«Uccelli del cielo» di Vasile Andru. Una lettura di Diego Zandel

Ci sono paesi la cui letteratura continua a fare i conti con la propria storia, quella più recente. La Romania è uno di questi, con romanzi le cui tematiche affondano negli anni di Ceausescu. Uccelli del cielo di Vasile Andru, edito dalle Edizioni Controluce di Nardò, casa pugliese che dedica molta attenzione agli autori balcanici, è uno di questi. Si potrebbe definire un romanzo composto di due storie, distinte l’una dall’altra, e tenute insieme da un io narrante che intreccia con i rispettivi protagonisti delle stesse un rapporto di complicità esistenziale al punto di diventare il loro testimone. E questa testimonianza è il romanzo: gli uccelli del cielo del titolo sono loro. E, come tali, in qualche modo – seppur liberi – vulnerabili.

I due protagonisti sono Sandu Tariverde, uno scrittore e intellettuale di grande finezza e coraggio, caduto in disgrazia per la sua abitudine di dire sempre la verità, finito per strada, che vive ormai in quelle case della vecchia e nobile Bucarest in via di demolizione per far posto a spazi che dessero risalto alla megalomania del regime di Ceausescu; e Tofana, una vagabonda in fondo anche lei, che invano cerca il lasciapassare per un paese verso il quale emigrare, pur di andare via, lontano dall’oppressione della sua Romania di quegli anni.
L’io narrante, che potrebbe anche essere l’autore stesso (ma in letteratura, si sa, come dice lo scrittore spagnolo Javier Cercas, «il compito dello scrittore è mentire per arrivare, attraverso la menzogna, a una verità superiore») incontra Sandu Tariverde mentre la casa in cui ha abitato, l’ennesima attraverso la quale si è di volta in volta spostato fino a quel momento, viene abbattuta e lui è costretto a cercarne un’altra. Tra loro un pacchetto di sigarette, una bottiglia di vino o di grappa, quel tanto che serve a Sandu per rendere meno cupa, più sopportabile, la vita. Intanto sfila la situazione politica e culturale del Paese (e, in questo senso, è probabile che le idee, i giudizi, molto severi, del vagabondo, corrispondano a quelle dell’autore). Illuminante a riguardo la scena in cui Sandu arriva alla casa degli scrittori, Casa Monteoru,  dove era stato proibito l’alcol dopo che una poetessa aveva  chiesto un brindisi in onore del poeta G.H. «assassinato dal compagno dittatore!» e in sala era calato un silenzio imbarazzante senza che nessuno mostrasse solidarietà. Così gli scrittori che ci venivano, se volevano dell’alcol, se lo portavano da casa nelle fiaschette. Così fecero tre poeti, i quali, vedendo Sandu, gli dicono di venire a bere con loro. Al che Sandu, senza esitare, risponde: «Grazie, ma io non bevo con dei leccapiedi». Ci sono a riguardo altri, interessanti cammei.  

Il comunismo e il suo fallimento

Ma le parti che più inducono alla riflessione sono quelle relative al comunismo e al suo fallimento. Significativo il ricordo della venuta e del discorso di Krusciov in Romania all’epoca della destalinizzazione («Che fine hanno fatto le polpette e la polenta? La carestia non è comunista!») o il racconto del colloquio che Tariverde fa con un ministro. Riflessioni valide tutt’oggi che pongono il grande problema di una società in cui sia possibile coniugare la libertà e la giustizia sociale in termini equilibrati, in un quadro di autentico umanesimo. Un aspetto che sfugge completamente oggi nel mondo capitalista che, sull’altare di un arricchimento fine a se stesso, semina alle sue spalle una povertà sempre più diffusa. D’altra parte, allora, nel mondo comunista la richiesta di libertà si accompagnava anche a una condizione di fame, che fa dire Sandu Tariverde al ministro: «Nessuno può arricchirsi né diventare saggio, se gli metti un bavaglio alla bocca e un coltello alla gola». Il discorso è chiaro, eppure il ministro gli risponde: «Sei impazzito? Ma noi abbiamo lottato contro i ricchi e li abbiamo cacciati via! Tu vuoi di nuovo i possidenti, gli oppressori?». E anche il ministro ha, dalla sua, una qualche ragione, ma è chiaro che la risposta complessiva è un’altra. Quale? Nessuno ancora l’ha trovata, mentre il mondo  va a una deriva che conduce a un nuovo medioevo.

Meglio prima? No. Anche se l’altro uccello del cielo vive ancora la speranza che ci sia un paese che l’accolga, certa che esista fuori dal suo. Gli incontri della donna con l’io narrante sono all’insegna di questa ricerca sul dove andare, che ha due aspetti: uno geopolitico (Tofana busserà alle porte di tutte le ambasciate presenti a Bucarest, subendo anche le torture della terribile Securitate, la polizia di Ceausescu), ed uno spirituale, un campo religioso in cui liberare la propria coscienza, che in Romania era interdetto ad ogni livello («Tutto quello che aveva a che fare con lo spirito e lo psichico era etichettato come ‘misticismo e sovversione’ e considerato un delitto»).

Il disegno dell’autore, con questo romanzo, è chiaro, per altro annunciato nella interessante introduzione che ne racconta anche la genesi. «È un romanzo sulle ‘demolizioni’ psichiche, ma anche sulle demolizioni edilizie a Bucarest durante il decennio romeno più opprimente: l’ottavo». E direi che è riuscito. Ancor più perché, pur testimonianza di un’epoca, lascia al lettore domande aperte sul futuro non solo dei romeni, ma di tutti.




Diego Zandel
(n. 7-8, luglio-agosto 2013, anno III)