In memoriam: Alexandru Balaci, il Professore che iniziava la giornata leggendo Dante

Lo scorso 16 giugno 2016, l’Accademia Romena ha omaggiato in seduta pubblica svolta nella sua solenne e bellissima aula, cento anni dalla nascita di Alexandru Balaci, italianista e accademico. Ne hanno ricordato i principali contributi alla cultura romena, la portata intellettuale, la gentilezza e squisitezza umana gli accademici Eugen Simion, critico letterario, Dan Berindei, storico, Răzvan Teodorescu, storico e critico dell’arte, e chi scrive, in veste di italianista e di ex-studentessa di quello che per tutta la mia generazione era per antonomasia il Professore.
Ho scritto varie altre volte del mio Professore. Riprenderei, per i miei giovani colleghi e studenti che forse sanno poco di lui, solo pochi appunti sulla sua esperienza umana e culturale e alcuni miei pensieri nati in quest’occasione.

Balaci vide la luce nel 1916, nel comune di Aurora, distretto di Mehedinti. Seguì gli studi liceali a Craiova, che nel periodo interbellico viveva un’intensa vita culturale, più precisamente al liceo «Traian» e poi al prestigioso Collegio Nazionale «Carlo I» dove i suoi eccellenti professori di discipline umanistiche non solo gli aprirono un vasto orizzonte di letture e lo incamminarono per la strada delle lettere e delle lingue straniere, ma gli trasmisero pure un concetto di cultura di tipo illuministico, ossia che la cultura non si fa per se stessi e solo stando in biblioteca, ma per diffonderla, scrivendo su giornali e riviste, parlando alla radio, partecipando ai dibattiti, aprendosi a tutti, insomma facendo politica culturale. Infatti, la sua ingente opera (più di 3000 titoli) comprende oltre i numerosi volumi d’autore, una miriade di articoli, prefazioni, conferenze, relazioni nonché il coordinamento di monumentali lavori collettivi (la storia e antologia della letteratura italiana del dipartimento di italianistica dell’Università di Bucarest, i grandi dizionari romeno-italiano e italiano-romeno ecc.).

Dopo il liceo viene a Bucarest per compiere gli studi universitari. Qui le direzioni suaccennate acquistano contorni precisi: quella di studioso si incanala verso la lingua e la letteratura italiana, quella di politico della cultura, verso l’antifascismo e il comunismo. Balaci capita a Bucarest in un’atmosfera assolutamente propizia all’italianistica: era già stato creato – all’inizio del secolo – il dipartimento di italianistica da dove era venuta su una rigogliosa scuola di giovani italianisti, di illustri ricercatori e professori, nascevano le cattedre di italianistica a Iasi e a Cluj, l’italiano era stato introdotto nel programma scolastico di quasi tutti i licei del paese, gli studi di italianistica e i contatti con gli intellettuali italiani erano incoraggiati ecc. Non c’è dubbio, quindi, che il contesto culturale era favorevole allo studio dell’italiano. Alexandru Balaci l’ha assorbito, mi pare, in un modo tutto suo: ha fatto della cultura italiana uno spazio spirituale privilegiato, un locus amoenus della mente, che andava curato e riverito piuttosto che recepito criticamente. Gli illustri studiosi che gli sono stati professori (Alexandru Marcu, Nicolae Iorga, Ovid Densusianu, Al. Rosetti, Dumitru Caracostea, George Oprescu ecc.) gli hanno ispirato, credo, altri due tratti diventati poi definitori per lui: uno è la convinzione, esplicita o meno, che essere studioso ed essere docente sono due cose inseparabili. Ciò spiega come mai, avendo tanti altri importanti incarichi, Balaci abbia insegnato letteratura italiana all’Università di Bucarest per 50 anni (e spiega forse anche il fatto che dopo l’89, rifiutato dalla sua università per ragioni politiche, ha accettato, anche se molto anziano, di insegnare presso le nuove università private); e il secondo tratto, la necessità, quasi vitale per lui, di frequentare personalità intellettuali di altissimo livello: Balaci è vissuto in pieno comunismo, anzi è stato un politico della cultura comunista, ma il suo ambiente è stato sempre quello dell’alta cultura: per tutta la vita si è mosso fra intellettuali di altissimo livello di tutto il mondo, è stato amico di molti di essi e il loro riconoscimento e apprezzamento si riflette nei numerosissimi titoli e onorificenze accordati da varie accademie, da varie università e istituzioni di prestigio di tutto il mondo. Balaci respirava solo in quest’atmosfera e, malgrado le sue concezioni comuniste, era convinto che ciò che rimane nella storia, ciò che realmente conta, sono le opere degli intellettuali egregi. E ciò risulta anche dalla sua impresa culturale più importante, e parzialmente sprecata, il grande progetto di dare alla luce una storia della letteratura italiana per monografie sui grandissimi: Dante, Petrarca, Boccaccio, Machiavelli, Ariosto, Tasso, Foscolo, Leopardi, Carducci, Pascoli, Pirandello. Forse nessun altro al mondo ha scritto da solo una tale serie di volumi monografici. Ma ho detto anche «sprecata», e mi sento in dovere di spiegare il termine. Nella galleria dei grandi italianisti del secondo dopoguerra, ormai scomparsi, Balaci sta accanto a Nina Façon, a Eta Boeriu e Marian Papahagi, ma li domina tutti con l’estensione della sua opera. Come loro si è accinto a colmare le grandi lacune romene in materia di letteratura e cultura italiana scrivendo, traducendo, parlando di essa e tramandandola. Ma per Balaci, a differenza degli altri, la meta principale era, credo io, la diffusione vasta ed efficiente, per una cultura di massa: una grande quantità per la grande quantità, che crede di poter fare a meno del rigore filologico e dell’accuratezza contenutistica. In più, per lui, l'opera di trasmissione si doveva fare con passione, addirittura con pathos, così da ingigantire la statura dello scrittore ed elevarlo a modello. In tutte le opere monografiche da lui scritte si sente il bisogno organico di proporre dei modelli, ossia di trasformare l’informazione sullo scrittore e sulla sua opera in una guida spirituale ed esistenziale del lettore. Tale desiderio di nobilitare l’argomento, la facilità di scrittura e l’ebbrezza delle parole rendono parte dell’ingente opera del Nostro poco attendibile, almeno per gli italianisti di professione. Credo che, da questo punto di vista, Balaci rassomigli in un certo senso a Vincenzo Monti: in un’età di grandi cambiamenti politici e di difficile equilibrio etico, il piacere dell’erudizione e l’arte dello stile sembrano aver offerto ad entrambi un rifugio e una giustificazione. Come Monti (ma senza il suo opportunismo), Balaci ha un certo culto per la parola in sé e una certa indifferenza per l’informazione accurata. Tuttavia, se è vero che Balaci ha lasciato poco materiale di studio ai professionisti, ha però offerto per alcuni decenni una non comune visibilità alla cultura italiana nell’allora vasto pubblico di lettori romeni.

Ritornando all’altro indirizzo della sua formazione, quello politico, l’adesione al gruppo dei giovani intellettuali di sinistra (della rivista «Cadran») in quegli anni torbidi e violenti che precedono l’entrata in guerra della Romania, diventa, dopo la guerra e con l’avvento del comunismo, propellente della sua carriera di politico della cultura. Fare carriera culturale e politica culturale sotto il comunismo poteva significare (come sempre) cose molto diverse: Balaci ha scelto, credo, la via più eletta e più pulita, cioè seguire la sua carriera universitaria e parallelamente fare, man mano, il redattore e vicedirettore di Radio Romania, vicedirettore della casa editrice ESPLA (antenata della celebre e straordinaria Univers), vicerettore dell’Università di Bucarest, vicepresidente del Comitato di Stato per la Cultura e per l’Arte, vicepresidente della Federazione mondiale per le Nazioni Unite, vicepresidente dell’Unione degli Scrittori ecc. In un’intervista si divertiva a osservare che lui non era mai stato un dirigente integrale, ma solo e sempre un vice. Forse essere un eterno vice gli avrà procurato un certo rammarico, ma già di per sé rivela un modo di essere accettato dalla nomenclatura: con riserva, con prudenza, mai con totale affidamento. E bisogna dire subito che dai suoi altissimi vice-posti Balaci ha patrocinato la pubblicazione delle opere complete dei classici della letteratura romena e universale, ha riportato alla luce Arghezi, ha fatto pubblicare tanta letteratura italiana in romeno, ha tenuto una miriade di conferenze e trasmissioni radio sulla cultura italiana e, nei momenti di maggior pericolo per le sezioni di italiano dell’università, è intervenuto per impedire la soppressione delle cattedre di italianistica.

Per quattro anni, dal 1969 al 1973, Balaci fu direttore dell’Accademia di Romania in Roma. A quei tempi la Romania aveva una politica estera ambigua e pochi soldi, ed è ovvio che, dirigendo un istituto di cultura all’estero, ci si doveva confrontare con entrambe le restrizioni. Mi è difficile valutare quanto ha fatto Balaci in quel posto rispetto a quanto poteva o a quanto doveva fare. In quegli anni uscivo poco dalla Romania e programmaticamente non mettevo piede nell’Accademia; però, più tardi, quando abbiamo cominciato a nostra volta a circolare per il mondo e a frequentare gli intellettuali e le istituzioni culturali dell’Italia, abbiamo scoperto che tanti associavano la Romania alla persona raffinata, al comportamento elegante, alla vasta cultura e alla squisitezza di Balaci. Dovunque era passato lui, noialtri, che venivamo dopo, non temevamo più di essere trattati da «terzo mondo».

Ho visitato più volte il Professore nella sua dimora bella e poetica, piena di libri e di ricordi di tanti uomini illustri della cultura europea, passata e presente. Era rimasto incredibilmente giovane, di spirito e di corpo. Raccontava in maniera fascinosa e la sua memoria senza incrinatura evocava con pathos o con ironia cose, avvenimenti, persone dell’Italia, della Romania, del mondo intero, a cominciare dall’antichità e fino al giorno prima. Tutto diventava presente e reale attraverso i suoi ricordi limpidissimi, pieni di vita e di sostanza. Prima che venisse costituita l’Europa unita, Balaci ne era già cittadino, ma un cittadino ideale, poiché collegava tutto ciò che era europeo sia all’universale sia al particolare e allo specifico. Balaci citava a memoria lunghi brani della poesia italiana e non solo di questa. Ma quanto profondamente fosse radicata in lui la cultura più alta dell’Italia (e del mondo) io l’ho capito appena quando, in una di quelle indimenticabili visite, mi ha raccontato, con quel pizzico tutto suo di vanità misto di autoironia, che il suo programma giornaliero cominciava immancabilmente alle sei di mattina col sedersi alla scrivania e leggere un canto di Dante. Era l’esercizio di sveglia e di purificazione intellettuale che gli dava sicurezza e protezione per l’intera giornata.


Smaranda Bratu Elian
(n. 7-8, luglio-agosto 2016, anno VI)