biografico…) – Ana Rareș e Octavia Olteanu – che costituiscono  forse il perno attorno cui gira il romanzo, assieme a quello della natura,  intesa, non a caso, quale paradiso-rifugio «mioritico» (gran parte dell’azione  si svolge infatti nella campagna e fra le montagne della Transilvania), che si  delineano entrambi perciò come spazi salvifici sul cupo sfondo della realtà  storica. Nel brano che offriamo qui per la prima volta in  traduzione italiana viene colto uno dei momenti più significativi e drammatici  del romanzo, quello in cui il simbolismo (che si lega felicemente con il titolo  dato all’opera) della scena da tregenda del pastore-diavolo con il suo branco  di pecore da traghettare che si trasformano in lupi (nell’allucinata visione  del pope Vasile – marito di Octavia, la quale è amante di Axente e che poi si  suiciderà gettandosi nelle acque gelate del Mureș –,  vittima anch’egli del regime e costretto, fra difficoltà economiche, a lavorare  come barcaiolo), precede e si lega all’altra scena all’interno della loro  locanda nella quale i tre personaggi sono protagonisti di un gioco dai risvolti  erotici che supera ogni inibizione, trasformandosi quasi in un panico sfogo  degli istinti e delle intime ossessioni.
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 Frammento da «Luntrea lui Caron»
 XII 
 
 […] Alla vigilia di San Nicola partii da casa  più tardi del solito diretto alla locanda dei barcaioli. Il gelo che era sceso  troppo in anticipo e che era durato una settimana aveva allentato la morsa. Il  vento si era placato già dal mattino. Il cielo si ricoprì di nubi informi,  compatte, di un plumbeo uniforme a coprire tutto l’orizzonte. Nevicava a larghi  fiocchi, all’inizio, ma poi la neve iniziò a scendere placida, gradevole.  L’aria si empì di un denso silenzio, giacché i fiocchi di neve parevano  scendere quasi apposta per smorzare ogni rumore e ondeggiavano qua e là per  raccogliere nella loro molle materia ogni mormorio. Quel giorno non ero uscito  con l’intenzione di recarmi alla locanda. La profusione di cristalli di neve  era come una caccia ai rumori che dovevano essere soffocati a ogni costo. Un  grande silenzio si apprestava a scendere sulla natura. Ma perché? Quel giorno  non ero uscito con l’intenzione di recarmi alla locanda. Ma la quiete dell’aria  e il placido fioccare mi invitavano a mettermi in cammino. La neve fresca si  posava e si rapprendeva dato che la terra era ancora secca per via del gelo di  ieri e dell’altro ieri. Da quando aveva preso a nevicare fino a quell’ora del  pomeriggio, lo strato di neve si era ispessito di un palmo; era soffice e  copriva tutti i paraggi. Le nubi erano scese fino a lambire le creste degli  alberi, da cui i fiocchi si distaccavano all'istante, simili a candide  scintille.Giunsi alla locanda quando era quasi già  buio. Non vidi nessun movimento al guado. Mi avvicinai un attimo per vedere il  corso del Mureș. Un miscuglio di acqua ghiacciata e neve vi  galleggiava abbondante, vorticando su sé stessa. Più giù il fiume aveva formato  uno strato di ghiaccio piuttosto spesso su cui la neve si era solidificata.  Tuttavia non si era creata alcuna placca di ghiaccio; ampi rigagnoli d’acqua  fluivano tra i margini ghiacciati nel vasto letto del Mureș. L’acqua era  cresciuta di livello e debordava qua e là oltre le sponde, fra gli ontani. Il  barcone, immobile, avrebbe potuto svolgere ancora il suo servizio; attendeva i  passeggeri con la prua tirata a riva. Mi guardai intorno, non c’era anima viva.  E tutto odorava di neve fresca. Un puzzo di animale selvatico mi colpì al naso  portato da un alito di vento proveniente dall’aperta campagna.
 Entrai nella locanda. I barcaioli  manifestarono la propria gioia nel vedermi cacciando un lieve grido di  sorpresa.
 «Fuori c’è puzza di lupi!» – furono le  parole che proferii sulla soglia scrollando via la neve dal cappotto. Ed  entrando dilatai le narici per sottolineare il piacere avvertito poco prima  quando lungo il Mureș captai quell’odore di animale selvatico: «Arrivo un po’  tardi, è già buio pesto. Non so come farò a tornare indietro stanotte in questo  deserto di neve! Si aggirano i lupi e non ho proprio voglia di finire  sbranato!»
 «Eh, non dovrai tornare indietro. Passi  la notte qui. La cameretta di nostro figlia è libera. Leila non è venuta ad  Alba per San Nicola, come speravamo. La nevicata le ha messo paura!» Pope  Vasile mi invitava, quindi, senza tanti giri di parole, a rimanere la notte  nella loro locanda.
 «Improvviseremo noi qualcosa per la  cena», aggiunse Octavia, trattenendo a stento la gioia di vedermi arrivare in  modo così inatteso.
 La stufa ardeva. Nella stanza aleggiava  un caldo tepore di campagna. C’era odore di frasche bruciate. I barcaioli non  badavano a spese per il riscaldamento della loro locanda giacché durante i giorni  di mercato molti carri colmi di legno di quercia, portato dai boschi di Daia,  Limba e Ciugud, attraversavano il fiume con il barcone per raggiungere Alba; e  il pope Vasile si faceva pagare in natura.
 Quando entrai, Octavia era distesa su un  divano-letto, e accanto teneva un libro. Era leggermente accesa in volto per  via del suo fervore poetico. Pope Vasile stava aggiustando una catena di cui  probabilmente aveva bisogno al barcone. Rispetto a questa atmosfera  patriarcale, mi dispiaceva portare solo notizie poco incoraggianti.
 Octavia, con la sua immaginazione,  sperava ancora che un mattino, in un modo o nell’altro, dalle dogane del cielo  scendessero gli americani. Si faceva strada in modo esaltato anche la speranza  che ciò avrebbe potuto aver luogo in seguito a una nuova guerra mondiale che  sarebbe durata solo alcune ore, poiché gli americani avrebbero avuto a  disposizione per i loro fini un gas, innocuo, con il quale ci avrebbero  addormentati tutti, ma solo per alcuni giorni, quelli cioè di cui avrebbero  avuto bisogno per occupare i territori senza incontrare alcuna resistenza.  Rispetto a simili fole, facevo notare a Octavia e al pope Vasile che  l’Occidente non era preparato né politicamente, né militarmente e né  diplomaticamente. L’Europa dell’est trovava vantaggio nell’arditezza e nella  menzogna. Gli accordi internazionali verso cui parevano essere inclini gli  occidentali, sempre sulla difensiva, indicavano purtroppo un’evoluzione che  sarebbe durata per lunghissimo tempo. A ogni modo mi ritenevo più addentro alle  questioni diplomatiche e intuivo meglio i retroscena, il più delle volte di  tipo affaristico e di alta complessità, dell’attività politica internazionale  più di quanto potesse riuscirci una poetessa, sorretta dalla sua immaginazione,  nella cui trance lirica trovava voce  ogni desiderio. A quattro o al massimo sei occhi, il mio realismo era tacciato  nella locanda di disfattismo. Mi potevo aspettare solo questo dai barcaioli per  i quali la fede nei miracoli era una condizione esistenziale. […].
 I barcaioli mi ribattevano con i loro  argomenti: stavano accadendo fatti insoliti! Il volto della Madonna era apparsa  sulla finestra di quella tal chiesa in quel tal villaggio. E gli abitanti dei  villaggi accorrevano coprendo centinaia di chilometri, in pellegrinaggio, per  vederlo. Il volto era stato «visto» «con i loro occhi» persino da alcuni  conoscenti che passavano per la loro locanda. Dopo che avevamo esaurito tutti i  nostri argomenti sia da una parte, sia dall’altra, constatavamo tutti e tre con  soddisfazione che a favore delle speranze si potevano portare molti più  argomenti che a favore di quelli disfattisti. E passavamo quindi a questioni  più concrete.
 «Quando sei entrato, dicevi che sentivi  puzza di lupo!», fece il pope, come se volesse invitarmi a confermare quanto  avevo detto. «Ho sentito anch’io puzza di animale selvatico. Dovrò preparare la  pistola. Per evitare che i branchi entrino nel nostro cortile. L’inverno scorso  hanno gironzolato un bel po’ intorno alla locanda».
 «Così mi è sembrato… pareva puzzo di  lupo», ribadii io. Dopo aver terminato di sistemare uno degli anelli della  catena di cui aveva bisogno al barcone, il pope estrasse da un cassetto segreto  dell’armadio una pistola che caricò all’istante davanti a noi senza la minima  esitazione, anzi, con tale destrezza tecnica da far credere che maneggiasse  armi da una vita.
 «Guarda qua come si destreggia il pope  con le armi!», buttai là io sorpreso, «sembra quasi un bandito!»
 La campanella difettosa posta sopra la  porta della stanza in cui ci trovavamo tintinnò con insistenza azionata giù al  barcone. Qualcuno appena arrivato chiamava perché voleva essere traghettato  dall’altra parte. Il pope si infilò la pistola nella tasca sfondata del  cappotto. Accese la lampada con la quale era solito uscire per prestare  servizio durante la notte. Fuori la notte era scesa rapidamente come si poteva  evincere guardando fuori dalla finestra. Sarebbe stato imprudente attraversare  il fiume al buio. Il pope uscì. Io rimasi con Octavia che restò distesa, con  indosso la vestaglia, sul divano-letto. Mi invitò a sedermi un po’ accanto a  lei, perché desiderava dirmi qualcosa.
 «Sai, Vasile si trova di nuovo senza più  un soldo in casa. Deve fare dei pagamenti, a fine anno. Tasse e altre cose. Mi  ha detto di parlartene. Gli ho replicato che non potevo più chiederti un altro  prestito. Si è infuriato come una belva. Probabilmente te lo chiederà lui  stesso. Ti avverto. E ti prego di non dargliene più. I soldi che gli finiscono  in mano li sperpera da quell’ubriacone e scellerato e che è!»
 Mi alzai alquanto seccato: «Sai cosa?  Faresti bene a non immischiarti più nelle faccende di denaro che sorgono tra me  e Vasile!» Così le dissi. «So io che cosa devo fare. Non t’immischiare!»
 La stanza era illuminata da un lume a  petrolio la cui campana di vetro era tutta affumicata. Quando giunsi, l’avevo  trovato acceso. Il divano-letto era immerso nella semioscurità, sfiorato appena  dalla luce riverberata dalla parete. Ma sul divano e sul corpo disteso di  Octavia danzavano più che altro i riflessi prodotti dalle fiamme nella stufa di  ghisa, arroventata in alcuni punti, che ardeva fin quasi a togliere il respiro. Mi sedetti accanto a Octavia. Allungai la  mano quasi in modo automatico verso il suo corpo posandola infine sulla sua  coscia. Il suo corpo fremeva. Anche nella sua voce si avvertiva l’emozione  creata dalla situazione.
 «Che dice il pope Vasile di noi?», le  domandai.
 «Difficile da capire. Evita quasi apposta  di “vedere”, sembra quasi che provi compiacimento in questa incertezza. Il  demonio sfrutta questa situazione a suo favore. Se però gli accadesse un  giorno, inaspettatamente, di vedere, Vasile reagirebbe con durezza, in maniera  del tutto istintiva», mi disse Octavia con voce calma, «si scatenerebbe come  una forza della natura offesa nei suoi diritti. È terribile quando alza le  mani. Talmente terribile che presa dal panico perdo completamente il controllo  di me stessa. Se non mi tenesse ferma in balia delle sue botte, fuggirei via  per gettarmi nel Mureș, anche se sapessi che ci scorre il fuoco!»
 M’incupii all’udire quella confessione.  Non sapevo che le percosse fossero così frequenti e spietate nella locanda. Per  un quarto d’ora circa mi rimuginai dentro. Il mio animo non assecondava più il  ginepraio del mio corpo. Tacevo. Octavia non parlava più. Accondiscendeva alle  mie carezze che desiderava quasi fossero sorte dal cuore del mio cuore. Poi  udimmo i passi del pope in cortile. Tossiva. Era il segnale che si stava  avvicinando. Risuonavano dalla veranda. Seguì poi una lunga pausa, quella che  ci veniva offerta affinché non vedesse. Pope Vasile, entrando, mi trovò  immobile, come se nel frattempo non mi fossi mosso da lì, seduto nella poltrona  accanto al tavolo, a una distanza di due, tre metri dal divano-letto su cui  Octavia spengeva dentro di sé il piacere delle carezze assaporate fin poco  prima.
 «Chi era?», gli domandò Octavia.
 «Il solito ritardatario, il maestro Ilie,  quello che recitava a memoria le tue poesie scritte quando i rossi ci portavano  la libertà! Le tue poesie di allora oggi sembrano esprimere l’autoironia di un  popolo!» Così faceva il pope: quando desiderava il corpo di Octavia, ne  insultava in primo luogo lo spirito.
 E come c’era da aspettarsi, il pope si  avvicinò alla moglie per stringerla a sé. Le sue coccole erano come quelle di  un orso rimbambito. Pareva un fauno vestito da monaco, un orco senza vocazione.  Con vezzi un po’ brutali, rovesciò la moglie verso la parete, come se volesse  cercare anche per sé un angolino accanto a lei. Ma si limitò a sederle di  fianco e, senza altri indugi, sotto i miei occhi, le tirò su la gonna fin sopra  le ginocchia. Mi domandò con un’espressione di depravata e arcana allegria:
 «Che ne dici, Axente, ha delle belle  gambe mia moglie…»
 Quando la rovesciò, le gambe lasciarono  scorgere l’incavo bianco – molle, eccitante – dietro le ginocchia. E allora,  mentre il pope le scopriva con più foga, Octavia cercava di ricoprirle. Ma lui  non la lasciava, e ripeteva la domanda, questa volta con allegria, scosso dalla  loro vista, come stregato, quasi fosse la prima volta che vedesse le gambe nude  di Octavia.
 «Eh», risposi a caso, «peccato che sia  così restia. Per nulla al mondo farebbe sfoggio della sua avvenenza. Sembra  quasi vergognarsene. Quasi che la bellezza fosse un peccato!»
 Il pope sembrava soddisfatto dei miei  apprezzamenti che avevano il merito di scacciare ulteriormente i suoi dubbi. In  tono allegro, scherzoso, prese a tentarmi, come se si industriasse a raccontare  una storia: «Che dai per darci un’occhiata? E quanto daresti se ti facessi  guardare di più?» Vasile sollevò ancor di più con la sua zampa di fauno la  gonna di Octavia, ben al di sopra delle candide ginocchia su cui si scorgeva il  reticolo azzurrognolo delle vene. Conoscevo il morbido contorno delle sue  gambe, le conoscevano non solo i miei occhi ma anche i palmi delle mie mani.  L’Octavia che accarezzavo si trasformava in ricordo epidermico. Guardavo con  una tensione crescente, ma distante, lo spettacolo che sembrava prendere forma.
 «Quanto darei? Mio caro, il gioco e la  sorpresa non si possono quantificare in danaro, ma allenterei i lacci del  borsellino a seconda delle possibilità. Tu solleva ancora un pochino e ti darò  cento lei!», dissi al pope ridendo.  Era ovvio che il pope, trovandosi in ristrettezze, sarebbe stato ben felice di  ricavare un piccolo guadagno o un utile, per insignificante che fosse, da quel  semplice spettacolino offerto senza rischi a occhi che gioivano per tutto quello  che era bello.
 «E se sollevi il vestito perché io possa  vedere le gambe per intero…, te ne do duecento di lei», m’infervorai io per infervorare anche lui.
 «A-ha!», esclamò il pope, voltandosi  verso Octavia: «Dài, svergognata, facciamolo!»
 Octavia mi fissò tesa. Uno strano  pensiero mi attraversò la mente. Era stato un momento di indecisione, poi di  risolutezza. Il suo sguardo non era più lo stesso. Si atteggiava quasi a  vittima del gioco speculativo messo in atto dal marito. E il pope Vasile le denudò  le gambe per intero, fino alla radice delle cosce. Allora Octavia si intromise  nello spettacolo con voce possente:
 «Ma quanto daresti per vedermi tutta  nuda?»
 «Come? Tutta nuda, dalla punta dei  capelli a quella dei piedi?», domandai. «Quanto darei? Guarda, metto sul tavolo  mille lei!»
 «Vasile, io lo faccio!» decise Octavia,  modulando la voce in un tono che voleva sondare il terreno, come a voler  chiedere: «Che ne dici?»
 «Fallo, mia cara, fallo!» la esortò il  pope ridendo, un po’ agitato al pensiero della scena che stava prefigurando  dentro di sé. Il suo incitamento era risoluto fino a un certo punto. Parlava  spronato dalla smania di avidità. Era come se stesse dicendo: «Mille lei non sono affatto da buttar via». Ma  non pronunciava queste parole, le serbava per sé, esternando però pensieri  incoraggianti, adottando una facile prospettiva relativistica: «In fin dei  conti, non ti spoglieresti forse davanti a un medico? E sul finire della  guerra, sulla spiaggia del lago salato di Ocna Sibiului, non ti sei forse fatta  vedere quasi nuda?»
 «Vasile, lo faccio!» ripeteva Octavia per  infondersi coraggio nel compiere il gesto. Era evidente che l’eccitava l’idea  di denudarsi davanti a me e a suo marito.
 La scena che intravedevo mi sferzava il  sangue con rapide scudisciate di fuoco. Per la prima volta avrei visto Octavia  in tutta la sua plasticità. Le sue forme le serbavo frammentariamente ancora da  tempo nel ricordo. Ma l’immaginazione non può comprendere tutto senza gli  occhi. Anche l’occhio attende di cogliere l’immagine nella sua completezza.  L’occasione racchiudeva in sé virtualità ancora non sognate: Octavia si sarebbe  mostrata a me in presenza del marito! Mi lasciai sprofondare per bene nella  poltrona parzialmente sfondata come se mi apprestassi a contemplare un dipinto.  Per facilitare Octavia a compiere il suo gesto, assunsi un contegno serafico  improntato all’estetica pura.
 «Ma stabiliamo dapprima le condizioni,  Octavia», aggiunsi io, «dovrai spogliarti davanti a noi togliendoti tutto  quello che hai indosso. Poi, senza atti inopportuni per supplire alla foglia di  fico e lasciando da parte ogni pudore, vieni verso di me. Arrivata davanti a  me, ti giri. Voglio vederti anche di spalle. E dopo raggiungerai lentamente,  senza fretta, il punto da dove ora comincerai a svestirti!»
 «Vasile, Vasile, Vasile, lo faccio!»  disse lei per la terza volta.
 «Fallo, cara, fallo», la esortò lui con  un cenno della mano che poteva significare: «Ma che m’importa! Che scorrano i  soldi!» L’impazienza di vedere i mille lei sul tavolo gli faceva tremare la voce. Ma nella sua risata contenuta vibrava  anche una qualche perplessità.
 Ciò che stava per accadere era totalmente  fuori dell’usuale. La scena era il frutto di una improvvisazione, giunta  inaspettatamente senza che nessuno di noi avesse mai pensato che una cosa del  genere sarebbe mai potuta accadere. Octavia si alzò dal divano quasi saltando.  Un tremore nervoso le attraversò tutto il corpo al pensiero di ciò che si stava  apprestando a fare. Gettò la vestaglia. Poi, una per volta, la camicetta, la  gonna, rimanendo solo in una corta sottoveste; si sfilò, senza piegarsi, le  scarpe da casa aiutandosi con il piede. Si tolse le mutandine, che piegò e pose  sul divano. Le mutandine sembravano la pelle della muta di un serpente. Slacciò  i collant dal reggicalze, che si tolse da sotto la sottoveste e che lasciò  cadere a terra; alzò una gamba per sfilare il collant, e così fece anche con  l’altro. Poi si levò la sottoveste passandola sopra la testa, rimanendo  completamente nuda. Questo cerimoniale fu accompagnato dai grugniti del pope,  che pareva sorpreso da ogni singolo gesto di sua moglie. Non aveva mai  assistito con tanta lucidità ed ebbrezza a tale serie impudica di gesti. Nudità  che avevo palpato e visto prima in segreto e di volta in volta, in modo  frammentario, nel tempo, si presentavano ora davanti a me riunite in un’unica  forma completa, come un dono dello spazio. L’armonia delle membra costituiva  una sorpresa. Ed era una sorpresa soprattutto la forma a melograna dei seni che  risultavano inusualmente sodi. Octavia avanzò dal divano verso di me,  guardandomi tesa in viso, appena corrucciata e con le labbra socchiuse: «Che il  diavolo o un cattivo pensiero non ti facciano allungare le mani!» mi disse,  ricordandomi quali erano le condizioni d’onore accettate per quello spettacolo,  sebbene, a mia memoria, fra noi non si fosse parlato di questo. Non riuscii a  trovare le parole per risponderle, perché non volevo che mi sfuggisse neanche  un istante dello sfoggio della sua bellezza.
 Anche il pope, in qualche modo, prendeva  parte allo spettacolo. Colto da un’esaltazione che scaturiva in lui da  preistoriche vite tribali, iniziò a saltare attorno al nudo femminile in  movimento. Assalito da uno slancio animale, il pope piroettava, ora a manca,  ora a destra di Octavia che avanzava. L’intensità dei saltelli era superiore  solo a quella degli sghignazzi. Con la sua barba fulva, il pope assomigliava a  un caprone in grado di ridere e di ululare come gli uomini primitivi. Octavia  si fermò un istante davanti a me. Sedevo immobile nella poltrona di fianco al  tavolo, placando la calda tempesta del sangue esibendo un serafico sorriso. Poi  la donna si girò dandomi le spalle. Mi mostrò sinuosità della cui bellezza non  sapevo se fosse cosciente. In quel momento cedetti alla tentazione. Le  appioppai uno schiaffetto sulle natiche carnose. Il pope mi vide e, udendo il  suono eccitante sortito dal corpo della donna colpito teneramente dalla mia  mano, cavò un salto enorme sul posto, le sue convulse risate si trasformarono  in un prolungato ruggito: in quel momento aveva davvero l’aspetto di un fauno  gigantesco in balia di un’esuberanza animale. Il corpo nudo avanzò ciondolando,  senza ostentazione, in modo naturale fino al divano. Octavia accettò il tenero  colpetto di mano senza manifestare alcuna irritazione per il fatto di essermi  lasciato andare a un momento di frivolezza. Si rivestì. Seguivo le fasi  elaborate della vestizione, dato che mi offrivano una nuova visione. Octavia,  alla fine, fu vinta dal pudore. Si rimise i vestiti dandomi la schiena.
 Tirai fuori di tasca i mille lei e li posai sul tavolo. Il pope si  precipitò per afferrarli. Mentre si infilava i collant, Octavia protestò:  «Calmati, mio caro, quello è ciò che ho guadagnato io! Giù le mani!» La  protesta di Octavia era più che altro formale; voleva sottolineare in qualche  maniera il proprio merito nell’aver ottenuto quei soldi. Quella somma così  inattesa significava qualcosa per il pope. Octavia calcò con forza le parole  proprio perché Vasile la sentisse e ne apprezzasse la solerzia. Mentre si  infilava la banconota ripiegata in una tasca segreta, il pope cercò di  accertarsi in maniera chiara, per totale sicurezza, circa la qualità  dell’introito per il quale aveva grondato sudore senza risparmiarsi.
 «Spero che questi soldi tu non li  ritenga... un prestito?!»
 «No, pope! Questo è quello che ha  guadagnato Octavia. L’obolo per lo spettacolo!»
 Octavia continuava a vestirsi a gesti  lenti. Sembrava che volesse prolungare la delizia per i miei occhi. Seduta sul  bordo del divano, indugiò ancora un poco per recuperare la sottoveste sicché io  potei perdermi ancora, sprofondando in quella visione, assalito da sentimenti  equivoci. Il pope notò i suoi movimenti rallentati come anche il persistere dei  miei sguardi. «Su, forza, finisci una buona volta!», le ordinò come a voler  apostrofarla; «Svergognata, a tanto sei arrivata? Fai soldi mostrandoti nuda?»  Pareva che si fosse già dimenticato che era stato lui a intascarsi la banconota.
 Si fece l’ora di cena. […] Durante la cena  ci perdemmo in chiacchiere. Mi soffermavo su tutto quello che mi passava per la  testa. Il pope beveva da solo, irrequieto, bicchiere dopo bicchiere, un vino  forte portato da Șard. Lo assaggiai anch’io. Ne assaggiò un po’ anche Octavia.  Ma la sete del pope metteva paura. Dissi: «Buono il vinello amabile  accompagnato da una donna amarognola!» «Come anche il vino amarognolo  accompagnato da una donna amabile!» rispose il pope fissando con lo sguardo  Octavia. Riverberavano ancora in me gli echi della scena di poco prima. Ma  finimmo per parlare anche di cupi argomenti. E con essi entrarono nella  conversazione discorsi inquietanti e tenebrosi. Come quello circa alcune voci  che circolavano con insistenza di bocca in bocca: che ci sarebbero stati altri  arresti di massa, che le persone sarebbero state portate a lavorare  «volontariamente» al cantiere del Canale Danubio-Mar Nero. Terribili erano le  notizie che giungevano da là assieme alla buriana.
 «Lo sapete che cos’è il Canale Danubio-Mar  Nero?» domandai loro. «La tomba della borghesia e della nostra intellettualità!  Eh, chi lo sa! Magari ci siamo anche noi sulla lista degli arresti che stanno  per eseguire!»
 «Lasciamo stare!» intervenne Octavia  palesemente scossa dal pensiero attraverso cui passava probabilmente il ricordo  di tutte le imprudenze appena compiute. Quante volte si era lasciata andare  alle chiacchiere riponendo una fiducia smodata in qualsiasi essere dalle  sembianze umane? Quanti fra coloro che erano passati da lì e che lei aveva  ospitato, ingenua e senza sospettare di nulla, erano agenti della Securitate?
 Continuammo a parlare fin quasi la  mezzanotte. […] Ma si sentirono dei passi in cortile. Poi in veranda. La paura  ci mozzò le parole in gola: chi mai poteva arrivare al guado a quell’ora così  fonda della notte? E quegli istanti che trascorsero ci sembrarono infiniti. Di  chi erano i passi che si erano sentiti in veranda? Erano forse quelli con le  liste che raccoglievano «volontari» per spedirli al Canale Danubio-Mar Nero? I  cuori ci pulsavano all’impazzata. Qualcuno bussò alla porta.
 Ma ecco che a entrare era un semplice  pastore, un pastore come tanti altri. Aveva il montone zuppo di neve. «Buona  sera! Chiedo scusa se mi son permesso di bussare a quest’ora! Dev’essere tardissimo,  quasi mezzanotte, ma non avevo scelta. Sono qui con il branco di pecore. Ne ho  circa duemila e vorrei portarle di là del Mureș!» Il pastore  aveva nel tono della voce qualcosa di umile e di protervo allo stesso tempo e  un aspetto un po’ strano. Smunto. Gli brillavano gli occhi. Almeno da dove  sedevo io, gli si vedevano brillare gli occhi. Erano fosforescenti, come quelli  di una fiera e di altri animali. Il pope Vasile pareva spiacevolmente sorpreso  da questa visita notturna.
 «E hai un bel dire! Duemila pecore?  Trasbordartele col sudore della mia fronte? Perché mi ricordi che il lavoro è  una maledizione! La fatica di una notte intera! Ma perché non hai provato a  raggiungere Alba attraversando il ponte grande di Partoș?»
 «Come se non ci avessi provato! Verso  sera il fiume se l’è portato via. Che baraonda e che ressa c’erano. È per  questo che ho fatto così tardi!» rispose il pastore.
 «Davvero? Come? Il Mureș si è insuperbito  tanto da trascinarsi via il ponte? Che notizia stupefacente. Allora ne arriveranno  degli altri per passare con il barcone. E quelli che sono arrivati in macchina  che faranno? Sono rimasti tutti bloccati nella neve ad Alba? Tu sei il primo ad  arrivare. Un pastore. Con duemila pecore?! Che strano. Non mi è mai capitato di  traghettare duemila pecore!» Così diceva il pope. E pareva quasi fare  mentalmente due rapidi calcoli, calcoli in cui entravano l’area del barcone e  la stazza di una pecora. «Abbiamo da sgobbare fino all’alba. Ma com’è che hai  duemila pecore e non si sente neanche un belato? Dove hai nascosto quei mucchi  di lana?»
 «Fuori c’è puzza di lupo. E quando c’è  puzzo di lupo non bela neanche una pecora. Sono tutte qua sul campo, vicino al  guado.» […]
 Il pope si accese la lanterna. Pur dopo  aver tracannato vari bicchieri di vino, si teneva ancora in piedi. Ma che cosa  sarebbe successo se avessero incominciato a far sentire il loro effetto una  volta che si sarebbe trovato sul barcone? Vasile si immerse nella notte seguito  dal pastore. Dalla soglia, il pastore puntò i suoi enormi occhi su di me e su  Octavia, come a voler domandarci: «Vi piace così?» Dopo che i due furono  usciti, Octavia mi sussurrò: «Hai visto come ci ha guardato?»
 […] Non appena si precipitò fuori  nell’oscurità, il pastore si mise a spingere il branco con fischi e sibili  penetranti. Non si udiva un solo belato. E neppure un campanaccio. Non si udiva  alcun tipo di rumore, solo fischi e sibili come non ne avevo mai sentiti prima  di simili.
 «Tu credi che questo sia un branco?»  domandai a Octavia. «Duemila pecore e tutto questo silenzio? Gli si sono spenti  i belati in gola? O sono solo ombre condotte da Caronte?»
 Octavia mi si avvicinò, fermandosi  davanti a me. Le passai un braccio attorno ai fianchi. Lei mi passò una mano  fra i capelli, guardandomi. Octavia era vera o solo un’ombra?
 «Fa’ la brava!» le dissi, «Vasile, per un  motivo qualsiasi, potrebbe ritornare all’improvviso. Che  ne dici del suo zampettare da fauno?»
 «A me interesserebbe molto di più sapere  che ne pensi tu dello spettacolino di poco fa…» Octavia continuava a tenermi la  mano fra i capelli: «Sto pensando a una cosa…!» La donna amarognola mi posò le  labbra sulla bocca. Per dimostrarmi qualcosa. Non era un’ombra, era vera.
 «Controllati», le dissi, «non è il  momento».
 «Lo so anch’io benissimo che non si può»,  rispose Octavia sognante. «Anche se il pastore pare sia capitato a proposito…  strana apparizione! Ha fatto in modo che noi rimanessimo in questa  semioscurità. Perché hai abbassato così tanto lo stoppino del lume? Vasile si  agita sospettando di noi». Mi difesi vagamente con il braccio dalla vicinanza  di Octavia.
 «Poco fa pensavo a… qualcosa. Ma…» Con  queste parole Octavia pareva volesse allontanarsi; ma nello stesso istante mi  si sedette sulle ginocchia, stringendosi a me con tutta la forza.
 Fuori erano ancora udibili i sibili del  pastore.
 «Come se la caverà Vasile con tutto  questo branco?» mi domandai da solo. O me l’ero domandato… ad alta voce? Sì,  perché Octavia rispose: «Lo terrà occupato per tutta la notte!» La donna  fremeva tra le mie braccia. Poi mi sussurrò all’orecchio come una tiepida  brezza. «È ora che tu ti ritiri, nella tua stanza».
 «Vai a letto anche tu?» le domandai, «o  vuoi aspettarlo?»
 «Aspettarlo? Io? Che ti passa per la  testa? No, caro mio, cercherò di addormentarmi. E per Vasile dormirò come un  ghiro». Octavia si alzò dalle mie ginocchia. Si diresse verso il divano, tirò  il paravento e si accinse a prepararsi per coricarsi.
 «Il tuo letto è già pronto. Puoi  passare», disse, caricando la voce con un tono provocante, ma quasi  impercettibile.
 Mi scostai un istante da dietro il  paravento. Octavia si sistemò davanti a me, in piedi, tenendomi la testa fra le  sue braccia. La afferrai anch’io per i fianchi. Si lasciò penzolare al collo con  tutto il peso, tirandomi giù e sedendosi sul bordo del divano. Ma mi sciolsi  dalla sua stretta con forza: «Un’altra volta! Buona notte!»
 […]
 Lo sentii gridare: «Ottavia!» Ma lei non  era nel suo letto. «Ottavia!» Il pope si diresse verso la mia stanzetta. Si  immaginava certamente che Octavia si trovasse lì con me. Si fermò davanti alla  porta chiusa della mia stanzetta.  Pareva  stesse ascoltando. Non mi mossi. Il pope aprì la porta, ma allo stesso tempo  sembrava si fosse già dimenticato di Octavia. Urlava come in delirio: «Axente!  Ascolta, Axente! Quell’uomo non era un pastore! Era il diavolo! Quando sono  uscito con lui, fuori ho visto un pigia-pigia di lupi! Quattromila occhi di  fuoco si sono girati verso di me! Ah! Duemila pecore, diceva il pastore, ma erano  duemila lupi! Il branco del Diavolo era riunito intorno al guado e alla casa. E  il Diavolo mi ha fatto segno di tacere. Con i brividi lungo la schiena, sono  andato dietro al Diavolo con la lanterna, come ai suoi comandi. Axente!  Ascolta, Axente! Il pastore è sceso per primo al barcone. Ho appeso la lanterna  al palo sulla sponda. I lupi si sono precipiti per trovare posto sul barcone, a  balzi, uno dopo l’altro. Il diavolo pastore teneva la mano tesa mentre  saltavano e… che cosa ti vedo? I lupi, atterrando sul barcone, si facevano  piccoli come topi. I loro occhi scintillavano intensamente. Il barcone si è  riempito di lupi, tanto che non c’era più spazio per gli altri. Allora ho  poggiato anch’io il piede sul barcone e sono saltato su, per spingerlo con il badile.  Lo metto in movimento con fatica per via dello spesso strato di ghiaccio. Siamo  partiti! Axente! Ascolta, Axente! Sto tremando in tutto il corpo! Quando, in  mezzo al silenzio, siamo arrivarti dall’altra parte, i lupi, come topi, sono  saltati sotto il braccio teso del pastore! Ma non era un pastore, Axente! E al  toccare terra saltando sulla riva, quegli esseri tornavano di nuovo alle loro  dimensioni: lupi, dei veri lupi come tutti gli altri! Credo di averne  traghettati alcune centinaia nel primo carico. Facendo un calcolo, per  trasportare tutto il branco sarebbero serviti sette, otto passaggi. E così è  stato! E ogni volta il Diavolo-pastore ritornava indietro con me, per essermi  d’aiuto sul barcone, per accorciare i tempi, facendo rimpicciolire i lupi. Che  avventura! E che paura! Axente! Axente, mi stai ascoltando? Era il Diavolo! Il  Diavolo! Capisci?»
 Rimasi immobile al buio nel mio letto.  L’eccitazione del pope cominciava a contagiare anche me, io che avevo il  pensiero rivolto più a Octavia che ad altro. Nell’oscurità però non riuscivo a  vedere neppure la sagoma del pope:
 «Sto ascoltando, pope, sto ascoltando. Ma  ti prego, dammi un istante per svegliarmi! Non avrai la febbre, pope? Che vai  raccontando? Tutto sembra un sogno, un incubo, un delirio».
 «Non ho avuto le traveggole, Axente!  Incubo… dici? Ho traghettato con il barcone il diavolo e duemila lupi! E questi  sarebbero… deliri!? Sogno, incubo, delirio!» Il pope raccontava gridando come  se mi stesse riferendo i fatti da lontano, dall’altra sponda del Mureș, il che  non poteva spiegarsi se non per effetto del suo sovreccitamento.
 «Hai sentito, Octavia? Questo signore,  Axente l’infedele, non ci crede! Lui crede che siano delirio e allucinazione!»  Con queste parole il pope si precipitò di nuovo nella stanza grande. Frugò in  un cassetto. Trovò dei fiammiferi, accese il lume: «Hai sentito, Octavia?» Ma  Octavia non rispose. Il pope andò dietro il paravento. Nel vedere il letto, si  fermò: «Ma dove sei, Octavia?»
 Mi alzai in fretta dal letto. Chiusi, al  buio, dall’interno la finestra che Octavia aveva lasciato con gli scuri  leggermente socchiusi dopo che era uscita. Accesi la candela che stava sul  tavolo. Il pope ricomparve sulla soglia della stanzetta: «Dov’è Octavia?»  Respirava rassicurato nel vedere che Octavia non si trovava nella mia  stanzetta.
 «E io che ne so?» risposi smarrito,  «quando è uscita per andare al guado, io sono andato a letto. Mi sono svegliato  poco fa, quando hai sparato il colpo di pistola. Ma che ti è preso per sparare  in veranda? Octavia non è lì intorno? Sarà uscita a prendere aria. Si sarà  sentita male per il caldo eccessivo! Lascia che mi vesta. È troppo quello ti  sei inventato! Ma quali lupi, Vasile! Ma quale Diavolo, Vasile! Svegliati!  Basta con queste cose infantili e con queste fantasie! D’altro canto sappi che  anche il mio sonno è stato un incubo. Chi diavolo vi ha detto di riscaldare la  casa così… che quasi prende fuoco, sul serio!»
 Mi vestii un po’ confuso e senza riuscire  a dominare il mio tremore. Attesi tesissimo di sentire Octavia entrare  finalmente nella stanza grande, provenendo dall’esterno. Ma non comparve.
 […]
 «Si sarà sentita male! Tornerà! Eh, così  sentirà anche lei quello che è successo la notte di San Nicola nella locanda  dei barcaioli! Fandonie da donna, dici? Erano i lupi e il Diavolo!»
 […]
 Entrammo nella stanza grande. Il pope si  diresse di nuovo dietro il paravento: «Che è successo a Octavia? Dov’è Octavia?  Vieni a vedere! Qui ci sono i suoi vestiti, sparsi sulle sedie!»
 Andai anch’io dietro il paravento. In  effetti tutti i suoi vestiti, dalla gonna alle scarpe di feltro, dalla  camicetta alla vestaglia erano gettati lì, alla rinfusa, su una sedia e su uno  sgabello.
 «Come ha fatto a uscire? Si sarà nascosta  da qualche parte?!» E il pope cominciò a cercare agitato dentro l’armadio,  negli angoli, dietro i mucchi di sacchi lungo il corridoio cieco. Iniziai a  tessere anch’io stupefatto la mia rete di supposizioni e dubbi. Ossia, Octavia,  quando entrò da me, non aveva lasciato la vestaglia sulla poltrona, come avevo  immaginato. Era entrata nuda nella stanzetta. Dopo il colpo di pistola uscì  quindi così com’era dalla finestra.
 Il pope entrò nella stanzetta illuminata  da un moccolo di candela. Nella stanzetta dove avevo dormito. Preso  dall’agitazione, guardò sotto il letto: «Non è neppure qui!»
 «Pope Vasile, non credi che dovremmo  andare a cercarla fuori?»
 «Ma come ha fatto a uscire? Senza niente  addosso?»
 Scrollai le spalle. Il pope prese la  lanterna, che fumicava ancora accanto all’uscio, in veranda. Uscimmo. Mi  sentivo sussultare il cuore come in una danza frenetica. Il cortile era coperto  ovunque dalla neve. Vedemmo delle impronte, in successione, impresse nella  soffice neve che si dirigevano dalla rimessa all’orto. Il pope abbassò la  lanterna e scrutò con attenzione: «Impronte di piedi nudi!»
 Come un segugio che trova una pista, il pope  seguì come impazzito le orme. Gli andai dietro come un automa. Incominciai a  intuire tutta la tragedia. Arrivammo all’orto. Le impronte ci conducevano fino  alla staccionata sul fondo. Scavalcammo la bassa staccionata fatta di canne,  penetrammo fra i cespugli del sottobosco che si estendeva fino al corso del  Mureș. L’ultima impronta era proprio sulla riva, come un sigillo impresso sulla  terra. Da lì Octavia aveva potuto gettarsi in acqua e sprofondare sotto il  ghiaccio. Il ghiaccio copriva il fiume in tutta la sua estensione, interrotto  solo da lastre più sottili che aveva creato stretti alvei fra la neve che si  era depositata sul freddo carapace d’acqua.
  
 ©Humanitas, 1990
 
 
 
 
 A cura e traduzione  di Mauro Barindi(n. 10,   ottobre 2015,  anno V)
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