Per il centenario di Gherasim Luca: poesie inedite in italiano

«Nessun trobar clus. […] Chi va in cerca della poesia (Gedicht) per annusare metafore, troverà sempre solo – metafore» (Paul Celan).
Per tradurre Gherasim Luca è necessario far leva sulla propria esperienza – come ci mostra Maria Schiavone in queste sue eccezionali trasposizioni per la prima volta in lingua italiana. Si tratta, cioè, di interrogare se stessi a partire da ciò che massimamente inquieta, un’inquietudine che arriva dalla parola o dall’immagine, e torna alla parola come un pendolo che oscilla costantemente e in maniera del tutto aleatoria.
Le prime poesie di Gherasim Luca, pubblicate tra il 1930 e il 1931 sulla rivista «Alge», come Barbară, Pătrundere, Developări, Femeia Domenica d’Aguistti, presentano, retroattivamente, aspetti di fondamentale interesse per la grande questione, che non abbandonerà mai più Luca, del Desiderio e del suo oggetto, dell’Amore e de La Donna che non esiste, anche se da qualche parte nell’inconscio c’è. La Donna sta forse proprio lì, in quel luogo, in quel «territorio straniero», in quell’intervallo tra le parole, in quel dialogo silenzioso, in cui ci si trova più vicini alla domanda immane. Quel «territorio straniero», che la tradizione poetica occidentale identifica con La Donna, è il luogo del linguaggio e del silenzio, in cui la parola stessa ha veramente luogo. Questa parola è una domanda d’amore che si muove al di qua e al di là del desiderio (Lacan).
Se la Donna, afferma Freud, è l’enigma di cui noi parliamo, essendo il continente nero su cui si arresta ogni pretesa esplicativa della psicologia e della religione, si può dire, con Gherasim Luca, che La Donna (che non esiste, anche se da qualche parte c’è) è il luogo del linguaggio in cui la parola ha veramente luogo. L’invenzione de La Donna è il segreto del miracolo poetico, svelato da Luca, che consente al soggetto umano l’esperienza della lingua quando entra in contatto traumatico, quindi in maniera de-soggettivante, con l’alterità più assoluta che da sempre lo accoglie.
Per Gherasim Luca la lingua materna è l’oggetto d’amore, il desiderio di dirsi di ogni soggetto parlante. È un amore strano a causa dell’oggetto che coltiva e custodisce, e non è da escludere che il suo desiderio sia anche affetto d’amore possessivo, come indicano questi primi componimenti pubblicati coraggiosamente su «Alge» in chiave politicamente antireazionaria. Per Luca la lingua che pratica, e le parole che fa delirare nel turbinio immaginifico delle metafore, sono l’oggetto della sua grande passione: sia per le associazioni che istituiscono i suoni e le immagini, sia per alcuni significati non del tutto certi, sia per le parole stesse che si contrappongono le une alle altre secondo griglie di linguaggio sottili e diverse. L’esperienza della lingua è il luogo d’incontro con l’alterità più assillante per il soggetto umano.

Il giovane poeta, all’età di 17 anni, pronuncia «nomi barbari» per produrre senso, con la stessa voluttà che si prova nell’assaporare cibi prelibati e piccanti. Da un lato il soggetto poetico ingerisce le parole come «confetti o caramelle» e dall’altro articola dei suoni. Due movimenti che sono contraddittori solo in apparenza. Il primo permette di ricevere, il secondo di emettere, far sprizzare. Queste due pulsioni molto simili trovano il loro luogo naturale nella bocca. Quando poi il poeta «crescerà» poeticamente soprattutto nella lingua francese, le sue pulsioni si sposteranno e avranno come luogo privilegiato un’apertura che non si potrà mai più richiudere su se stessa. Qui si raccoglieranno tutte le differenze, perché l’innamorato delle lingue è un vero appassionato di alterità e la sua gioia è alimentata dalla ricerca della differenza e non dell’identità.
Il desiderio è stabile e indistruttibile. Questo perché ciò che desidera il desiderio attraverso la sua ricerca estenuante e frenetica di oggetti e di immagini, è in realtà se stesso. Il desiderio desidera se stesso. Il desiderio non è altro che il desiderio di desiderare. Il desiderio si cerca senza saperlo credendo che voglia questa o quest’altra cosa. In realtà il desiderio non riconosce sé stesso, non sa di sé stesso perché non può divenire oggetto di sé, anche se ostinatamente e insaziabilmente è orientato alla ricerca di sé. Dunque non c’è sapere del desiderio. Al limite, come suggerisce Lacan, il desiderio non può dirsi. È impossibile dire il desiderio. Ed è proprio qui che entra in gioco l’esemplarità della poesia di Gherasim Luca degli anni ’30. Egli prova a dire l’impossibilità stessa di dire il desiderio. Quindi, la sua ricerca poetica sarà interminabile e teoricamente infinita.

Altro aspetto degno di rilievo, in questi primi componimenti di Luca, è la non naturalità del desiderio. Il desiderio si caratterizza per il rapporto fondamentale che è istituito tra il soggetto e la mancanza. Da un lato si fa esperienza dell’abissalità del desiderio di fronte all’angoscia, oltre la quale non è dato andare. Dall’altro si scopre, sempre nell’angoscia, la presenza primitiva del desiderio dell’Altro come un qualcosa di opaco, oscuro, in cui il soggetto è senza scampo, privo di mezzi. L’esperienza del desiderio è una perdita di padronanza, è una caduta dell’Io, è scivolamento, inciampo, sbandamento. È una qualcosa che turba tutte le convinzioni, è un qualcosa di esorbitante rispetto all’Io.
Altro aspetto riconoscibile in queste prime prove poetiche di Luca, che allontana il desiderio dalla natura, è il suo legame intimo con il linguaggio. Questo legame proviene in primo luogo dal vuoto e dall’abissalità con cui il desiderio ha a che fare. È il segreto del Pieno e del Vuoto. Il linguaggio, e in senso stretto la poesia, dà forma al vuoto. La poesia, e in generale il linguaggio, dà l’illusione della pienezza con una disposizione domandante del vuoto. E anche se potremmo supporre che il desiderio sia al di là del linguaggio, dovremmo considerare il fatto che è proprio il linguaggio ciò che fa cambiare d’accento il desiderio, lo sovverte con la domanda, lo rende ambiguo attraverso il suo passaggio tra le voci immemori delle parole.
Il legame del desiderio con il linguaggio proviene dal rapporto del soggetto con l’Altro, dove per Altro con la maiuscola intendiamo lacanianamente il luogo in cui la parola ordina il desiderio e ne accende la domanda. Gherasim Luca ci mostra che il desiderio non ha limiti. E questo implica fondamentalmente due cose, una negativa e l’altra positiva. Negativa perché il desiderio non è il bisogno. Il bisogno si può soddisfare, si soffre per la mancata soddisfazione di un bisogno, si può essere frustrati in rapporto al bisogno. Ma il desiderio è eccentrico rispetto a ogni tipo di soddisfazione. Non esistono oggetti che possano soddisfare il desiderio, anche se ci sono degli oggetti che sono causa del desiderio. L’insoddisfazione è costitutiva del desiderio ed è per questo che il desiderio ha delle profonde affinità con il dolore, come testimonia straordinariamente la parola dor nella lingua romena.
La traduzione di Maria Schiavone di questi primi componimenti di Luca ha saputo provare che non c’è esperienza dell’inconscio che non sia esperienza di desiderio, nel senso che, nel campo del desiderio e della poesia, si è sempre attraversati da una potente forza che ci oltrepassa e allo stesso tempo ci rapisce, talvolta ci entusiasma e altre volte rovinosamente ci strazia.

Giovanni Rotiroti


Barbara

I seni tuoi di cristallo rotolano sulla pupilla degli occhi
Portando in bisacce l’odore degli aghi d’abete.
Nella bocca con caramelle di madreperla
le labbra sono fuse
e d’intorno la corona punteggiata di sangue
intona melodie vaghe, misteriose.
Paraventi, le cosce nascondono nel pensiero
La stretta dei battiti del mare
ed il suono del torace è un pianto
in profondità di peluche e cascate.

Nella notte una lampadina mi annusa il cuore
e la grata delle braccia impasta monumenti barbari




Barbară

Sânii tăi de cristal se rostogolesc pe lumina ochilor
Purtând dăsag mirosul acelor de brad.
În gura cu bomboane de sidef
buzele-s topite
şi împrejur coroana cu puncte de sânge
cântă melodii vagi, tăinuite.
Paravane, pulpele ascund în gând
strânsoarea bătăilor de mare
şi sunetul torsului plânge
în adâncimi de pluş şi cascade.

În noapte un bec îmi miroase inima
şi grilajul braţelor frământă monumente barbare




Sviluppi

I crisantemi sprizzati dei tuoi capelli ti hanno rigirato
il lenzuolo dell’anima
con voci incendiate con ombre raccolte nella rete
Le statue delle tue guance le ha levigate il delta del freddo
Con gabbie di rugiada
Con orchestrazioni racchiuse nella tavolozza.
Le onde delle cascate del cuore hanno rivoltato le passioni di haiduci
con i tesori degli zoccoli nella schiuma
con le catene dei peccati nelle ossa.
Le piante dei tuoi piedi sono state bagnate da specchi trovati nell’erba
con valanghe di sole
con labbra di schiavi.
Acque battute dalle scogliere dei corpi ti cantano melodie medievali.



Developări

Crizantemele ţâşnite din păr ţi-au răscolit
aşternutul sufletului
cu glasuri incendiate cu umbre culese in năvod
Statuile obrajilor ţi le-a şlefuit delta frigului
cu colivii de rouă
cu orchestraţii cuprinse în paletă.
Valurile din cascadele inimii au răscolit pasiuni de haiduci
cu comorile copitelor în spumă
cu lanţurile păcatelor în oase.
Tălpile ţi-au fost udate de oglinzi găsite prin ierburi
cu avalanşe de soare
cu buze de sclavi.
Ape lovite de stâncile trupului îţi cântă melodii medievale.



Penetrare

Ad Aurel

Torre posta su molli terreni e inondata di passioni ti alzi
i capelli pietrificati verso l’alto, verso l’azzurro, segnando le cesure delle frasi
Pensieroso, con le vene rivolte verso mari colorati, come i fiumi,
vacilli pendolo deluso, barometro del cuore.
In attesa delle calme sotterranee, nell’attesa della fine del terremoto che ti scuote le fondamenta, guardi attraverso l’occhio semiaperto e attraverso le ciglia invisibili, in lontananza.
Dall’orizzonte un punto prende le grandezze da te bramate e nell’atmosfera trasparente, una linea contorna le tue forme in voci di cosce, in rivoluzioni di seni e concerti di labbra.
Un ultimo sforzo di vano silenzio, il polso trafitto dalla siringa tremola con il mercurio acceso alla bocca dell’occhio.
Da lontano le indiscrezioni degli istituti barometrici annunciano vagabondaggi di temperatura e movimenti cosmici.
La terra si rotola su un’altra terra e nel frastuono dei silenzi con passi di respiri, i pianeti si urtano come piante nel nulla, cercandosi.
Tu rimani ancora più dritto, ma le difficoltà ti hanno riportato nella posizione descritta dai professori sulla spiegazione della parola verticale. Su di te, cerchi con tutte le mani, la nudità.
La lotta annunciata dei metereologi segue il suo corso ininterrotto.
Attraverso il tuo occhio interamente spalancato con le sopracciglia strappate, cerchi un abito con cui velarti i battiti del cuore.
All’improvviso penetra la luce di un pianeta, il calore della lana ardente ti si è cucito su tutto il corpo e valanghe scolorite dal tempo e dall’attesa si rovesciano.

-DOVE?-

si rovesciano con cascate soffocate nelle voci.
Per un istante ti sembra di sparire.
Cerchi con timore nelle tasche del tuo corpo e non trovi che le tue radici pietrificate nella terra che ha smesso di agitarsi. La trovi piena di caramelle incolori e bagnate – forse sputate.
Il gargarismo della torre che non senti più lo ascolti comunque scorrere in una pompa chiusa.
L’altro ritorna dalle parole dei sismografi e scompare.
Tu ti ritrovi dopo lotte che rimpiangi, ti tasti con tutte le dita e ti trovi fuso, liquefatto, con ferite visibili nelle pupille, sul corpo e nell’anima.
Invano cerchi di innalzare impalcature per una nuova elevazione, perché tu ricadi per terra, da questo momento più molle che mai.
Nella tua anima camminano gondole inaridite e cervelli scorrono sulle desolazioni.



Pătrundere

lui Aurel

Turn situat pe terenuri moi şi inundate de pasiuni îţi ridici
părul pietrificat pe înălţimi, spre albastru cu semnul sfârşirilor de frază.
Pe gânduri, cu vinele îndreptate spre mări colorate, ca fluviile,
te clatini amăgit pendul, barometru al inimii.
În aşteptarea încetărilor subterane, în aşteptarea sfârşitului de cutremur ce-ţi mişcă temeliile, priveşti prin ochiul întredeschis şi prin genele invizibile, spre depărtări.
Din zare, un punct ia mărimile visate de tine şi, în atmosfera transparentă, o linie îţi conturează formele în glasuri de pulpe, în revoluţii de sâni şi în concerte de buze.
O ultimă sforţare de tăcere zadarnică, pulsul trecut seringă prin mijloc tremură cu mercurul aprins la gura ochiului.
Din depărtare surlele institutelor barometrice anunţă plimbări de temperatură şi mişcări cosmice.
Pământul se rostogoleşte pe un alt pământ şi în zgomotul tăcerilor cu paşi de răsuflări, planetele se ciocnesc cu plantele în neant, căutându-se.
Tu rămăi mai departe drept; însă greutăţile te-au întors în poziţia descrisă de profesor pentru explicarea cuvântului vertical. Pe tine, cauţi cu toate mâinile, goliciunea.
Lupta anunţată de meteorologi îşi urmează mersul neîntrerupt.
Prin ochiul deschis pe de-a-ntregul cu sprâncenele smulse, cauţi împrejur o haină cu care să-ţi înveleşti bătăile de inimă.
Deodată în privire îţi pătrunde lumina unei planete, căldura de lână aprinsă ţi-e cusută pe tot trupul şi val-vârtej avalanşe decolorate de vreme şi aşteptare se prăvălesc.

- UNDE ? -

se prăvălesc cu cascade înăbuşite în glasuri.
 Un moment ţi se pare că dispari.
Te cauţi cu frică prin buzunarele trupului şi nu găseşti decât rădăcinile tale împietrite în pământul care a încetat să se mai zvârcolească. Pe el, îl găseşti plin cu bomboane incolore şi ude - poate scuipate.
Gargara turnului pe care nu-i mai simţi o auzi totuşi cum se scurge ca în cişmeaua închisă.
Celălalt se întoarce din cuvintele seismografelor şi dispare.
Tu te regăseşti după luptele pe care le regreţi, te pipăi cu toate degetele şi te găseşti topit, lichefiat, cu răni vizibile în pupile, pe trup şi în suflet.
În zadar cauţi să ridici schele pentru o nouă ridicare, pentru că tu cazi una cu pământul, care de astă dată e mai moale şi mai inundat ca niciodată.
În suflet îţi umblă gondole secate, şi creierii curg pe uscăciuni.




La Donna Domenica D’Aguistti

Nelle mie tempie suona il pianoforte una donna bianca, senza sangue
e dalle lunghe braccia che entrano attraverso il pianoforte ed escono dal pavimento, attraverso il soffitto
attraverso tutti i giardini del mondo.
La donna non ha neppure un po’ di sangue
ma sul viso ha un grande biancore,
e per questo mi sono gettato nella gabbia dei leoni e l’ho morsa profondamente.
Per farle scorrere il sangue, sicché infine io veda il sangue!

Ho messo la mano sulla mia pelle
E dentro v’era rinchiusa una donna.
La furba, aveva chiuso le tende e sprangato la porta.
Allora ho rivoltato tutta la periferia
per acciuffare i tuoi capelli
ho aperto poi le porte ai miei pompieri per spegnere il fuoco
ho fatto scorrere tutto il sudore dal mio corpo
ho liberato sperma
ed il fuoco si è spostato al cervello
e per questo adesso faccio le smorfie allo specchio.

Nelle pupille sono entrate le donne bianche per bagnarsi
qui è buio e l’acqua è acqua che brucia
qui la fonte ha fruste che mordono ed i lupi sono quelli che sanno beccare,
per questo sono entrate le donne, per bagnarsi!
Le donne coi capelli sul petto
le donne coi pugni stretti nelle mani,
le donne hanno denti nella bocca,
le donne hanno denti nelle unghie,
le donne che m’inseguono hanno tutte gambe da levriero,
le donne che vorticano in me hanno solo orologi nel sangue,
le donne che mi rompono la testa con martelli
sono donne che bevono le mie cervella e che mi raccolgono i brandelli di
cranio come pezzetti di pane.

In me camminano lupi e stregoni,
scimmie e nani;
gli stregoni sprizzano il mio sangue da tutti i pori
le scimmie saltano attraverso tutte le mie stanze
E il cuore, impazzito, salta per tutto il corpo
Lupi! Non urlate più ché mi scuotete il cranio, lupi!
Ma le mie mani invano rivoltano i capelli e la bile
perché negli occhi danzano ancora il serpente bianco e la femmina.

Ho in bocca l’osso della donna morta e l’addento, e lo succhio
perché c’è ancora un po’ di carne.
È dolce l’osso della donna e fa male.
Ma i cani di periferia – assassini – mi strapperanno la preda
perciò mi tirano i vestiti, mi lacerano il corpo.
Ma io non sono niente
perché è solo nella mia bocca l’osso della donna che è morta
e che vive solo nella mia bocca.
Cani! Cani!
Potete battermi fino a domani e per un anno ancora
nei secoli dei secoli,
i vostri spigoli possono penetrare in fondo al mio cervello
e il vostro piscio può entrare in fondo al mio sangue
L’osso della donna morta è il mio pane quotidiano.
Cani

Il cervello sta nella mia testa come una corda intorno al collo
e cerco il chiodo con cui mi sono impiccato
e il chiodo è nel cuore
e il chiodo è nascosto tra il sangue, tra le lenzuola,
i piedi dondolano sul pavimento
e la morte, nei panni di una grossa donna di periferia,
mi taglia la corda
e mi dice «Che Dio mi perdoni»



Femeia Domenica D’aguistti

În tâmple îmi cântă la pian o femeie albă, fără sânge
şi cu braţele lungi care intră prin pian şi ies prin podea, prin pod
prin toat grădinile lumii.
Femeia n-are niciun pic de sânge
dar pe faţă e prea multă albeaţă,
şi de aia m-am aruncat din cuşca cu lei şi m-am muşcat-o adânc.
Că să curgă sângele, să-i văd odată sângele!

Am pus mâna pe pielea mea
şi înăuntru era închisă o femeie.
Hoaţa, tinea perdetele trase şi zăvorul la fel.
 Atunci am răsculat toată mahalaua
ca să cuprind părul de pie tine
am deschis apoi porţile pompierilor din mine ca să stingă cu focul
am scrus toată sudoarea din trupul meu
am tras malafia
şi focul s-a mutat pe creier
şi de aia mă strâmb acum în oglindă.

În pupile au intrat femeile albe să se scalde
aici e întuneric şi apa e apă care ustură
aici izvorul are bice care muşcă şi lupii sunt acei care ştiu să ciugulească,
de aia au intrat femeile să se scalde!
Femeile cu părul pe piept
femeile cu punii închişi în mâini,
femeile au dinţi în gură,
femeile au dinţi în unghii,
femeile cari fug după mine au toţi ogarii în picioare,
femeile cari se învârtesc în mine au numai ceasornici în sânge,
femeile cari-mi sparg capul cu ciocane,
sunt femeile cari-mi beau creierii şi-mi culeg bucăţele de
ţeastă ca bucăţele de pâine.

Prin mine umblă lupii şi vrăjitorii,
maimuţele şi piticii;
vrăjitorii aruncă cu sângele meu prin toţi porii
maimuţile sar prin toate odiale din mine
Şi inima, nebuna, sare prin tot trupul
Lupi! Nu mai urlaţi că mi se cutremură ţeasta, lupi!
dar mâinile mele în zadar răscolesc părul şi fierea
pentru că în ochi tot mai dansează şarpele alb şi muierea.

Am în gură osul femeii moarte şi-l muşc, şi-l sug
pentru că are puţină carne.
E dulce osul femei şi doare.
Dar câinii mahalei – ucigaşii – vor să-mi smunga prada
şi de aia-mi trag hainele, îmi sfâşie trupul.
Dar eu nu sunt nimic
pentru că numai în gura mea e osul femeii care a murit
şi care traieşte numai în gura mea.
Câini! Câini!
puteţi să bateţi până mâine pâna la anul
în vecii-vecilor
colţii voştri pot să pătrundă pâna în creieri
şi pişatul vostru poate să intre pâna în sânge
Osul femeii moarte este pâinea mea de toate zilele.
Câini!

Creierul îmi stă în cap ca o franghie în jurul gâtului
şi caut cuiul de care m-am spânzurat
şi cuiul e în inimă
şi cuiul e ascuns prin sânge, prin cearceafuri,
picioarele se bălăbănesc pe podea
şi moartea îmbrăcată în femei groase de mahala
îmi taie frânghia
şi-mi spune «Dumnezu să mă ierte»


Gherasim Luca
Traduzione di Maria Schiavone
(n. 5, maggio 2013, anno III)