«Verrà il giorno» di Gabriela Adameşteanu. Una lettura di Diego Zandel

Un libro molto triste, questo di Gabriela Adameşteanu, Verrà il giorno, appena tradotto da Celestina Fanella per i tipi dell’editore Cavallo di ferro. Ma, anche, un libro bellissimo, struggente. È la storia di Letiția Branea, colta nel suo passaggio dall’età dell’adolescenza a quella della maturità, in una Romania degli anni Cinquanta, già in pieno comunismo stalinista, ovviamente, prima però dell’avvento di Ceausescu, praticamente alla vigilia del suo regime.

È una Romania in cui sopravvivono ancora barlumi di benessere, nella moda (le calze di seta senza la riga), nelle canzoni che ancora arrivano dall’occidente (Only you, Aznavour), ma la protagonista del romanzo, la nostra Letiția, vive in una penuria estrema, con la madre Margherita e lo zio Ion, in una casa in subaffitto, in un villaggio sperduto di campagna. Non è casuale: il padre di Letiția è in carcere, ai lavori forzati, per essere caduto in disgrazia nel partito, forse per vecchi agganci con la destra. Anche lo zio Ion, esimio professore, costretto a scrivere articoli di grande interesse culturale che altri firmano, vive di conseguenza ai margini della vita intellettuale, e non solo di quella. Per una serie di circostanze, legate alla sua indipendenza di giudizio, ha perso una cattedra importante e fu mandato a insegnare in una scuola rurale, lontana. Però è l’uomo che illumina il cammino di Letiția, la quale, anche grazie a lui, finirà le scuole superiori e potrà trasferirsi a Bucarest, per studiare all’università. Qui vivrà in una sorta di convitto, dividendo la stanza con altre tre compagne, in un rapporto complesso, spesso conflittuale, segnato dal suo essere priva di mezzi e figlia di un perseguitato politico. L’importanza della figura dello zio Ion risalterà al momento in cui giungerà la notizia della sua morte, per riviverlo attraverso la memoria e il rimpianto. Ma gli elementi che s’intrecciano nel romanzo, compresi quelli epifanici, ma significativi, come l’apparizione della vecchia Niculina, sconfitta fisicamente e moralmente, dedita all’alcol, capaci di restituire l’atmosfera degli ambienti e dell’epoca, sono tanti.

Gabriela Adameşteanu ha la straordinaria capacità di trasmettere al lettore la dimensione psicologica in cui vive Letiția attraverso le cose, le persone, gli aspetti esterni, il suo sguardo, le descrizioni, che sostituiscono i moti dell’animo. Lo fa sia nella prima parte del romanzo, che racconta la vita della protagonista con la madre e lo zio in campagna – una campagna misera, sporca, disordinata, fangosa – sia nelle altre due parti, quando sarà a Bucarest, nel confronto con le sue compagne, sottolineando gli aspetti che la differenziano da esse: la moda, appunto, i divertimenti, i pettegolezzi, le invidie. E ciò appare efficace anche in virtù del fatto che l’io narrante è la stessa Letiția, che si sottrae così ad ogni rischio di solipsismo psicologico per restituirci intero il quadro sociale e storico, la dimensione esistenziale individuale e collettiva, in cui la protagonista vive.

A riguardo esistono pagine esemplari. Ne riporto solo un brano, per dare il senso della bravura della Adameşteanu, un momento in cui la protagonista, tornata a casa da Bucarest, vede la madre al fornello: «Restammo là mentre fuori pioveva e non si vedeva nulla, la pioggia sporcava l’aria, monotona e deprimente. Guardandola mentre girava le patate con il coltello, rannicchiata vicino al fornello, co le sue anche troppo pesanti in equilibrio instabile sui calcagni leggermente ingialliti, l’avevo odiata con tutte le mie forze. Perché era come se vedessi me stessa girare le patate che friggevo per il pranzo ogni giorno e la sera mi accontentavo di una bottiglia di latte e un pezzo di pane per potermi comprare, dopo alcuni mesi, la stoffa per il tailleur tanto sognato che avrei poi fatto cucire a casa per risparmiare».


Diego Zandel
(n. 10, ottobre 2012, anno II)