Natura, memoria, tirannide. Una nota per Carmen Bugan

Si ha la sensazione che (all'Est, forse, per una volontà di rimozione, di oblio, di superamento, di damnatio memoriae, o anche per una sorta di oscuro e greve senso di colpa collettivo ‒ e in Occidente, invece, forse per un diffuso, e spesso stereotipato, leftism, per il largo permanere, in molti circoli politico-culturali, di ideologie di sinistra) i crimini del Comunismo, l'oppressione feroce a cui esso ‒ in nome, paradossalmente, dell'emancipazione, della libertà, della redenzione, dell’«uomo nuovo» socialista da costruire sulle rovine e sulle ceneri devastate del vecchio, nel drammatico, strumentale equivoco del «Marxismo come Nuovo Umanesimo» ‒ sottopose popoli, nazioni, culture, non siano ancora entrati appieno nella memoria condivisa, nella coscienza critica collettiva.
Emblematico è il caso della Romania: la quale conobbe, forse (dopo, ovviamente, l'Unione Sovietica, e accanto all'Albania), la più vasta, organica, diabolicamente sistematica ramificazione, in Europa, di quella cancrena, di quel cancro, di quel grumo profondo e nero di metastasi e d'infezione che fu ‒ per riprendere le metafore potenti e sinistre di Solgenitsin ‒ l'universo del Gulag comunista.
Un orrore, quello del Gulag rumeno (ma è stato detto che, in fondo, tutto il blocco comunista altro non era che un solo, immenso lager, che finiva per entrare ed infiltrarsi nella famiglia, negli affetti, nei cuori, nelle coscienze, e per configurare una sorta di vero e proprio lager interiore ed interiorizzato ‒ un «genocidio dell'anima», come ha scritto Virgil Ierunca riguardo all'inferno di Pitesti, avvolto da un intreccio di tortura e acquiescenza, costrizione e complicità, scambi di ruoli e di maschere fra aguzzini e vittime), vasto, complesso ed imponente come molte delle opere storiografiche che ha ispirato (basti citare, sul primo versante, Ion Ioanid, sul secondo Gheorghe Boldur-Latescu, autore del monumentale Genocidio comunista in Romania).

Carmen Bugan e il suo Burying the typewriter

Nel libro di Carmen Bugan (Burying the typewriter, Picador, London 2012) ‒ nata in Romania, riparata oltre Oceano per motivi politici e risoltasi ad adottare l'inglese come lingua della creazione proprio per rigetto della passata oppressione e per piena adesione all'identità e alla condizione di esule ‒ la ferocia, il Moloch della storia sembrano quasi risonare e tumultuare, roboanti e feroci, da una lontananza remota, ovattata, schermata, la cui ombra immane e vastissima si staglia ed incombe, peraltro, sul paradiso perduto di un'infanzia apparentemente idillica, immersa nell'arcaica intemporalità della campagna romena, eppure insidiata e minacciata dagli occhi e dalle orecchie, onnipresenti e subdoli, della Securitate, la famigerata polizia politica, che perseguita il padre Ion, dissidente (il titolo allude appunto ad una macchina da scrivere posseduta clandestinamente, e usata per diffondere messaggi ostili al regime ‒ difficile non pensare, per analogia, alla vicenda eroica e sconosciuta della dattilografa di Solgenitsin, Elizaveta Voronjanskaja, suicida, con tutta probabilità,  per non rivelare l'identità dei suoi sodali).
Viene in mente Nel sonno non siamo profughi di Paul Goma (tradotto in italiano, nel 2010, dalla benemerita Keller di Rovereto): da un lato il calidor, il luogo minimo e insieme mitico, intimo ed universale, della casa, dell'infanzia, del focolare, punto di partenza e d'arrivo, «asse del mondo», Alfa-Omega, tempo originario da cui si parte e a cui si torna, infanzia in cui «si entra come nell'amore, e come nel passare del romanziere a un'altra lingua» ‒ e, dall'altro, la Storia, belva feroce ed insaziabile, Grande Meretrice che scova e ghermisce, proterva, anche chi cerca di nascondersi, aguzzina spietata che non conoscerà mai la propria Norimberga (e proprio Goma ci ha dato, con il memorabile Gherla, una delle testimonianze più intense, fra tragico e grottesco, rappresentazione e deformazione, dell'universo concentrazionario romeno: Gherla, come Aiud, dove fu rinchiuso il padre dell'autrice, come Jilava, Pitesti, il Canale del Danubio, le pianure desolate del  Baragan ‒ tutti luoghi che dovrebbero entrare, come aculei dolorosi, come ricordi strazianti, nella carne viva della memoria europea).
Può venire in mente, per l'alone a tratti fiabesco e quasi onirico in cui l'autrice avvolge la memoria dell'infanzia, il nostro Pascoli (così simile, in ciò, ad Eminescu); o, magari, le pagine baudelairiane sui «verts paradis des amours enfantines», sull'«enfance» che vede tutto en nouveauté, in una luce come di aurora, di purezza, d'origine.
I nomi della vegetazione, rievocati e ripetuti con un incanto mitopoietico, quasi rituale, animistico, le voci e i suoni e i canti e i profumi, i teneri affetti, i vincoli ancestrali, così forti in una civiltà ancora prossima alla terra, ai suoi valori e al suo culto ‒ tutto ciò sembra quasi, nella rievocazione memoriale, opporre l'eterno alla storia, l'interiorità all'accadere, mantenere la purezza del tempo rievocato e preservato immune dai contatti e dalle contaminazioni di un'ideologia e di un sistema politico spasmodicamente tesi all'idolatria del progresso e del rinnovamento, anche a costo di calpestare l'individuo. I Ricordi d'infanzia di Ion Creanga sembrano scorrere, come un fiume sommerso, sotto la superficie della narrazione, accompagnarne il corso e la scansione.
Come nelle civiltà arcaiche, la città dei morti e la città dei vivi non si escludono, né sono nettamente separate, ma unite, piuttosto, da una rete di segreti passaggi, di ombrose e mute intercapedini. Nella suggestiva metafora dell'autrice, il flauto silvestre che sussurra all'ombra degli alberi (o forse, come il nai romeno, pare cantare e singhiozzare insieme, ora levarsi sulle ali della melodia ora precipitare negli abissi del sottosuolo) è l'esile filo sonoro, l'impalpabile cordone d'argento, che congiunge i vivi e i trapassati, il regno della luce e quello dell'ombra.
Ma, nel libro, la morte è calata nella vita, l'assenza nella presenza, la perdita nell'affetto, anche sotto un'altra forma, meno elegiaca, più violenta, seppure appena accennata, come in sottofondo: quella dei dissidenti torturati, delle famiglie inghiottite dal nulla, dell'immensa moltitudine di vittime innocenti (da sessantamila a centomila, a seconda delle stime, da considerarsi sempre con  cautela, e tali esse stesse da fagocitare spietatamente i drammi dei singoli individui) falcidiata dal terrore comunista in Romania, inferiore ad altri dispotismi novecenteschi più nei numeri che nella ferocia.     
È come un immenso fiume dolente e silenzioso ‒ una «fiumana d'ombre», potremmo dire con Dante e con Eliot ‒ che pare solo sfiorare e lambire, e invece avvolge con le sue vaste spire soffocanti, il piccolo mondo di questa infanzia rurale.
L'Arcipelago Gulag, scrive Solgenitsin introducendo il suo monumento di parole, «s'incunea in un altro paese, e lo screzia, vi è incluso, investe le sue città, è sospeso sopra le sue strade»: esso grava ed incombe ‒ anche e proprio perché invisibile, muto, abilmente nascosto ai contemporanei ed ai posteri, all'apparenza inesistente ‒ sugli individui e sulle comunità storditi dalla propaganda o dal silenzio, dall'indottrinamento o dalla censura, dall'indifferenza o dall'assuefazione.

Una visita in Romania, un esilio al contrario

Una visita in Romania, a distanza di anni, quando ormai tutta la famiglia ha trovato rifugio e libertà negli Stati Uniti, ha, per l'autrice, quasi il sapore di un contro-esilio, di un esilio al contrario, di un ritorno ad una terra d'origine quasi divenuta straniera ‒ eppure, forse, segretamente, o disperatamente, amata.
La prosa inglese sembra quasi venarsi, anche nel ritmo e nel suono, di tacere, di liniste, di pustietate, di un senso profondamente romeno, arcaico, ancestrale, quasi intraducibile, di silenzio, stasi, desolazione. «The house and the garden seem to suffer from a kind of silence: the silence of our not being there. It is the silence of a childhood that now I fear is dying with every step that I take on the bald part of the yard». Il silenzio dell'assenza, del non esserci più, dell'essere altrove ‒ quel silenzio in cui parla la paura di non poter più tornare, di aver perso per sempre una patria, di dover vivere la morte di un'infanzia ‒ spira fra sillaba e sillaba.
È forse il «true Silence, self-conscious and alone», cantato da Thomas Hood ‒ quello che aleggia sulle rovine, sui luoghi che videro un tempo la calda vita degli uomini ‒ o i passi pascoliani sul terreno che pare «cavo al piè sonante», vuota, sottile e glabra superficie o maschera dell'abisso.
La consapevolezza ‒ acquisita a posteriori grazie a ricerche negli archivi della Securitate, delle quali dà conto l'appendice documentaria, segno non di un postmoderno o surmoderno mal d'archive come quello di cui ha parlato Jacques Derrida, ma al contrario di un'esperienza di vita diretta e sofferta ‒ dell'oppressione subìta ha in larga parte offuscato e turbato, una volta di più, la gioia del ricordo infantile.
Ma, al concepimento di una nuova vita, l'infanzia pare risorgere e prolungarsi. «Time begins again». Come in Eliot ‒ «in my end is my beginning» ‒, come nel tempo ciclico, studiato da Mircea Eliade, proprio del rito e del mito, il tempo ricomincia, sciogliendo le catene del passato, bruciando le scorie dell'odio, ma non cancellando la memoria, e anzi salvaguardandola e trasmettendola, per quanto ciò possa essere doloroso.
Lo stesso accadeva forse in certi testi ‒ dissidenti sotto l'abile velo dell'allegoria, che però non salvò i loro autori dal Gulag ‒ della letteratura sovietica, da Invidia di Jurij Olesa a Il custode delle antichità di Dombrovskij, i cui personaggi vagheggiano una sorta di archeologia dei sentimenti, di fantasmatica sopravvivenza di quei valori ‒ la compassione e l'orgoglio, l'umanità e la dignità, la bontà e l'amore ‒ che il Comunismo calpesta e cancella in nome dell'«uomo nuovo» ‒ mentre, al contrario, la Sofia Petrovna di Lydia Chomkovskaya finisce ‒ sopraffatta, al pari di molti, troppi, di noi, dalla pigrizia intellettuale, dalla rassegnazione, dalla paura, dalla tacita acquiescenza, forse addirittura da una sorta di irrazionale rimorso ‒ per distruggere la lettera che poteva provare l'innocenza del figlio. 




Matteo Veronesi
(n. 7-8, luglio-agosto 2013, anno III)