Ruxandra Cesereanu e la sua «Venezia dalle vene viola»

È recentemente uscito il volume Venezia dalle vene viola. Lettere di una cortigiana di Ruxandra Cesereanu (Aracne 2015, a cura di e con un’introduzione di Giovanni Magliocco, postfazione di Ilona Manuela Duţă). Lo presentiamo attraverso una selezione di poesie e un’intervista realizzata da Cristina Gogianu con il traduttore Giovanni Magliocco, in occasione dell'incontro organizzato dall’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia al Bistrot de Venise il 17 ottobre scorso.


Professor Magliocco, siamo davanti a uno splendido volume di poesia nato dal suo lavoro come traduttore e dalla collaborazione con la poetessa romena Ruxandra Cesereanu. Ci può raccontare come è nato questo legame artistico e anzi come ha incontrato Ruxandra Cesereanu e le sue poesie?

Avevo letto le poesie di Ruxandra Cesereanu già ai tempi in cui ero studente, il mio interesse primario è sempre stato la poesia romena moderna e contemporanea. Conoscevo Ruxandra sia come poetessa, sia come prosatrice, sia come saggista, e anche se non avevo letto ancora tutta la sua opera, estremamente vasta e multiforme, mi affascinava molto la sua scrittura e la sua personalità. Ho avuto poi il piacere di conoscerla anche di persona nel 2007, durante un convegno organizzato presso l’Università della Calabria, dalla professoressa Gisèle Vanhese, all’epoca il progetto fu cofinanziato dall’Istituto Culturale Romeno. Si trattava di un convegno dedicato alla letteratura romena, alla metodologia della mitocritica e alla poetica del fantastico con applicazioni alla letteratura romena. Ruxandra Cesereanu venne in Calabria insieme ad altri studiosi dell’Università Babeș-Bolyai, con cui avevo già avuto il piacere di dialogare più volte a Cluj: Corin Braga, Călin Teutişan e Laura Pavel. Proprio in quel contesto sono cominciate le nostre conversazioni sulla poesia, Ruxandra mi aveva portato in regalo il suo volume «decadente» Venezia dalle vene viola dal quale erano stati tradotti in italiano solo alcuni testi. Fui subito profondamente colpito da quei versi, oggi posso affermare che non solo la nostra collaborazione artistica, ma anche la nostra profonda amicizia è iniziata proprio in quel momento e grazie a questo volume di poesie portato in dono. Ci siamo subito resi conto di condividere una medesima visione poetica e di avere una sensibilità letteraria e artistica profondamente affine. Ho provato subito il desiderio di trasporre in italiano la sua opera poetica e di far parlare Ruxandra «attraverso di me». Il punto di partenza del nostro legame è stato, dunque, questo volume dedicato a Venezia, in un secondo momento la nostra collaborazione è diventata a 360 gradi, si è estesa anche ad altri suoi testi (come testimonia il volume antologico Coma pubblicato nel 2012), per diventare infine anche una collaborazione accademica, nutrendo entrambi un interesse profondo per gli studi sull’immaginario, per l’onirismo e per il fantastico. 

Oltre a questa visione poetica condivisa, quali altre ragioni l’hanno spinta a scegliere questo volume per tradurlo e farlo conoscere anche al pubblico italiano?


Ho letto molti autori (italiani e stranieri) che hanno scritto su Venezia, anche autori romeni, penso ad esempio al sonetto Venezia di Eminescu (che è tra l’altro uno dei modelli con cui dialoga Ruxandra in una delle poesie del volume, Venezia Terminus), o alle poesie di Macedonski. Tra tutti gli autori, non solo romeni, che hanno scritto su Venezia, mi sembra che proprio la visione di Ruxandra Cesereanu (tra l’altro l’unico scrittore romeno ad aver dedicato un intero volume a Venezia) sia la più particolare ed eccentrica, al contempo, credo che nessuno abbia mai percepito meglio di lei l’essenza più profonda di Venezia, poiché quella di Venezia con le vene viola non è solo, come afferma Ruxandra stessa, una Venezia decadente, onirica e gotica, ma è soprattutto una Venezia interiorizzata, un «odore archetipico», un’«Atlantide rovesciata». La Venezia di Ruxandra Cesereanu non è un semplice scenario, un fondale astratto, un palcoscenico di cartapesta, ma è uno spazio interiore e archetipale, un palinsesto dell’anima e dell’animus. Ho pensato, allora, che per il pubblico italiano potesse essere interessante scoprire questa visione, soprattutto poiché si tratta di una prospettiva che proviene da un altro spazio culturale. È incredibile come una poetessa romena abbia avuto la sensibilità di percepire quello che anche per me è l’essenza più profonda di questa città, essenza che di rado mi è capitato di ritrovare in altri testi, ad eccezione del romanzo Il fuoco di Gabriele D’Annunzio, dove, come Ruxandra in Venezia dalle vene viola, l’autore descrive il lato autunnale, crepuscolare e decadente della città di San Marco.

Parliamo dell’esperienza vera e propria del processo di traduzione di questo libro. Trattandosi di un volume di autrice vivente , con cui si può dunque avere un dialogo, la relativa traduzione sarà forse stata diversa da quella che accade con un classico. Quale incidenza ha la possibilità di un confronto diretto con l’autore?


Diciamo che la mia traduzione è stata, in primo luogo, un’interpretazione del testo. La poesia di Ruxandra Cesereanu è una poesia fitta di immagini, ricca di metafore e di altre figure retoriche. Prima di iniziare con il processo traduttivo propriamente detto, c’è stato bisogno di un lungo percorso di tipo ermeneutico. La prima parte del dialogo, del confronto tra autore e traduttore, ha coinvolto proprio la sfera ermeneutica, l’interpretazione dei testi. Da questo punto di vista Ruxandra è molto aperta, nel senso che accetta anche due letture divergenti di un medesimo testo, purché «giustificate», probabilmente perché traspone nei suoi versi le sue stesse ossessioni, le sue angosce, il suo mondo interiore turbolento e aggressivo, un mondo che non conosce ancora fino in fondo. D’altronde lei stessa ha più volte affermato che la sua poesia è una ricerca, una quête, ma che al termine di questa ricerca lei stessa non sa esattamente che cosa ci sia. Proprio perché nasce dalle sue ossessioni interiori, la sua poesia può essere interpretata in molti modi, anche a secondo della sensibilità di colui che la interpreta. Dopo il dialogo relativo all’interpretazione del testo, è iniziato il dialogo sulla traduzione. Ruxandra ha partecipato attivamente al processo traduttivo (lei comprende parzialmente l’italiano), abbiamo così risolto insieme alcuni problemi di tipo lessicale o grammaticale e sintattico. Anche per questa ragione sono arrivato spesso ad avere otto, nove o anche dieci varianti di una stessa poesia o di uno stesso verso. Io le proponevo sempre tante versioni, non solo di una poesia o di un verso, ma finanche di una stessa parola, di uno stesso termine, di una stessa immagine, perché potevano essere tradotti e interpretati in modi diversi. Infine c’è stato anche un lavoro sul versante del ritmo e della sonorità, sulla «cesellatura» del verso. Quando ci siamo messi d’accordo sulla variante finale di ogni testo, ci siamo resi conto che la maggior parte delle volte Ruxandra sceglieva proprio la mia variante preferita, segno che era in totale accordo con la mia personale visione della sua poesia. Lei stessa ha più volte affermato che questo dialogo che abbiamo avuto negli anni l’ha aiutata a comprendere alcuni aspetti della sua poesia e di se stessa, a capire alcune cose che magari facevano parte del suo inconscio, giacevano enigmatiche nel fondo della sua interiorità, ma che non aveva mai compreso fino in fondo. La sua è una poesia viscerale, che sgorga da dentro e non è assolutamente costruita.

Ruxandra Cesereanu ci raccontava di aver scritto questo volume praticamente nel corso di tredici anni. Quanto Le è servito per fare la traduzione, dal primo processo dell’interpretazione del testo fino alla fine della traduzione dell’intero volume?


Le prime traduzioni risalgono ad un periodo che si colloca tra il 2007 e il 2008. Il ciclo della Malcontenta era già stato tradotto a fine 2008, anche se la traduzione definitiva pubblicata quest’anno è molto diversa dalle prime versioni. Si tratta, in realtà, di una traduzione di cui non mi sono occupato in modo continuo, l’ho lasciata e poi ripresa più volte e credo sia stato un bene. La traduzione ha avuto così il tempo di sedimentarsi, una decantazione e una maturazione della lingua e delle immagini di cui mi ritengo abbastanza soddisfatto. Mi rallegro che il libro sia stato pubblicato molti anni dopo, perché probabilmente se lo avessi terminato e pubblicato qualche anno fa, ben diversa sarebbe stata la forma definitiva, magari sarebbe stata una forma di cui non sarei stato contento al cento per cento. Comunque non è detto che tra due, tre o cinque anni, io non ritorni di nuovo su questa traduzione. Ritengo che nessuna traduzione possa considerarsi definitivamente chiusa, ma solo «sospesa» nel tempo. Per rispondere, quindi, alla sua domanda posso dire che ci sono stati dei periodi in cui ho ripreso in mano i testi e periodi in cui li ho abbandonati, non posso dire precisamente quanto tempo ho impiegato, posso solo dire che sono passati sette anni dalle prime poesie tradotte, e che nell’ultimo anno e mezzo il mio lavoro è stato più continuo, avendo lavorato ogni settimana, quasi ogni giorno.

Il lettore ha davanti un libro con una lunga gestazione: concepito in tredici anni, tradotto dopo altri sette anni, insomma un libro scritto in una ventina di anni. Consiglierebbe il lettore di prendere in mano questo volume per visitare e scoprire Venezia attraverso la poesia di Ruxandra Cesereanu?


Sicuramente, lo consiglio sia al lettore italiano, sia al lettore straniero (a questo proposito spero che il volume in futuro sia tradotto anche in altre lingue). Credo che non solo un lettore straniero, ma anche un lettore italiano possa scoprire attraverso il volume di Ruxandra Cesereanu molti segreti su Venezia che noi italiani magari ignoriamo, esso propone una visione particolare ed eccentrica della città lagunare, ma allo stesso tempo riesce a cogliere la reale essenza di Venezia, da italiano trovo tutto questo estremamente affascinante e straordinario soprattutto perché, come dicevo, proviene da uno spazio culturale e geografico diverso dal mio.

Intervista realizzata da Cristina Gogianu

 

Selezione di poesie


La diciassettesima lettera veneziana

Se fossi stato un barcaiolo qualsiasi del corpo,
avrei dovuto cospargermi le vesti di cenere,
se fossi stato un asceta della mente,
avrei dovuto pronunziare preghiere conficcandomi spine nella carne,
ma ero un essere immondo e non avevo timore.
Sono rimasto nel cimitero per giorni interi
e ho bevuto finché il mio sangue non si è fatto vino,
ho amato finché non ho sentito che la brama si è affievolita
ho odiato finché non ho scoperto che cosa è la superbia senza gloria,
ho mormorato blasfemie finché la lingua non si è spellata
e le piaghe sull’anima non si sono lenite.
E poi alla fine, nudo e accompagnato da un solo spettro segreto,
mi sono diretto verso San Francesco del Deserto.
Là c’era la tomba della donna fatale,
uccisa da tanto liquor veneto,
poiché la città dalle vene viola le aveva fatto perdere il senno e divorato la mente.
Andavo al cimitero abbandonato per essere il custode
del suo collo lungo, sottile e adorato,
così come un tempo spuntava dalle vesti floreali.
Notti d’amore mi tintinnavano nella mente
come bicchieri di champagne,
giorni di parole che ammansivano mi penetravano sotto pelle con veleno di serpente.
Che cosa facevo qui, in questo territorio silenzioso e funesto?
Il suo volto era divenuto teschio di seta,
le costole – meste reliquie,
i denti – canore conchiglie spezzate,
la spina dorsale  – ricordo di un vascello
sul quale navigavo solitario e infelice,
sul mare nascosto in deserti di malachite.
Nell’abisso, l’amata nutriva delfini boreali,
la sua veste d’alghe era accarezzata da altri pesci viscerali,
i granchi smaltavano le sue unghie e l’accarezzavano con un pettine di coralli.
Nel corteo c’erano anche piovre rugose,
meduse mormoranti, seppie d’inchiostro,
che, seppur femmine, si erano innamorate della mia amata,
erede di migliaia di donne che nuotavano sotto Venezia.
Rattristato ho fatto ritorno alla torre del cimitero,
incoronato non ero, principe d’abissi squamosi non sarei stato.
Circondata da pretendenti acquatiche,
l’amata mi mostrava per l’ultima volta il suo corpo rosato.



La ventunesima lettera veneziana

Ho sognato di averti amato per non so quante notti di fila
e che alla fine la pellegrina del corpo si è staccata sussurrando,
i tuoi seni avevano teste di sonnambuli,
i denti avevano preso decine di uomini in ostaggio,
i capelli erano l’ancora di un vascello infestato
da diavoli giunti da profondità  folli.
Nella laguna d’acque sensuali ero lo sprofondatore,
i vortici erano diventati carnali,
la voluttà galleggiava come una morta bianca nel cloro,
l’amore si era fatto immondo
fissando la passione sabbiosa.
Ti ho portato in braccio da San Salvatore fino all’Arsenale,
ti ho trascinato sul molo che profumava di carnascialesche cortigiane,
ti ho frustato con ninfee autunnali,
ti ho baciato le unghie perlate,
dentro di me la pelle era rovente di carezze dimenticate.
L’amore mi aveva fatto urlare come un uccello dagli occhi cavati,
nel delirio avevi polmoni incolori e vetrosi,
respiravi attraverso il mio corpo come un arcobaleno,
ero una galleria verso la vita e nel cuore sognava follemente uno scarabeo.
Quanto avrei voluto generarti
essere il tuo amante di diamante e poi ammazzarti!
La mia mente inventava lascive apparizioni,
il cervello si era fatto erboso,
della carezza del sole e della luna ero diventato geloso.
E quando ho toccato la vetta della nausea carnale,
sono precipitato,
annusando senza afflizione lo sfolgorio letale.



La ventiduesima lettera veneziana

La mia bocca così tante volte ti ha ucciso
con parole impudiche e fiori d’abisso,
il mio corpo così tante volte ti ha sognato,
desiderando carezze di ragno e bianchi rinnegamenti del peccato.
Ero posseduto dallo spirito della laguna e dal suo profumo malato,
le vene con pezzi di luna tremavano alla tua apparizione bagnata,
per te sono stato uomo immacolato dalle lunghe ciglia e adoratore disgustato.
Eri la figlia della seppia argentata,
avevi cosce profane  e occhi semi-celesti.
Nuotavo nel delirio profumato di gelsomino,
i dogi erano miriadi, su gondole nere di peste,
volevano sacrificarti in acque sporche di melma.
Ti sei nascosta nel baldacchino, coi tuoi piccoli artigli di leonessa ferita,
per allontanare lo spirito di Venezia dalla carne d’oro brunito,
poiché eri divenuta anche tu una laguna impazzita,
con isole peccaminose e chiese ipnotiche,
le campane riecheggiando in profondità narcotiche.
La città puzzava di pesce fino al cielo,
l’immondizia portava una corona d’etere,
giallo-arancione erano i capelli dei palazzi antichi,
le mura avevano groppe tremanti e femminee,
nei campielli ruggivano i gioiellieri con undici dita alle mani,
la laguna apparteneva ai deformi e agli uomini con denti di cane.
Potevo morire senza gloria, uccidere, fantasticare,
il mio cervello per un battesimo alchemico si preparava,
dal quale, lucente e incoronato con pietruzze di giada, sarei rinato,
come un immacolato di Venezia, cavalier Galeato.



La Malcontenta allo spasimante anonimo

Beati coloro che non hanno la memoria devastata.
Avevo pietà di te, innamorato immondo,
la mia castità era una malata mentale,  
mi stringevi invano, con candore boreale,
navigavamo sul Rio dei Mendicanti,
io, con lo sguardo lascivo, tu, spaurito e soave,
la gondola era spiegata come un letto mortuario
in cui peccatori di cartapesta si sarebbero toccati come in un ossario,
i palazzi crepitavano incendiati dai banchetti,
i ponti avevano lunghe chiome di fanciulle e puledre,
il Canal Grande era un serpente con gli occhi strappati,
come sapienti, tiravano fuori la lingua i mascherati, 
ci colpivamo l’un l’altro, scivolando sotto le vesti,
eravamo due uccelli febbrili,
io, ebbra di pietà, tu, ebbro di timidezza
e della docilità dell’amore carnale,
quello che si impossessa delle menti,
senza elevarle ai cieli,
ma sprofondandole nelle braci e nelle nebbie dello scoramento.
La campana di San Michele e i suoi morti allegri suonavano sul far della sera,
aspettavamo che giungesse la profanazione e che ci avvolgesse nella gondola-letto,
anche se non ci eravamo morsi l’un l’altro,
né avevano sfavillato le nostre pelli,
ma solo con gli occhi ci eravamo amati e con viscere di agnelli.
Come due efebi ci accarezzavamo nell’aria,
dai nostri corpi proveniva un terrificante lamento,
le nostre carezze avevano bocche e denti che mordevano,
troppo diafane sarebbero state le ferite che non fanno male.
Immaginavamo di fare l’amore come i giovani dogi,
con ampi mantelli per il secondo corpo
plasmato con la carne irreale del mezzogiorno e della mezzanotte,
con le viscere come frutti stramaturi,
il secondo corpo che nascondevamo nella mente,
per i tempi amari e da rinnegare.
Ci toccavamo con il corpo dell’anima come i mistici ossuti,
la nostra pelle era luminosa e non carnosa,
al suo interno crollava una pia cattedrale
da cui volavano via uccelli dai denti di seta.



La Malcontenta in delirio

Ho giaciuto accanto al Lazzaretto, nella passione vischiosa,
ero mascherata, la mia mano come un pesce nell’aria tremava succosa,
il mio corpo distillava alcool forti e silenziosi,
il torace mi cingeva come un mollusco.
I dogi mi cercavano invano, mormorando di una cortigiana fatale,
sapevo toccare solo con il disgusto di un morbo.
Rudi uomini narcotici raccontavano del mio corpo.
Lascivamente la passione era divenuta collosa, 
la luna mi picchiettava sulla testa con becco di zaffiro
poiché la discordia del mio sangue aveva un sapore appassito.
Lebbrosa e stretta nella carcassa di carne,
cefalopode con gli occhi spalancati dal tanto piangere,
volevo che nessuno sentisse il mio grande affanno.
Mi disfacevo sul fondo dei vascelli abbandonati,
là dove solo i ratti erano re e regine,
l’unico luogo dove la paura viola d’amare
poteva annientarsi come una volpe che urlava scorticata.
Ero sopraffatta dall’uomo chimerico che bramavo.
Per quanto urlassi rannicchiata sulle isole o in un umido palazzo,
non potevo impedire che il mio struggimento si rivelasse. 
Da Torcello lo si udiva contorcersi come un’armatura liquefatta
o come la febbre di uno spettro dalla mente posseduta.
Allora mi sono nascosta sull’isola dei morti.
La mia superbia era in macerie e la mia umiltà era febbrile,
svergognata e debole d’animo balbettavo come una demente,
discesa accanto ai morti, nessuno poteva più ferirmi,
poiché le vergini di Trieste avevano occhi di rana
e maledicevano chiunque sprofondasse al mio fianco.
Gli annegati d’altri secoli, dagli intermondi,
mi guardavano curiosi, con le loro luci nebbiose,
il gelo delle loro bocche mute mi era entrato nelle ossa,
ma mi aveva guarita un po’ dall’amore incompiuto.
L’uomo chimerico che sentivo nelle viscere ipnotizzate
sembrava odorare di candele e cipressi,
così il cuore gli ho strappato e con disonore l’ho divorato.


(n. 11, novembre 2015, anno V)