Mircea Vulcănescu e la dimensione romena dell’esistenza

Tra le tante personalità che animarono il dibattito culturale romeno tra le due guerre, un posto di sicuro rilievo occupa la figura di Mircea Vulcănescu. Intellettuale poliedrico e carismatico, la sua produzione letteraria ha indagato diverse sfere del sapere umano, spaziando dalla filosofia alla sociologia. Il drammatico esito della sua esistenza – morto a 48 anni nel carcere di Aiud, dopo una condanna ad otto anni di detenzione a causa della sua adesione al governo Antonescu – ha lasciato una traccia indelebile nella memoria degli amici con cui partecipò attivamente ai dibattiti dei giovani intellettuali bucarestini. In una lettera inviata il 20 Gennaio 1966 a Viorica Maria Elena, figlia di Vulcănescu, Emil Cioran offre un ritratto commovente del padre: «sia che parlasse di finanza o di teologia, egli emanava un potere e una luce che non riesco a definire. Non voglio fare di suo padre un santo, ma in un qualche modo lo era» [1].
Nato nel 1904 a Bucarest, frequenta i corsi universitari di Diritto e Filosofia sotto la guida di Nae Ionescu e di Dimitrie Gusti, a cui dedicherà nel 1937 una monografia dal titolo Gusti şi scoala sociologică de la Bucureşti. Durante gli anni di studio si interessa alla corrente fenomenologica ed esistenzialista, collaborando soprattutto con la rivista Gândirea e partecipando attivamente ai simposi dell’associazione Criterion. Tra le opere pubblicate in vita, ricordiamo soprattutto Teoria şi sociologia vieţii economice e Cele două Românii, edite entrambe nel 1932. Rilevante fu il lavoro svolto per la pubblicazione del corso di filosofia della religione tenuto dal suo maestro Nae Ionescu durante l’anno accademico 1924-1925 (Curs de filosofie a religiei), di cui ne curò la postfazione. Tra le pubblicazioni postume annoveriamo i Prolegomene sociologice la satul românesc (1997), la raccolta di scritti dedicata all’influente professore di logica dell’università di Bucarest (Nae Ionescu aşa cum l-am cunoscut, 1992) e l’edizione in due volumi delle Opere (2005) curata da Marin Diaconu.

Il testo che segue è la traduzione di alcuni passaggi rilevanti di Dimensiunea românească a existenţei (1943), saggio che tenta di dare un’interpretazione filosofica alla visione romena del mondo, attraverso una ricognizione fenomenologica e filologica della sua cultura e del suo linguaggio. Lo scritto si inserisce nel più ampio progetto dedicato allo studio del destino dell’uomo romeno nel cosmo, che occupò Vulcănescu tra la fine degli anni ’30 e l’inizio del decennio successivo. Due interventi importanti anticiparono difatti la ricerca sulla dimensione romena dell’esistenza: Omul românesc (1937) e Ispita dacică (1941). Il problema dibattuto in questi scritti fu affrontato anche dal filosofo Constantin Noica, che in diverse riviste letterarie pubblicò articoli sul medesimo argomento: Sufletul românesc şi muzica (1942), Pentru o altă istorie a gândirii româneşti (1943) e Cum gândeşte poporul român (1944) [2].
Non stupisce che l’autore abbia voluto dedicare La dimensione romena dell’esistenza [3] ad Emil Cioran, il quale per lungo tempo fu assillato dal «problema romeno», dall’appartenere ad una cultura minore e ad un popolo a-storico, covando per questo un profondo senso di risentimento verso il proprio paese. Sarà il Cioran maturo, ormai distante dalle illusioni politiche di gioventù, a ritrovare nel suo pensiero l’eco di una saggezza fatalista che per secoli ha abitato la visione romena del mondo. Come scrive Sanda Stolojan, nella postfazione a Lacrime e Santi: «Il sarcasmo che spesso Cioran dirige contro le proprie tentazioni […] cela una forma di derisione sottile, fioritura di quella derisione balcanico-latina che in romeno è detta zeflemea. Le sue rabbie e rassegnazioni sono l’eco di uno spirito polemico e rinunciatario, due caratteristiche in cui Mircea Vulcănescu, in un saggio rimasto celebre su La dimensione romena dell’esistenza, vedeva una delle chiavi dell’anima romena. […] Lo spirito romeno, dopo aver attaccato con virulenza l’avversario (uomo, Storia, parole), e averlo annientato, si rassegna, ripiombando in un fatalismo che gli è peculiare» [4].
Vulcănescu offre al lettore una sottile ermeneutica dell’anima romena, scorgendo nell’a-temporale la dimensione caratteristica del suo popolo. Il romeno si nutre di una sensibilità orientale nel suo stare al mondo, opponendo al volontarismo e al pragmatismo dell’uomo occidentale una visione ciclica delle cose, una saggezza mioritica. L’autore sottolinea come la negazione romena del reale non abbia la stessa forza ed efficacia che essa svolge nel pensiero occidentale: si pensi ad esempio allo storicismo, che proprio nel negativo individua il fattore di trasformazione storica della realtà esterna. L’evanescenza e la leggerezza della negazione romena si ripercuote in tutti gli ambiti dell’esistenza concreta, sancendo il primato del possibile sull’attuale, dell’a-storico sul temporale, della contemplazione sulla prassi.  


Frammenti da «Dimensiunea românească a existenţei»


Il senso peculiare della negazione romena è ricco di implicazioni. Il modo particolare di intendere la negazione si rispecchia in pieno nelle modalità dell’esistenza. È sotto questo aspetto che si dà per il romeno una specie di fusione tra esistenza e possibilità, molto interessante per la sfumatura che essa dona alla realtà del mondo. Per costui, tutto ciò che può essere – ovvero tutto ciò che può essere pensato – è. Si è soltanto in un qualche modo, in una data forma di esistenza, poiché quest’ultima non è che regionale, relativa. Ma nonostante tutto si è. Così come sono tutte le cose. Tale impercettibile passaggio dal piano dell’esistente a quello del possibile è ciò che riempie di poesia, di libertà e di irrealtà l’esistenza romena, e avvicina la veglia del romeno al sogno, a un sogno interiore, senza fine, che da un punto di vista filosofico pone la mentalità a un livello non solo pre-critico, ma perfino antipositivistico e mitico.
Le conseguenze della fusione dell’esistenza in possibilità sono molto importanti per comprendere le attitudini essenziali del romeno verso la vita. Come prima cosa, non esiste il nulla; in secondo luogo, non si dà l’impossibilità assoluta; come terzo punto, non esiste un’alternativa esistenziale; come quarto, non esiste l’imperativo; come quinto, infine, non si dà l’irrimediabile.
Si tratta di affermazioni di grande rilevanza per poter stabilire il profilo dell’uomo romeno nel cosmo.

1. Non esiste il nulla

L’inesistenza del nulla può essere facilmente compresa da ciò che si è detto finora. L’idea del nulla non detiene un piano universale di esistenza. Essa è priva di contenuto, nel senso che del nulla non si può dire che esso «non è» in modo assoluto, […]. A maggior ragione quando si parla di «fine del mondo», intendendo con ciò la cessazione del mondo intero, si è obbligati a considerarlo in virtù della sua natura singolare, individualizzata, quale creazione di un essere più potente e vasto, che lo ha preceduto e che lo segue, senza inizio e senza fine. Soltanto in relazione a un essere di tal natura la fine del mondo può avere un senso […]. La negazione dell’esistenza detiene dunque un valore derivato e non assoluto, implicitamente connesso a una realtà che la precede e che – dato il carattere evanescente della negazione di cui ho parlato – le sopravvive ontologicamente. […]

2. Non esiste l’impossibilità assoluta

Un effetto immediato di tale leggerezza della negazione è l’inesistenza, per il romeno, dell’impossibilità assoluta. Dal momento in cui l’esistere detiene un carattere fondamentalmente regionale – e la negazione non può che mettere in discussione il solo modo di essere, ma non il fatto stesso di essere – si intuisce che non esiste l’impossibilità assoluta. […] Il romeno possiede la coscienza, come ogni orientale, che la realtà visibile non sia altro che una parte – per giunta anche la meno nobile – di ciò che esiste. Al di là del concreto c’è il possibile e l’antico divenire, lungi dal rappresentare un’armonizzazione dell’essere, si rivela al contrario una riduzione delle sue possibilità, una «caduta nel cosmo» – come affermava un mio professore [5]. Alla radice della concezione romena dell’essere, troviamo la supremazia del virtuale sull’attuale. […] In questo senso, il pensiero romeno è in sintonia con le riflessioni teologiche e mitiche di origine orientale, opponendosi a quelle occidentali, di natura positivista e antropologica. E’ sufficiente pensare che l’idea del divenire nel mondo – l’accumulazione di manifestazioni ed esperienze che secondo l’occidentale arricchiscono il destino dell’io – sia in fondo, per il romeno, una diminuzione d’essenza, una riduzione di possibilità, […]. Ciò forse aiuta a capire perché il romeno sia così sensibile all’insuccesso dei suoi sforzi, […] perché nessuna disillusione non interviene ad alterare la sua virtù circa il senso delle cose. […]

3. Non esiste un’alternativa. Cosa ci insegnano i tempi verbali

Il predominare dell’ipotetico sul categorico e sul disgiuntivo è visibile nel grado d’intensità con cui sono vissuti, nel linguaggio, i tempi verbali. Il carattere essenzialmente evanescente del romeno è spesso evidenziato da quelle forme verbali che rimandano ad un condizionale possibile oppure futuro: «Cosa sarebbe stato, se fosse successo diversamente da come è stato?», che l’orientamento attualista della metafisica condanna con l’espressione latina: Factum fieri infectum non potest, […]. Tali designazioni ipotetiche – riguardo a ciò che sarebbe dovuto essere o che si sarebbe dovuto fare – sono molto più forti rispetto alle riflessioni su quello che debba essere fatto in futuro. Per tale ragione l’ottativo diviene, in lingua romena, il modo privilegiato del verbo, sostituendosi con il suo spirito a tutti gli altri tempi. […] Queste considerazioni confermano chiaramente una certa indeterminatezza nell’agire e la prevalenza del possibile sul determinato […]. Ma se le cose vengono vissute molto più sotto l’aspetto delle possibilità che sotto quello delle realtà pratiche, quale valore può ancora avere l’alternativa? E che senso ha la decisione? In realtà decidere, optare, ha senso solo in un mondo in cui la possibilità sia in stretta relazione con la presenza, in cui l’atto sceglie le possibilità da compiere. Al contrario, la consapevolezza che l’esistenza sia una possibilità, che tutti i suoi piani siano equivalenti per il pensiero e che sia sufficiente semplicemente pensarli affinché si diano, conduce alla soppressione inevitabile del senso esistenziale dell’alternativa: […] In un simile mondo di possibilità, la decisione non può che avere un significato dianoetico, simile a quello della negazione, inteso come limite logico, opposizione astratta di possibilità. Non dobbiamo meravigliarci, dunque, se la scelta tra alternative, che caratterizza la decisione, sia chiamata in romeno hotărâre, termine che presuppone la funzione dei limiti, dei margini.

4. Non esiste l’imperativo

Da tutto ciò deriva per il romeno un diverso significato dell’imperativo. La cosa appare evidente comparando il Fiat! latino con il Să fie (così sia) della lingua romena. Così dicendo, il romeno non manifesta alcuna delle velleità demiurgiche proprie dell’imperativo latino. Non esprime un ordine, non proclama la volontà di realizzare qualcosa, non decreta alcunché; piuttosto accetta quello che accade, acconsente, come se dicesse esplicitamente: «e così sia», […] L’imperativo romeno indica qualcosa di totalmente differente dal Fiat latino, che esprime la volontà coercitiva della prima persona. Ad esso è più appropriato l’Amen, con cui tutto termina e che testimonia l’accettazione della volontà altrui: «sia fatta la tua volontà». […] Presso i romeni, ciò che caratterizza l’osservanza di una norma non è una determinazione pratica, bensì una condizione di conoscenza. Il romeno non avverte l’imperativo come un comandamento ma come una mancanza di ordine nell’esistenza, un’inadeguatezza, un’incompiutezza, […]. In questo modo, la situazione di legalità non è vissuta come uno sforzo per conformarsi ad una regola, ma come un sentimento intuitivo di adeguazione organica, di armonia dell’essere con l’essenza, […]. Il romeno non è portato alla realtà pratica, alla riuscita delle cose. […] Una statistica mostra come un gran numero di ricercatori del perpetuum mobile (moto perpetuo) fosse di origine romena – e la ricerca del moto perpetuo è uno degli esempi più noti con cui voler dimostrare l’impossibilità pratica. L’attività del romeno è simbolica, magica, e non razionalmente subordinata ai suoi risultati. […] L’uomo si ritrova nel mutamento delle cose poiché il loro destino costituisce una sorta di gesto, di ciclo che definisce la fisionomia della realtà e che detiene un legame con la vita dell’uomo, […]. La ripetizione e il riconoscimento dell’immutabilità delle cose conferisce loro una ritualità. L’agire dell’uomo è dunque comunicazione, segno, gesto rituale relativo alla sua funzione e non al risultato. […]

5. Non esiste l’irrimediabile

[…] Il romeno non conosce il sentimento della perdita assoluta, la coscienza dell’irrimediabile. Per lui nulla può infrangersi in modo definitivo, niente è condannato senza appello, perduto definitivamente: nulla è irreparabile. […] Molto nota è la necessità che avverte il romeno di reclamare, di piangersi addosso. La sua tendenza a non considerare mai una cosa definitivamente a suo sfavore, a ricominciare tutto da capo, apre ad una nuova prospettiva sul reale. Parimenti nota è la sua inclinazione ad accontentarsi di qualsiasi soluzione umana e conciliante, preferendo la complicità disordinata al retto ragionamento. […]  

6. Leggerezza verso la vita

La disposizione propria del romeno è priva di quel senso di gravità per l’esistenza. La sua vita, sviluppandosi su un piano di realtà eterne, progredisce calma e senza drammi. […] Considerando l’esistenza un gioco di possibilità, e disponendo in ogni momento di un aiuto contro le vicissitudini dell’esistenza concreta – grazie alla trasformazione nel virtuale – costui non prende le cose troppo sul serio. […] Come potrebbe d’altronde preoccuparsi eccessivamente per delle realtà effimere, se il mondo in cui si muove non è altro che un granello di polvere di una più alta essenza, […]?!
Occorre però constatare l’apparizione periodica, all’interno della dimensione romena, di un agente che risveglia tale senso di gravità verso l’esistenza, ponendo l’uomo faccia a faccia con sé stesso e con la propria responsabilità. Questa intensa consapevolezza della storia, del presente che non perdona, ma che obbliga ad agire «ora o mai più» - con il rischio altrimenti di perdere per sempre e irrimediabilmente delle possibilità - codesta consapevolezza non è, nella propria essenza, un sentimento romeno. E’ piuttosto il sintomo di una febbre del momento, di quel sentimento speciale secondo cui il tempo sia giunto al limite, si sia compiuto: una tentazione esterna che cerca di sradicare dalla propria essenza l’uomo romeno. […]
E’ curioso come questa idea di risveglio, il sentimento cairotico dell’adesso o mai più, sia un’idea che periodicamente scuote il popolo romeno. Si intensifica con la tentazione della modernità, nella sua declinazione occidentalizzante. Non c’è da stupirsi dunque che l’irredentismo ottocentesco, saturo dell’ideologia attivista e attualista dell’Occidente, rappresenti lo sforzo più coerente per il risveglio di questo sentimento di gravità verso l’esistenza, in tutto congruente con l’ideale espresso dalla massima di Rosetti: «Abbi volontà e potrai!», «Rivelati e sarai!». Secondo un irredentismo di tal fatta, la dimensione romena dell’esistenza coincide con il sonno, da cui il popolo deve essere ridesto alla realtà del presente. Il tema del canto di Mureşanu ritorna identico in Alecasandri, nella Deşteptarea României:

Ridestatevi dal profondo letargo, fratelli.

I poeti irredentisti sentono di rivolgersi a una realtà eterna e atemporale, a una vita che si svolge al di fuori del tempo, senza presenza. […]
Questo sonno colpisce in special modo gli stranieri quando hanno a che fare con noi. «Nous sommes aux portes de l’Orient, où tout est pris à la légère» (siamo alle porte dell’Oriente, dove tutto è preso alla leggera), affermava in un momento di accesa disillusione l’allora presidente della repubblica francese, il meticoloso e zelante Poincaré, costatando nel celebre processo Hallier la mancanza di presa del suo vasto insieme di argomentazioni sul buon senso dei romeni – testimonianza di come i suoi ragionamenti e le sue conclusioni, la sua ferrea logica di giurista, tentassero inutilmente di afferrare l’aria.
Un tedesco metodico con molta difficoltà può capacitarsi di come non si verifichino incidenti sulla linea ferroviaria di un paese le cui persone sono così approssimative. […] Queste cose non le comprendono i popoli gravi, che nella loro vanità hanno innalzato la storia al di sopra del cosmo, pretendendo che l’uomo dia delle risposte divine. […] Agli antipodi dell’attitudine pratica dell’inglese, che lavora solo per le circostanze del giorno dopo, dipendendo immediatamente dal risultato dell’agire, il romeno possiede il sentimento, in tutto quello che fa, di stare nell’eterno: che tale integrazione nell’eternità non dipenda dall’efficienza ma da una disposizione simbolica e rituale. […]

7. Assenza di timore verso la morte

Alcuni popoli, soprattutto quelli nordici, vivono con drammatica intensità la paura della morte, intesa come una fine assoluta, il terrore verso il niente e l’annullamento. Anche certi pensatori contemporanei hanno fatto di questo problema la radice essenziale e la tragica caratteristica dell’esistenza. Ciò non si addice alla mentalità romena. Pensate al pastore, molte volte citato, della Mioriţa di Alecsandri. […] Per lui nell’aldilà continuano a svolgersi le cose di qui. Il dominio dell’esistenza non si arresta con la morte:

În strunga de oi,
Să fiu tot cu voi;
În dosul stăinii,
Să-mi aud cănii.

Nella stalla delle pecore
che io resti con voi;
dietro all’ovile,
che mi sentano i cani. [6]

 

Il terrore del nulla non lo determina a prendere elementari misure di prudenza o di precauzione. Ciò che lo preoccupa è soltanto portare a compimento un dato ordine rituale, che gli assicuri a lungo il legame con questo mondo:

Aste să le spui,
Iar la cap să-mi pui …

Questo tu di’ loro
e al capo mettimi… [6]

Il pianto non rappresenta la frattura dolorosa tra l’essere e il nulla, ma l’anelito al compimento, alla restaurazione della pace nel tutto. E’ grazie a ciò che è possibile comprendere il senso in cui lo storico greco aveva parlato dell’immortalità dei geti. E questa attitudine appena descritta restituisce ancora una volta quella di un tempo. […]

 




A cura e traduzione di Francesco Testa
(n. 10, ottobre 2015, anno V)




NOTE
1. http://www.marturisitorii.ro/2015/08/12/emil-cioran-despre-mircea-vulcanescu-catre-fiica-lui-nu-vreau-sa-fac-din-tatal-dumneavoastra-un-sfant-dar-el-era-oarecum-astfel/
2. I saggi in questione sono contenuti in Pagini despre sufletul românesc, Humanistas, Bucureşti 2010.
3. M. Vulcănescu, Dimensiunea românească a existenţei, Editura Eikon, Cluj 2009.
4. S. Stolojan, in E. Cioran, Lacrime e santi, Adelphi, Milano 2009.
5. Il riferimento è a Nae Ionescu.
6. L’agnellina, trad. di Lorenzo Renzi, da Le nozze del sole. Canti vecchi e colinde romene, a c. di Dan Octavian Cepraga, Lorenzo Renzi, Renata Sperandio, Carocci editore, Roma 2004.