Radu Ţuculescu, «Stalin, con la zappa in spalla»

Stalin, con la zappa in spalla (titolo originale: Stalin, cu sapa-nainte) è un romanzo dal carattere semi-autobiografico, in cui Radu Ţuculescu sviluppa, con eccezionale maestria, un parallelo tra i due periodi della vita di un uomo nato a ridosso degli anni ’50: un’infanzia vissuta all’insegna della spensieratezza, dell’avventura e del pericolo, in un Paese nel quale il senso di reciproco sospetto va diffondendosi in maniera capillare nell’intero tessuto sociale; e l’età adulta, in cui il protagonista, Adrian Loga, dopo il fallimento del proprio matrimonio e con una figlia già all’università, quindi prossima a lasciare casa, si trova a dover fare i conti con la propria solitudine.
Sullo sfondo, naturalmente, la Romania, nei due rispettivi momenti storici. Da una parte, gli anni ’50 e ’60, in cui l’ingenuità e la spontaneità del piccolo Adrian fanno da contrappunto alla durezza di un sistema dittatoriale basato sul sopruso e sul controllo generalizzato della vita privata. Dall’altra, la Romania di oggi, nella descrizione di rapporti umani degradati e nella triste interpretazione che di essi spesso offre la moderna società occidentale. In tal senso, sarebbe erroneo circoscrivere la storia narrata al contesto di provenienza dell’autore, la Romania o, più specificatamente, la Transilvania. Quello che abbiamo di fronte è un romanzo che indaga la parte più intima dell’essere umano, con le sue debolezze e le sue frustrazioni, caratteri che sussistono a qualsiasi latitudine. La scelta di narrare in sequenza alternata le due fasi della vita del protagonista, più che un’opzione stilistica tesa a dare maggiore dinamicità al racconto – se mai ce ne fosse bisogno –, ci sembra un modo efficace per conferire un carattere di trasversalità temporale a quelli che sono i due temi cardine del romanzo: la poesia e la miseria dell’esistenza.
Radu Ţuculescu costruisce un percorso narrativo piuttosto complesso, in cui egli sa muoversi con grande abilità, operando quei necessari mutamenti di stile e di registro che rendono ancora più avvincente e coinvolgente la lettura. La critica romena non ha tardato nel riconoscere all’autore questa eccellente dote: «Esplorando soprattutto le zone d’ombra di un’umanità composita, multiculturale, di periferia centro-europea, Ţuculescu  passa con disinvoltura dalla parabola storica all’iperrealismo, dalla fabulazione ‘medievalista’ nel genere di Eco a un magico realismo transilvano, dal racconto e il diario di viaggio al romanzo di più ampio respiro…» (Paul Cernat in «Observator Cultural»).

L’incontro con l’autore e il progetto di traduzione

Incontrai l’autore tre anni fa, a Torino, in occasione del Salone Internazionale del Libro, al quale io partecipavo per la prima volta con il sovvenzionamento dell’Istituto Culturale Romeno di Bucarest e di Venezia. L’anno seguente riprendemmo i contatti per mettere a punto il progetto di traduzione, che fu presto accettato da una casa editrice di Roma, Aracne, presso la quale avevo già pubblicato l’antologia poetica bilingue romeno-italiano di Nichita Danilov. Tra i punti a favore del libro contò certamente molto il fatto che, appena uscito, nel 2009, venne subito eletto «Romanzo dell’anno» dall’Unione degli Scrittori di Romania di Cluj-Napoca. Il fatto, poi, che alcuni tra i più importanti critici e studiosi di letteratura si fossero spesi in commenti particolarmente elogiativi a riguardo accrebbe ulteriormente il mio interesse e la voglia di cominciare a tradurlo. A tal proposito, credo sia doveroso menzionare, oltre al già citato Cernat, Cristina Balinte, Daniel Cristea-Enache, Tudorel Urian e Ion Bogdan Lefter, del quale riporto una breve citazione dalla quarta di copertina: «Prosatore eccezionale, Radu Ţuculescu è una presenza imponente nella letteratura romena contemporanea, uno scrittore europeo». L’idea di poter offrire al pubblico italiano un testo che nel proprio Paese aveva ottenuto tale successo rappresentò anche per me un motivo in più per decidere di mettermi a lavoro.

La scelta di tradurre in italiano Stalin, cu sapa-nainte sembra aver trovato la conferma della sua validità nell’interesse dimostrato dagli studenti di Lingua e Letteratura Romena dell’Università della Calabria, accorsi numerosi all’incontro organizzato in occasione della visita dell’autore presso il nostro Ateneo. Se è vero che il tema centrale del corso di quest’anno è stato quello dell’infanzia – in cui rientra a pieno titolo il romanzo di Radu Ţuculescu – è altrettanto significativo e naturale, però, che l’attenzione dei presenti – tutti più o meno ventenni – sia stata catturata più che altro dal rapporto tra l’Adrian padre e sua figlia Adelina, uno dei temi centrali del libro, che l’autore riesce mirabilmente a descrivere in tutta la sua complessità, utilizzando un tono diretto, a tratti dolce, a tratti ironico, ma sempre squisitamente reale.
Durante la presentazione del romanzo presso la libreria Ubik di Cosenza, invece, si è delineata una sorta di ribaltamento di prospettiva tra il pubblico che, essendo formato in gran parte da adulti, ha focalizzato il proprio interesse sui passaggi in cui il protagonista è ancora un bambino, subendo certamente il fascino di una narrazione in cui si esalta la poesia delle cose semplici, tra un tuffo nel fiume e il caldo profumo di sapone e germogli che invade la cucina il giorno in cui tutta la famiglia si riunisce per partecipare al «rituale del bagno».
La forza del romanzo risiede proprio nella capacità di coinvolgere ed emozionare le diverse generazioni che, seppur inserite in contesti storico-sociali molto diversi, si ritroveranno insieme a scontrarsi con la durezza e la poesia di una realtà messa a nudo, a riflettere sui temi essenziali della vita, e a scoprire, attraverso la lettura, di essere accomunate dalla stessa, ineluttabile, finitudine.

Estratto dal romanzo «Stalin, con la zappa in spalla»

Mia madre trascorreva in cucina gran parte della giornata. A mio padre piaceva mangiare bene. In ospedale i malati non gli concedevano un attimo di respiro. Le visite interminabili gli producevano un grande vuoto allo stomaco. A pranzo dovevano esserci due portate di cibo e un dessert. Senza eccezioni.
Quel giorno mi trovavo in cucina, concentrato su un libro da colorare. La radio era sull’armadio. Era una grande scatola di legno marrone. Davanti aveva una tela giallina, due bottoni e un lungo vetro rettangolare con lineette e numeri, sotto il quale si muoveva un’asticella rossa. Era un apparecchio tedesco. Credevo che in quella scatola si nascondessero dei nanetti grandi quanto Pollicino che parlavano e cantavano tutto il giorno. Mentre mia madre lavorava in cucina, la radio restava accesa. Sebbene fossi impegnato a colorare, nelle mie orecchie entravano parole e musica. Quella mattina i nanetti avevano parlato con voce grave, piagnucolosa, e avevano suonato musica lenta, triste. Era morto un uomo che si chiamava Stalin. Il nome mi sembrava conosciuto, lo avevo già sentito pronunciare in casa o tra le cataste di legna.
Coloravo con il naso quasi incollato alla pagina. Mia madre non mi sgridò per la posizione in cui stavo lavorando, come faceva altre volte, dicendomi che sarei diventato un guercio con gli occhiali. Era troppo impegnata a cucinare. La sera avremmo avuto ospiti. Mi sembrava abbastanza strana quella festa proprio nel bel mezzo della settimana.
- Chi era Stalin? chiesi a mia madre, senza staccare gli occhi dalla pagina.
- Il capo di uno Stato vicino, rispose, senza smettere di tagliare la cipolla che le inumidiva gli occhi.
I nanetti all’interno dell’apparecchio tedesco continuavano a parlare e a cantare con lo stesso tono. Saranno dispiaciuti per la morte del vicino, mi dissi, e presi a colorare un lupo acquattato vicino a dei funghi giganteschi. Il lupo lo colorai di nero e i funghi, invece, li feci rossi con dei puntini verdi.
- A vederli così, quei funghi devono essere molto velenosi, disse mamma sorridendo. Meglio che il lupo non li mangi!
- Il lupo è furbo, replicai, convincerà gli altri a mangiarli, lui fa solo finta.
Quando alla radio i nanetti avevano iniziato a comunicare il livello delle acque del Danubio in diverse lingue, mamma si accorse che non le bastavano lo zucchero e la cannella. Doveva uscire a fare la spesa, il che mi produceva una gioia esplosiva. Mi piaceva accompagnarla per negozi. Anche a mia madre piaceva. Le facevano sempre i complimenti per il ragazzino carino che era riuscita a tirare su. Il dottore Dumitru Loga lo conoscevano tutti in quella piccola città. Erano in tanti ad avere bisogno di lui. Dopo i complimenti per il mio visino angelico, inevitabilmente arrivava la domanda: come sta il dottore, è a lavoro? Dove diavolo vuoi che sia a quell’ora se non a visitare pazienti e a scrivere ricette!?
Andammo al negozio giù in centro. C’era quasi tutto nella nostra cittadina. Mia madre mi aveva preso per mano. A volte accettavo, altre volte storcevo il naso. Ero grande, avevo quasi cinque anni, potevo anche camminare da solo. Dovevamo attraversare il parco. Non potei astenermi dal raccogliere alcuni sassolini bianchi lungo il viale. Poi li lanciai, uno alla volta, nell’acqua verdastra di una piccola fontana che funzionava solo nei giorni festivi. Mi piacevano i cerchi che si formavano dopo che i sassolini colpivano il pelo dell’acqua. Mia madre mi esortò a finire in fretta. I preparativi per la sera erano pronti solo a metà. Il tono della sua voce era pacato, non sembrava infastidita. Restò accanto a me fino all’ultimo lancio. Anche a lei piaceva vedere increspare il pelo dell’acqua. Non c’erano molte distrazioni nella nostra piccola città. Le feste a casa con gli amici, un matrimonio, un battesimo, un anniversario. E un cinema con la galleria e il tavolato che emanava odore di gasolio. A volte veniva il circo. Altre volte si organizzava qualcosa alla Casa della Cultura. La domenica qualcuno osava persino andare in chiesa.
Giunto sulla strada principale, dove a quell’ora non passava quasi nessuno, tutt’a un tratto mi misi a cantare. Mi venne così, non ho la più pallida idea del come e del perché. Mi capitava di canticchiare ogni tanto, mentre giocavo da solo. Quel giorno, con un sole radioso, in pieno centro, il mio canto proruppe aspro, impetuoso, rivoluzionario. Aggrottai persino le sopracciglia. Le parole fischiavano tra le labbra come sassolini nell’aria, facendole tremare.

 Avanti Stalin, allegro e fiero!
Con la zappa in spalla va per il cimitero…

 



Danilo De Salazar
(n. 10, ottobre 2013, anno III)