«3D»: poesie 2003-2013. Gheorghe Vidican, quando il tutto vive nei frammenti

Gheorghe Vidican è uno dei nomi della poesia romena contemporanea. Di recente pubblicazione la sua raccolta 3D, poesie 2003-2013, nella traduzione di Tatiana Ciobanu ed Elena Todiras, versione poetica di Annamaria Ferramosca, supervisione di Gabriella Molcsan (CFR edizioni, Sondrio 2015). Ne proponiamo una presentazione e selezione di versi a cura di Laura Rainieri.


Ritengo prezioso questo libro di poesie romene di un autore vivente sconosciuto in Italia, tradotte con la collaborazione di poetesse e traduttrici italiane e romene. Grazie all’impegno culturale di quattro donne, che hanno compreso la bellezza di questa poesia e hanno voluto diffonderla, noi oggi possiamo leggere in italiano le poesie di Gheorghe Vidican, autore già tradotto in varie lingue. È questo il migliore modo per entrare in consonanza con altri paesi, come ho sottolineato più volte in opere scritte, manifestando il mio interesse per la Romania.

Al di là di questo, che costituisce in sè un ottimo progetto, e per cui ringrazio tutte le curatrici, le poesie di Vidican meritano di essere conosciute. Questo florilegio dal titolo 3D è tratto dalla sua produzione a cominciare dalle prime opere degli anni ’80 (uscite soltanto nel 2003) fino a quella odierna edita in riviste romene.
Per quanto l’Italia e la Romania abbiano da sempre avuto contatti di tipo religioso, politico e culturale, le traduzioni di autori romeni in Italia e viceversa si sono addensate in questi ultimi decenni, dopo la massiccia immigrazione romena degli anni ’90. La seconda generazione ha sentito il bisogno di scrivere anche in italiano e gli scrittori italiani di essere tradotti in romeno. In tempi precedenti la cultura romena si esprimeva a Parigi e in lingua francese possiamo trovare opere del passato di autori rilevanti, che per motivi politici si sono rifugiati in Francia, e mai tradotte in italiano.
L’occasione di conoscere l’Autore ci è stata offerta nel mese di novembre 2015, quando egli ha compiuto un tour in Italia (Roma, Guidonia, Milano) per presentare appunto questo libro: a Roma alla Biblioteca Nazionale e naturalmente, con grande affluenza di pubblico, all’Accademia di Romania, molto attiva in proposte culturali.
La prefazione di Anna Maria Ferramosca è molto accurata e riesce a immettere lo scrittore italiano, attraverso un sintetico e denso percorso dell’opera del poeta, nel «clima» poetico del Nostro, affatto facile in sè, e, come viene sottolineato, affatto facile da tradurre.

Ho dovuto leggerlo molte volte, (la buona traduzione e versificazione mi hanno sicuramente aiutato) anche dopo avere sentito l’ottimo intervento di Manuel Cohen alla Biblioteca Nazionale, dove si è sottolineato il fascino di questa poesia che in una nuova, modernissima prospettiva, sa cogliere il tutto dai frammenti e sbalzare il lettore dalla terra al cielo: sufficientemente lontana dalla poesia romena classica e contemporanea. E anche dopo l’intervento commosso di Elena Todiras per avere contribuito a questa impresa, e a seguire la lettura in romeno dell’Autore e di Tatiana Ciobanu, che hanno restituito il metro cantabile di questa lingua che sempre mi attrae, così vicina al latino, e dunque alla nostra.
Mi sono chiesta (ma la risposta la potrà dare solo il poeta) com’è possibile che negli anni duri della dittatura, anni ’80 circa, Vidican riesca a inventare una poesia così spaesante, dentro e fuori la realtà, senza mai indulgere a fatti occorsi o a riferimenti tragici, com’è per la tradizione romena, incatenando i fatti alle parole, e «nominando» le cose per lui essenziali con suggestive iterazioni di sostantivi o di versi chiave: già questo la dice lunga sulla sua capacità di manovrare le parole e di esprimersi, sorvolando.
Questa capacità, per quel che so, si è sviluppata nella tradizione poetica romena anche per necessità politica, specie a Bucarest negli anni caldi del comunismo nero, con i famosi calembour, scritti e recitati nei salotti e in particolare in quello di Nina Cassian frequentato anche dal giovane Paul Celan.
Ho anche osservato, attraverso la lettura di questa poesia, quale percorso radicale ha compiuto il surrealismo francese. Beaudelaire ha influenzato la cultura europea e in particolare romena su cui si è formato, non ultimo, anche il poeta Bacovia. Egli è il maestro della sonorità delle anestesie delle atmosfere neglette, e, con i suoi incitamenti a cogliere gli aspetti del sogno e della realtà al di là di ogni dato sensibile, ha creato la poesia moderna: nel perseguimento di una unità tanto profonda quanto tenebrosa per giungere all’indicibile e all’ineffabile. E questa mi pare la strada percorsa da Vidican, influenzato anche da esperienze personali.

Gheorghe Vidican è nato nel 1953 nel distretto di Bihor, e a Oradea ha compiuto studi di Ingegneria Manageriale e Tecnologia. Attualmente lavora come referente culturale dell’Associazione dei disabili visivi di Bihor-Salai. Questo distretto, è bene precisare, si trova al confine con l’Ungheria e per la propria storia ha sviluppato una cultura diversa da altre regioni romene, coprendo la Romania un territorio vasto, etnicamente assai composito. Non sappiamo fino a che punto gli studi scientifici abbiano influenzato la poesia di Vidican, ma l’insegnamento ai ciechi attraverso l’uso del braille certamente ha lasciato il segno.
Una poesia tratta da Aspro il mio sangue (2012) s’intitola braille e il primo verso recita «l’involucro delle dita spoglia l’occhio della vista». E in altre due poesie: «per il tuo compleanno le dita dei ciechi aprono la finestra bisbigli in braille le tue labbra…» (Per il tuo compleanno, p. 73). Poi, «…una vecchia puttana la sorte raduna gli orbi tra le tue dita descrivendo la luce come un giorno di festa…»  (Il levar del sole, p. 71).                                  

Vidican ha spinto all’estremo il surrealismo che Cristian Livescu ha chiamato «residuale», come ci ricorda la Ferramosca nella prefazione, attraverso una propria metodologia: i lacerti memoriali incastrati nel presente come una spina o una piuma, le esperienze odierne seminate nel discorso poetico e i riferimenti culturali, che rivelano una sicura formazione, fanno sì che la sua poesia dipani agli occhi del lettore un collage senza tempo, un presente affiorante che si fa storia individuale (senza mai soffermarsi sul soggetto «io») e certamente collettiva. Un grande e sofisticato vaso di Pandora dove il poema-tutto viene sapientemente racchiuso.
Per la resa poetica Vidican abolisce la punteggiatura e la lettera maiuscola anche ai nomi propri, equiparati al resto; accosta in sintonia o in contraddizione elementi tra loro diversissimi, depistando continuamente il lettore, nascondendosi come un mago dietro il flusso delle parole, esibendo di preferenza metafore azzardate con una sonorità che emerge nella lettura in lingua madre.
Questo conquista il lettore, chiamato a trascurare la ragione per un diverso metro interpretativo, all’altezza della complessità di un oggi non lineare, ma sconvolto e affastellato come in una pittura informale o bruciante come nei famosi sacchi di Burri.
Nemmeno i filosofi riescono più a interpretare il mondo odierno con il metro di una volta. E aggiungiamo il computer, internet, 3D e la realtà riflessa, e tutto quello che stanno inventando intorno a queste nuove soluzioni comunicative: e si comprenderà quanto difficile sia comporre poesie adeguate. Occorre dunque qui, dove anche questi elementi vengono considerati, abbandonarsi all’onda del verso, e come un «mendicante» riunire le briciole in pane sostanzioso.
Se solo consideriamo qualche titolo delle sue opere, ci accorgiamo di come questo poeta lavori, cioè per ossimori, contraddizioni necessarie alla sua poetica. Utopia della sabbia (sabbia e clessidra compaiono spesso forse per il scivolare via del Tutto): un concetto astratto ed elevato come «utopia» accostato a un sostantivo concreto e usuale come «sabbia»;  oppure Trattato del silenzio (silenzio costituisce una parola chiave) quando il silenzio non può essere che silenzio; oppure I ginocchi del Tamigi creando una figurazione mitico-pagana del fiume; o Le farfalle in trincea con evidente riferimento metaforico a una chiusura, o a una mancanza di libertà di quale che sia tipo. 
Non solo nei titoli, ma in tutta l’opera compaiono simili accostamenti, come in Giovane donna (p. 32) «Il silenzio si separa dallo spazio» (e non il tempo dallo spazio) rendendo il silenzio ancora più corposo e solitario «perché sorga una casa dalle porte agonizzanti». Questo tratto stilistico, in aggiunta a quanto già espresso, mi pare costituisca parte di una metodologia che rovescia l’ordine consueto della percezione delle cose.
Trovare poi varianti maturate nel tempo tra raccolta e raccolta, in questo libro non è facile, dato le poche poesie tradotte, quasi una carta di presentazione, dove temi e termini si rincorrono.  

Da un punto di vista formale si nota una strenua ricerca del verso e della parola fino alla soluzione di una prosa-poesia di Aspro il mio sangue del 2012 dove, nella poesia omonima, ma anche in altre, egli carica e varia di senso la stessa proposizione per farla precipitare alla fine con tutto il significato che il poeta vuole conferirle: «nel loro canto aspro il mio sangue luce» «aspro il mio sangue scorre dai rubinetti» per chiudere con «brandelli di tempo circondano l’aspro mio sangue». Trovo molto interessante questo avvitarsi del verso e di tutta la composizione intorno a un perno forte.  
Dopo questa esperienza, si nota come il Poeta torni al verso, anzi in lei non sapeva a quattro quartine (Maltrattato del silenzio 2013). Questa poesia, nel contenuto e nella reiterazione del verso finale riprende Nevica (Trattato del silenzio 2006) ma, sembra dire il poeta, le cose in amore si sono rovesciate. Le due poesie sono molto belle e, per quel che posso capire, si riportano alla tradizione popolare, un vero tesoro poetico di questo paese, nato spontaneamente, nello svolgersi aspro e accidentato della storia: un tesoro di sentimenti, di fresca immaginazione, di sicura intuizione lirica espresso nelle «doine» e nelle «hore» da cui nessun poeta romeno ha potuto prescindere, così come la Natura è presente in tutte le sue manifestazioni, non come descrizione, ma come soggetto vivo.
Di tutta la produzione lo stesso Vidican indica come complete o preferite le due lunghe poesie il santo dei vagabondi e 3D (ambedue dalla raccolta Farfalle in trincea, 2011), forse perché raccolgono le tematiche, altrove sparse, che gli stanno a cuore.
Sembra infatti identificarsi il Nostro nei numerosi personaggi, tanto più amati perché ultimi, citati in il santo dei vagabondi, forse un travestimento dello stesso personaggio: il viandante con una bocca esausta di parole, un cavaliere che dopo la lotta con i ricordi abita una stanza divenuta un giardino di papaveri (si rammenta Papaveri e memorie di Paul Celan?), il viandante ricco di poemi, il freddoloso cui brucia le mani «quasi al galoppo il nitrito del passato», il mendicante sul cui palmo ardono l’erba e le foglie, il barcaiolo che naviga il rosa screziato dei capezzoli: per tutti il poeta sembra invocare l’amata, che il suo fuoco li possa raggiungere: «sconfina nel tuo selvaggio rogo/amata».  Come il «passante» e il «viandante», così la donna nella sua idealità e bellezza, ma anche la peccatrice che protende la mela, sono un punto di riferimento costante e l’amore e il corpo femminile e la maternità l’unico rifugio sicuro per l’uomo.
Ma ciò che infine salva il viandante sono i poemi a cui il nostro affida se stesso, attraverso schegge di memoria, (esiste oltre ai ricordi familiari una poesia dal titolo Il fascino della memoria): «io recito il poema/nel nome del mendicante che ride… mi rifugio nella parola» (Riso-pianto, p. 28).

Nella poesia 3D, che dà il titolo a questa raccolta, le tematiche non sono poi tanto diverse. Si assiste a un capovolgimento del concetto che sottende a 3D, (immersione in una realtà virtuale tridimensionale) in quanto in poesia «le fasi tridimensionali sono lavorate a mano», e ardono «del mio sangue».                                       
È cocente la fame, qui richiamata e probabilmente patita, «la fame trascina la terra come una pura tortura» «affamato un anonimo si sfrega gli occhi col profumo del pane», «il loro pane amaro»: questi versi fanno eco alla poesia iniziale di questo libro, Un angolo di sconfitta che apre «moriva di fame il muro nutrendosi l’edera con il saluto/ dei passanti» e più avanti «allontanano la fame foglie di marcita felicità».
La fame è uno spettro per il soldato nelle trincee, ma la fame nera ha perseguitato il popolo romeno fino a tempi recenti. Quando i tempi della fame si sono allontanati, tutto riluce come in uno specchio dove la memoria modificata appare in un 3D divenuto altro: allora i voli delle farfalle divorate dalle lenti di un microscopio, e le farfalle chiuse in trincea, troveranno l’angolo della strada e si libereranno nell’etere.
Dal contradditorio personale e storico, indistinto e agghindato di profondissime ferite e di sangue, (termine molto citato) salvano «i piccoli tuoni della morte/ dopo di che solo carezze di madre».
Il poeta sembra suggerire, sotto il velame, che poche sono le cose su cui fondare: la fiducia nella madre, nell’amore che incendia l’amata, nelle parole affidate ai «nuclei del poema». È possibile anche che le tre cose si possano sintetizzare in una sola, la poesia che ha il potere di dire, di questo affascinante poeta Gheorghe Vidican.

Laura Rainieri




un angolo di sconfitta

moriva di fame il muro nutrendosi l’edera con il saluto
dei passanti
ogni notte appassiscono fiori di limone aspettando che la rugiada
partorisca la pioggia
là nel cuore del tardi nasce l’inizio di un nuovo
viaggio
hai guardato la collina come un passero orfano cacciato dal nido
le ricchezze sono portate in catene al cimitero
allontanano la fame foglie di marcita felicità
un angolo di sconfitta demolisce la fortezza

(da Utopia della sabbia 2003)



nevica

nevica sui tuoi capelli, amata,
ai tuoi attimi d’amore grido
sei rimasta come un’idea
gli occhi tuoi mi nevicano dentro.
nevica sugli attimi d’attesa
nevica la verità sul fiore
hai ucciso un fiore con il canto
donna che stai in mezzo al fior di melo.

nevica amata nevica il tuo sguardo
le mie parole tutte sono neve
resta sepolto dalla neve amore
in una forma sconosciuta al fiore.
nevica amata nevica piangendo,
amore copre tutte le parole
mi sei rimasta dentro nevicando
come un lieve sussurro della neve.

(di Trattato del silenzio 2006)



lei non sapeva

lei non sapeva d’essere padrona del sussurro
solo perché volle nascere così
si dilettava col diletto di un’altra
che gocciolava l’eco sul mio palmo

lei non sapeva d’esser brama di stella
nascosta in sogno dentro la sua brama
si dilettava col diletto di un’altra
che gocciolava l’eco sul mio palmo

lei non sapeva ch’è morta la virtù
su di un vestito vecchio di velluto
si dilettava con tanti diletti
che gocciolavano l’eco sul mio palmo

lei non sapeva che l’antico pozzo
è lacrima che cola da una stella
coglieva desideri nel cavo della mano
per gocciolare l’eco sul mio palmo

(da Maltrattato del silenzio 2013)



al di là dei cancelli

in silenzio comincia la storia di una gioia uccisa
intransigente, il computer
frusta il sapiente
il frusciare del sussurro accende le lampade
dalla strada con cancelli eccentrici
un sogno rimasto su una bolla asettica
fa economia di domande
rovesciando l’attesa in una clessidra
al di là dei cancelli
il computer
avvolge la luna in un arcobaleno alcolico
al di là dei cancelli
il computer
invia alla casella la posta
l’illusione della felicità.

(da Mansarda con vetrate 2008)



riso-pianto

con dignità le vicende anonime
cicatrizzano il dolore stanco
di troppa ruggine
io recito il poema
nel nome del mendicante che ride
riso-pianto
arma rigirata nella ferita
fa nascere un nuovo mistero
fa nascere una nuova frontiera
mi rifugio nella parola
come in una donna amata
la lontananza
come una continuità del poema
riso-pianto
riso-pianto
mi rifugio nel poema
come in una donna amata.

(da Mansarda con vetrate 2008)



Pozzo di fuoco

dal nitrito dei cavalli
come su una pianura scende dentro di me l’indulgenza della storia.

(da farfalle nelle trincee 2011)



braille

l’involucro delle dita spoglia l’occhio della vista
le radici piene di foglie fiutano il fruscio delle lettere
i particolari dagli occhi delle dita sorreggono le spalle
dello specchio si cammina in punta di dita attraverso il poema che
divide le donne dalle donne

(da Aspro il mio sangue 2012)



aspro il mio sangue

il mio sangue spande odore di caffè in punta di piedi prima del sonno le lettere braille mi stanno davanti agli occhi come un fruscio
cominciano a germogliare semi negli occhi dei cechi fiuto l’urlo dell’onda abitata da un pesce predatore i mercanti di caviale
distribuiscono luce alle sirene insonnie bibliche nel loro canto aspro il mio sangue luce nel grido promesso l’acqua riflette il corso della
germinazione dei semi la vista dei cechi nasconde nell’odore dei corpi pezzi di carne le maschere piene di bocche rendono incerta la
nascita della sirena desiderosa di pace frutti del peccato carezzano la barba canuta del mercante di caviale aspro il mio sangue scorre dai
rubinetti inonda il sole la clessidra ingiallisce il canto delle sirene brandelli di tempo circondano l’aspro mio sangue 

(da Aspro il mio sangue 2012)


(n. 3, marzo 2016, anno VI)