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 |  | Anniversario Nicolae Iorga: negli «Scritti veneziani» i molti frutti della radice latina  
 
  Settantacinque anni fa, il 27 novembre 1940, veniva assassinato in una località nei dintorni di Ploiești, il grande storico romeno Nicolae Iorga, che dieci anni prima aveva fondato l'Istituto Romeno di Cultura e Ricerca  Umanistica di Venezia, all'epoca noto come Casa Romena. Per questa  occasione è stato pubblicato il volume Nicolae Iorga, Scritti  veneziani (presentazione l’11 dicembre al medesimo Istituto a Venezia), a cura di Andrei  Pippidi e con traduzione di Corina Anton, con articoli, studi, conferenze, relazioni  dello storico circa Venezia, i rapporti politici della Repubblica di  Venezia con i Principati Romeni lungo i secoli, i tesori d'arte della città, la  vita quotidiana: Pubblichiamo  il testo di Iorga contenuto in questo volume con il titolo Che  cosa possiamo imparare dalla cultura italiana, conferenza tenuta presso l’Associazione degli Amici d’Italia il 10 novembre 1934.
  «Che  cosa possiamo imparare dalla cultura italiana»
 
 Eccellenza, signore e signori, non conosco le vostre attese per quanto  riguarda la lingua della conferenza, ma credo che per la maggior parte di voi – che, sebbene amanti della cultura italiana,  capireste con una certa  difficoltà una conferenza  in italiano – sia meglio ch’io usi la mia lingua, per presentare poi, per le persone che non conoscono abbastanza bene il romeno, le stesse cose in una lingua che amo enormemente e a cui sono legato sin dall’adolescenza, le cose cioè che mi hanno fatto sentire  di essere molto legato all’Italia, dove ho fatto innumerevoli viaggi. Per  quanto riguarda Venezia, mi trovo come a casa mia nel mio Istituto,  che è a disposizione di tutti i romeni che vogliano  averci un casa romena.  L’italiano è quasi come la mia lingua – le differenze di pronuncia  non devono ingannarvi – e le relazioni sono così come ve le ho presentate  all’inizio di questa conferenza.
 Adesso cominciamo la conferenza, che è la lezione magistrale  di un corso che sarà seguito da tanti gentili giovani della società romena. Si  tratta di che cosa possiamo  imparare dalla cultura italiana.
 Tante cose nuove da studiare  ci assalgono da tutte le parti, che uno deve farsi un programma; la nostra vita è tanto piena e breve, che  ciascuno deve scegliere  le cose che vuole studiare. È bene che uno sappia molte cose, ma è ancor meglio che sappia le cose che deve sapere e che le  sappia bene. Per quanto riguarda  lo studio  della lingua italiana, non si  tratta di impararla  per fare conversazione, visto che per la conversazione  una lingua la si impara molto facilmente; c’era un tempo quando tutta la società romena credeva di conoscere bene il francese, ma io avevo  un’altra opinione  e sono della stessa opinione  tuttora per quanto riguardamolte persone che parlano il francese; non si tratta  di imparare l’italiano per dire due parole che esprimano  lo spirito romeno senza nessuna influenza dello spirito italiano,  che le nostre parole devono esprimere  quando parliamo in italiano. Si tratta di una conoscenza reale e profonda,  direi addirittura che bisogna sentire e amare lo spirito  italiano.
 Non so in quale misura  si possa studiare  lo spirito italiano  senza aver vissuto in Italia. Certamente si dovrebbe inviare  in Italia un numero  quanto più grande di pellegrini romeni.
 Ma torniamo a ciò che volevo dire:  conoscere il popolo  italiano tramite la sua letteratura e arte. Non dimentichiamolo: tramite  la sua arte.  Chi non è capace di capire l’arte italiana  non capirà mai il popolo italiano. Ci sono  popoli per cui l’arte è un capitolo  aggiunto alla loro vita nazionale. Il grande merito e l’impareggiabile superiorità del popolo italiano  sta nel fatto che  esso non vuole fare arte, ma l’arte  nasce da sé nel seno  del popolo italiano. Quest’arte fatta nel seno del popolo italiano non è una cosa  da scuola, una cosa teorica,  un’imitazione, non è una cosa comprata,  importata, che somigli  a cose che non hanno niente a che fare con  il popolo italiano, bensì una delle manifestazioni fondamentali ed essenziali del popolo italiano.
 Dunque conoscere gli italiani significa conoscere profondamente  la lingua della sua importantissima letteratura, le cui caratteristiche  cercherò di mostrarvi in relazione  alle  nostre  necessità,  significa  conoscere l’arte e la vita italiana.
 Ho detto che inoltre bisogna  abitare in mezzo alle classi profonde  del popolo italiano, così come da noi non basta conoscere la splendida  società bucarestina per conoscere il popolo romeno,  ma si deve andare in tutte  le province per entrare in contatto con gli elementi romeni fondamentali. Anche gli italiani devono conoscere gli elementi  fondamentali romeni per farsi su di noi un’altra opinione  rispetto a quella che si fanno  di solito.
 Dopo quest’introduzione, parlerei  del guadagno che potremmo avere grazie allo studio della letteratura italiana,  ma prima ci vuole ancora  un elemento introduttivo: da noi si è sempre  apprezzata la cultura  latina, ma pensiamo al significato della cultura  latina. Si parla  sempre della cultura latina senza che si capisca cosa sia. Da noi ci sono moltissimi  che non potrebbero declinare o coniugare i più semplici  verbi latini e che parlano sempre della loro cultura  latina. Avere una cultura  latina significa conoscere il latino e aver letto la letteratura latina,  ma non sui manuali e sulle  traduzioni che gli allievi si prestano tra di loro.  È importante essere latini, ma è molto difficile essere  davvero latini. Essere latini significa avere una disciplina dei sentimenti, una serietà, una dignità, una maestà  del pensiero, tenere a freno le passioni  del cuore che a volte ingannano  e fanno traviare; significa essere forti come il cemento dei monumenti romani; significa eliminare qualsiasi parola inutile  e qualsiasi idea priva  di un  valore attivo. In una sola pagina latina si trova più di quanto non si trovi in un intero capitolo scritto  in un’altra lingua,  e Roma rifiuta gli attuali prestiti  della nostra società,  gli inutili giochi di parole, l’assimilazione delle  idee senza valore,  il prestito di sentimenti del tutto  superficiali.
 Noi abbiamo avuto  tempo fa una latinità che non fu la migliore. Quando dicevamo «latinità», si trattava di eliminare dalla  nostra lingua tutto ciò che non era di origine latina;  prestavamo parole latine che  non avremmo mai usato; creavamo  un vocabolario che non era di uso comune e eliminavamo dal vocabolario corrente  le parole prestate  da altre lingue. Ci fu un periodo di latinità che in Transilvania ebbe un  immenso contributo per il risveglio, presso un popolo oppresso, di una  coscienza su cui per secoli  si erano fatte le pressioni  più terribili e brutali.  Sentirsi romeno, benché in una forma falsa, era molto importante per i figli dei contadini transilvani e quando il vescovo Innocenzo  nella vigilia del suo esilio a Roma, dove inginocchiò di fronte al Papa,  credeva che questa fosse la via diritta  e sicura verso Dio, quando egli  opponeva alle classi privilegiate della Transilvania la consapevolezza  dell’origine romana, egli diceva: noi siamo i più vecchi,  i più nobili. Questa fu la ragione da cui prese moto un intero movimento  che portò all’adesione appassionata dei nostri transilvani all’opera compiuta  innanzitutto attraverso i sacrifici dei nostri soldati,  il che non si deve mai  dimenticare. Anche in Valacchia  penetrò questo latinismo,  ma noi qui eravamo  padroni, non avevamo  bisogno di riempire  la nostra lingua di  parole prestate per sentirci di origine romana. Da noi non c’era la  necessità di cominciare – come il venerando, ma tanto inesperto  dal punto di vista linguistico e storico Laurian (1) – la storia del popolo  romeno dalla lupa, da Romolo e Remo, per poi elencare non soltanto  tutti gli imperatori romani, ma anche i rappresentanti della repubblica e i  re delle origini come una parte della storia dei romeni.
 Noi abbiamo provato  questo latinismo e adesso lo prendiamo  in giro. Come non prenderlo  in giro quando avevamo una storia dei romeni che iniziava con Numitore e Amulio e dopo Alessandro Ipsilanti e Moruzi arrivava  alla dinastia che oggi regna in Romania?  È assurdo e certamente non dobbiamo farlo mai più; a quell’epoca era una necessità, ma se lo facessimo  di nuovo sarebbe un errore da biasimare.  Tornare alla latinità  per questa via è del tutto impossibile; altrimenti sapete che cosa  sarebbe successo? Così come il re Costantino di Grecia aveva preso un nome legato all’ultimo imperatore  bizantino, così come il re di Bulgaria si chiamava Boris III dato che intorno  agli anni 880-1000 ci furono altri due Boris, in base a questa latinità superficiale che non  resiste alla critica e al buon senso, se l’erede  del trono si fosse chiamato Traiano, avremmo  pensato a un Traiano  II. Potete immaginarvi cosa sarebbe stato un Traiano  I nel 106 e un Traiano  II nel 1900, senza dire cosa sarebbe stato se anche nomi come Cesare e Augusto fossero apparsi a Bucarest per evocare quel Cesare e quell’Augusto di Roma.
 In quanto alla lingua, dobbiamo  pensare alla lingua  che proponeva lo stesso Laurian, eliminando le parole di origine slava  che aveva relegato al Glossariu, mentre  nel Dictionariu c’erano delle parole inventate.
 Questa non è una latinità,  ma una latinità è necessaria in quanto  fondamentale: essa è assolutamente necessaria per noi nel nostro paese. Abbiamo ottime alleanze – speriamo che durino quanto più possibile!-, abbiamo relazioni  con i nostri vicini – speriamo che siano quanto più  durevoli; dopo l’accordo con l’Unione  Sovietica, quest’amicizia dura fino al confine della Manciuria e a Vladivostok; esiste una regione  celeste dove l’idea dell’amicizia universale e della  pace generale è rappresentata da angeli e diplomatici, ma a parte queste regioni verso cui il nostro pensiero appena osa di alzarsi è benissimo avere tali relazioni.  Ma c’è altro: le relazioni e i patti  non sono mai eterni e le amicizie  a volte fanno delle sorprese disastrose. Perciò è bene poter contare  non soltanto su quella forza militare  che, secondo il signor Mussolini, non è una provocazione, bensì una consolidazione della pace, visto che non esiste  un nemico più grande della pace che chi accetta  di darsi per vinto,  così come non esiste un’affermazione più forte del desiderio di pace  che quella di presentarsi come intangibile, in modo da non destare l’appetito dei vicini; oltre  a ciò esiste una specie  di concordia nazionale che è il grande elemento  psicologico su cui può reggere una nazione in tempi di pericolo e che raccomandiamo calorosamente. La concordia non significa, naturalmente, un ministero nazionale,  ma significa che in tutte le cose importanti tutti la pensino  allo stesso modo e siano preparati a lavorare allo stesso modo. Questa è la concordia  nazionale, non un’associazione per procurare un buon impiego alle varie  clientele politiche, le quali non hanno nessun futuro.
 Un’idea, diciamo anche una mania nazionale, una grande e santa  mania nazionale istintiva  è necessaria per qualsiasi popolo.  Tutti ne devono essere convinti. Ma dove cercare questa latinità?
 La mia vecchissima opinione che ho espresso  in varie occasioni  e anche a Lisbona,  in una conferenza pubblicata in portoghese, è questa:  la latinità, divisa tra varie  nazioni, presenta il grande vantaggio che ciascuna di queste nazioni, essendo  in legame con le altre nazioni, con altre civiltà, non ha fatto come certe stirpi. Esistono  delle stirpi che, quando vengono in contatto  con un’altra nazione,  le danno tutto ciò che hanno, mentre altre stirpi,  quando vengono in contatto con una nazione, prendono da essa tutto  ciò che possono  prendere. Dunque è inestimabile  il fatto che una parte dei latini si trovò su uno sfondo gallico ed ebbe contatti con il mondo  germanico di là del Reno e che un’altra parte della latinità si trova sull’antico sfondo, in terra romana – la grande qualità del popolo italiano è quella di avere sotto i suoi piedi la terra dei suoi antenati. Anche noi viviamo nella terra dove alcuni romani vissero,  combatterono e vi lasciarono le loro ossa; gli italiani vivono però in una  terra dove si posero ossa sopra le ossa e marmo sopra il marmo, per cui la splendida e inaspettata resurrezione della nazione italiana. Se pensiamo  agli spagnoli – una splendida e vecchia nazione dalle qualità bellicose  e dall’atteggiamento maestoso percettibili tuttora nell’ammirevole lingua  spagnola –, non è indifferente che una parte dei latini avessero vissuto  accanto agli arabi. Non è, come si suole dire, che fossero venuti gli arabi ed  i mori, mentre gli spagnoli fossero scappati in montagna.  La nostra stirpe non si rifugiò in montagna né qui, né altrove; essa si può conservare  in posti da dove ci si può tornare  per l’indipendenza, ma può restare  anche altrove e iniziare una collaborazione, e così fecero gli spagnoli ed i portoghesi. L’Islam con tutte le sue caratteristiche fu assimilato  nello spirito del popolo spagnolo.  Noi ci trovavamo in una regione  dove c’erano anche popolazioni turaniche insignificanti, che passarono  come un’ondata, ma dove  si trovava  anche una popolazione slava molto  numerosa, nella steppa russa, in Pannonia,  in queste regioni balcaniche  a cui però noi non apparteniamo – io non mi stanco mai di ripetere che noi non siamo balcanici,  ma carpatici; soltanto i bulgari sono balcanici e legati alla loro montagna, che in turco si chiama Balcan. Dai nostri  contatti con gli slavi della steppa russa, della Pannonia e della Penisola  Balcanica risultarono però certe azioni e reazioni  spirituali.
 Ecco come la latinità  penetra da tutte le parti, come attrae e trasforma elementi provenienti da tutte le parti. Forse nessuna stirpe prestò tanti  elementi da tante parti e trasformò più profondamente tutto quello che  aveva preso restando  però, per quanto riguarda gli elementi fondamentali,  sempre uguale a se stessa, come questa stirpe latina. E io dicevo: come sarebbe vantaggioso se i latini,  con tutto quello che hanno ottenuto  e assimilato, si scambiassero e trasmettessero tra di loro gli elementi  che alcuni hanno grazie alla situazione  geografica e alle vicissitudini storiche e gli altri non hanno potuto avere! Ho espresso  una mia idea nel  Portogallo (2): a Coimbra,  nell’estremo Occidente latino, una scuola di tutta la latinità, che in materia di geografia, storia e arte si occupi innanzitutto di ciò che appartiene alla stirpe latina; una scuola del genere dal valore  simbolico, come un’affermazione  e come una garanzia  per il futuro. In  quell’antichissima università fondata nel Cinquecento un tedesco ha  sostituito una tedesca per insegnare  le lingue romanze. Certamente la scienza  tedesca è molto rispettabile – anche la nazione lo è in alcune circostanze,  ma la scienza  tedesca è sempre rispettabile –, ma sarebbe tutt’altra  cosa se a Coimbra ci fosse uno spagnolo a parlare del popolo spagnolo,  un francese a parlare  del popolo francese, un romeno incaricato a ricordare ogni tanto la nostra esistenza in questo mondo.
 Come sarebbe  bello se qui si fondasse una scuola privata di latinità, non  una scuola statale,  visto che lo stato, che non è qualcosa  di permanente, rovina tutte le imprese  in cui ci mette le mani. Si potrebbe cercare  anche una corrispondenza tra le latinità, con gli occhi aperti anche verso altri  continenti. Una latinità  qui a Bucarest,  che guarda verso l’immensità della  steppa eurasiatica. Una bandiera  comune si alzerebbe in riva all’oceano  occidentale anche qui, sulle rovine romane, su quelle di Sarmisegetuza o sul grido trionfante del Tropaeum Traiani in Dobrugia. Traiano stesso, che era venuto a Roma come uno spagnolo  e che aveva l’aspetto  di un contadino iberico, vive nel suo luogo di origine e nel luogo di una delle sue  più importanti imprese.
 In  questa collaborazione latina,  in questa nuova forma  più completa e piena di azione della latinità  sulle società contemporanee, quale può  essere la parte d’Italia, quale può essere soprattutto per noi  la parte prestataci dall’Italia?
 
 
 II Per tanto tempo noi ci siamo ispirati moltissimo,  ma  non profondamente, alla civiltà francese, a partire dai boiari del Settecento che leggevano romanzi francesi penetrati nel paese attraverso l’agenzia  austriaca e giornali francesi prestati dal principe che vi era abbonato  per fornire informazioni ai turchi. Fino a oggi la civiltà francese  ci ha influenzato molto, ma non abbastanza  profondamente, e io sono convinto che la nazione latina che noi conosciamo di meno è appunto  quella francese. Della società francese non ne sappiamo niente; non andiamo di pari passo con essa; non conosciamo affatto la provincia francese;  non abbiamo mai fatto due chiacchiere con un contadino francese; la vita familiare dei francesi ci è completamente inaccessibile. Quanto ai  francesi, essi hanno un’idea poco chiara su un popolo che cerca qualcosa al di fuori di se stesso, che segue ciò che è più splendente  e che deve essere lodato non per quello che dà, ma per quello che presta avidamente.  È questa la realtà che non affermo soltanto  qui, l’ho affermata tante volte  anche a Parigi, per il desiderio che tra le due civiltà ci fosse un contatto  del tutto particolare. Può capitare che il figlio di un contadino, per aver  lavorato seriamente  per dieci anni a Parigi,  sia molto più vicino alla vera  cultura francese  di una persona dalle qualità scimmiesche appartenente ai ceti alti della società romena. Ma esiste anche un’iniziazione profonda,  sincera e utile nella cultura francese.
 Ciò è ancora troppo poco  per quello  che vogliamo  essere sulla strada aperta dai nostri antenati e verso la nostra meta naturale,  nel posto in cui ci troviamo. È  qualcosa che ci distingue  dai nostri vicini, che, con  un’origine diversa,  parlano un’altra lingua, hanno un’altra psicologia, a cui possiamo porgere la mano per concludere patti, con cui possiamo  costruire ponti e a volte possiamo  fare scambi economici diventati quasi  impossibili tra i popoli alleati, ma dobbiamo capire che noi non saremo  loro e che loro non desiderano e non potrebbero  diventare noi. Noi siamo  un’unità morale speciale;  siamo associati sì, ma unità morali diverse. Ciò va detto in qualsiasi occasione, perché sia chiaro fin dove si vada quando  siamo disponibili a dare e quanto teniamo per noi stessi: diamo fino a  certi limiti, oltre i quali esiste quella nostra parte impenetrabile consacrata soltanto ai nostri scopi. Altrimenti, non si capiscono le alleanze e ci precipitiamo con tutta la nostra volontà laddove non possiamo trovare  ciò che potrebbe  contenere e ritenere  tale volontà.
 Ottenere ciò che può  formare il nostro elemento di sostegno vuol dire anche rivolgerci alle altre civiltà  latine. Ma per quanto riguarda  gli italiani quali sono i loro elementi  a noi necessari nell’educazione per i futuri fini? Eccoli.La letteratura italiana è iniziata  nelle più modeste condizioni. All’inizio  non intenzionalmente e questa è la sua grande qualità, il fatto che non è una letteratura prodotta intenzionalmente a partire da idee astratte,  bensì una letteratura apparsa spontaneamente in un certo momento. La letteratura italiana è dall’inizio un prodotto spontaneo il cui sviluppo  non è mai stato interrotto. Poté essere oscurata da certe mode: in altri  popoli ci sono momenti in cui la sostanza  nazionale non è oscurata,  ma completamente interrotta, e ci sono anche popoli in cui ci può essere un oscuramento, ma la sostanza nazionale dalle origini spontanee va sempre  avanti. Perciò gli italiani  non si sentirono mai minacciati dal fatto che la loro  letteratura non fu sempre la splendida  apparizione di qualcosa di  inaspettato. Le cose inaspettate non sono le migliori nelle persone o nei popoli. La cosa appena visibile inizialmente, ma che poi cresce in modo  naturale e acquista tutta l’ampiezza e l’altezza  necessaria è la cosa buona.
 D’altra parte, la letteratura francese è apparsa da due fonti: la fonte a  nord  e quella a sud, e la connessione tra le due è abbastanza  debole; si tratta, infatti, non della duplice forma della medesima letteratura, bensì di due letterature, ciascuna dalla  forma diversa, dall’ispirazione diversa,  per cui la letteratura provenzale è molto più legata a quella catalana che a quella francese e certi poeti medievali  sono ugualmente disputati dai  catalani e dai provenzali. I catalani  sono a cavallo  dei Pirenei: c’è chi li trova anche in centri spagnoli e in una regione  francese in cui una coscienza catalana assopita  sopravvive tuttora. I  francesi incoraggiarono il catalanismo finché non ebbe la possibilità di vincere, ma se il catalanismo  vincesse, non so quale sarebbe l’atteggiamento nei loro confronti al di là dei Pirenei. Dunque abbiamo a che fare con due lingue e con due  tradizioni: dai provenzali  con uno spirito che i francesi  del nord non  ebbero mai, e negli stessi provenzali abbiamo a che fare con prestiti  arabi molto sensibili nella  poesia lirica, in quei ragionamenti  d’amore in cui il sentimento si trasforma in un’idea astratta di straordinaria sottigliezza,  che non c’entra per niente con lo spirito pervaso da un certo germanismo mischiato con l’antico celtismo della letteratura francese del nord.
 La letteratura francese parte da più parti, mentre la letteratura italiana  parte da tutte le parti, ed è questa la sua grande qualità:  essa permette di mandare incessantemente nuove ondate nel suo  andamento. Una letteratura in dialetto veneziano esiste in una certa misura, come una  siciliana; il più grande poeta italiano del Settecento  fu l’abate Meli, che noi possiamo leggere con grande piacere, visto che vi troviamo una vita  rurale e pastorale che somiglia alla nostra vita rurale e pastorale.  Mai cessarono in Lombardia e nella regione genovese  le piccoli correnti  esistenti accanto  alla letteratura in toscano, accettata poi da tutto il  popolo italiano, e anche queste correnti penetrarono nella stessa grande  letteratura italiana.  Ciò costituisce un elemento di somiglianza con la  letteratura del popolo romeno, le cui dimensioni  sono quelle permesse  dalle circostanze: anche questa letteratura romena parte in forme umili,  senza nessun legame con le teorie, e produce una poesia  popolare il cui carattere non ci deve ingannare.
 Quando diciamo «poesia popolare»,  qualcuno pensa che essa non sia altro che un prodotto del popolo: il popolo si riunisce e crea la sua poesia, ma  qualsiasi poesia popolare la crea un uomo e il popolo l’accetta,  la trasforma, la memora  prima dell’epoca della stampa; ma  non è possibile che tutta la nazione si presenti come per le elezioni per la Camera e il Senato per «fare poesia popolare» e se fosse così ovviamente  la poesia popolare sarebbe falsificata. No, attraverso tali fenomeni dell’anima popolare elementare è apparso  qua e là il bisogno  di rivestire il pensiero e il sentimento di una bella forma e poi su questo si è sovrapposta grazie ad  individualità privilegiate una letteratura superiore, che da noi non ha perso mai il contatto con ciò che si trova in basso. Persino la parola «basso»  mi dispiace: da quando il «basso» ha cominciato  a diventare una giustificazione  di tutte le ambizioni, ho cominciato a sprezzare  il «basso» molto  più di prima. Non ci può essere niente di «basso» laddove si conservano le principali virtù di una nazione e dove si trova la principale  fonte d’ispirazione di questo popolo.
 Va dunque ricordato  il fatto che la grande letteratura italiana e la modesta letteratura dei romeni presentano somiglianze per quanto riguarda il  loro inizio e il loro carattere, il che non è il caso della letteratura francese, che alla fine del Medioevo fu subito chiusa non direi in una camicia di  forza, ma in una rigida disciplina dal Collegio  gesuita e dall’Accademia di Richelieu. Dunque non esiste una letteratura francese in sviluppo cronologico, bensì esistono due letterature diverse; una a cui sono molto affezionato,  dato che è da più di quarant’anni che la studio:  la letteratura medievale dei cronisti, delle prime poesie liriche imitate anche nella  Penisola Balcanica dai serbi, da dove viene anche la produzione dei nostri  antenati, dato che esiste una relazione  tra la Chanson de Roland e altre «chansons de geste» francesi  e tra la canzone  di Stefano il Grande o altri eroi  del nostro passato: il popolo non inventa così spesso come si crede,  ma è felice di trovare altrove gli elementi che, combinati un po’ diversamente,  possa usare a scopo personale.  Ma dopo questa letteratura di una varietà infinita, di un’incantevole ingenuità c’è quella della scuola e dell’Accademia.
 Per fortuna, la letteratura italiana non entrò nel Collegio e un’accademia italiana  era soltanto una riunione di persone che leggevano i loro versi  e la loro prosa senza pretendere  di creare una nuova letteratura; perciò i membri dell’Accademia italiana cambiavano il loro nome: abbandonavano la loro nazione e cercavano  nomi presi dall’antichità greco-latina  o dal mondo pastorale.  Per esempio io, come membro dell’Accademia  dell’Arcadia, mi chiamo Nestore Pilio...  (3)
 Invece l’Italia  mise insieme ciò che era di più elevato nel pensiero e di più astruso nella scolastica  medievale e le più accese passioni  dell’epoca e ciò che era di più umile e tenero nella vita popolare.  Dante e Petrarca ne sono la prova,  Dante più di  Petrarca, perché questi  non è del tutto italiano, ma è un uomo di Avignone,  che conobbe la poesia provenzale da cui imparò a dare numerose  forme a un sentimento  che egli provava o no, mentre  Dante raccolse tutto quello che si trovava nell’anima del popolo  italiano e, attraverso  il popolo italiano, tutto ciò che si trovava nell’anima  dell’umanità medievale.  Perciò Dante è così difficile  da tradurre; chi si è sforzato troppo lo ha capito spesso di meno. Io preferisco la traduzione  semplice o quasi familiare di Gane o il tentativo  con buoni esiti di Buzdugan di Galaţi alla traduzione di Coşbuc, che teneva presenti vari commenti e che usa una lingua innaturale, in cui si trovano due elementi che non vanno bene insieme: una lingua nodosa come il bastone di un pastore  di campagna e una lingua da giornale che presenta i discorsi  del parlamento, il che non è accettabile nemmeno in tempi di democrazia quando  la tribuna parlamentare si avvicina alla vita del pastore. Dante non può  essere tradotto che da uno che ha due grandi qualità:  resta molto umano  nel  senso popolare della parola e può portare quest’umanità al sublime.
 È molto vero che l’Italia, da un bel po’, ha abbandonato la strada di Dante per poi fare tutti gli sforzi per tornarci. Anche nei poeti dell’epoca  più superficiale, che ai tempi di Chiabrera e Filicaia  presta dichiaratamente dalla letteratura francese del Seicento poeti di terza mano, si riconosce  qualcosa che viene dal Duecento  e dal Trecento, da Dante e da Petrarca, così come il nostro Eminescu ha in lui (e perciò non dobbiamo profanare  il suo nome mettendolo  in relazione con favoriti del nostro tempo e chiamando il volgare acrobata delle parole rare un secondo Eminescu)  tutto ciò che è nel passato,  nei cronisti, nei traduttori religiosi dei tempi di Varlaam, nei manoscritti che egli stesso, quale bibliotecario dell’Università  di Jassy, teneva in mano e leggeva non in lettere latine, bensì nel cirillico sulla vecchia carta.
 Ecco dunque  un’importantissima somiglianza. Noi abbiamo con Eminescu una letteratura del tutto moderna, con le idee più avanzate di Hegel  e Schopenhauer, ma che allo stesso tempo è in relazione  con tutto ciò che è di più ingenuo  e spontaneo in  Grigore Ureche e  Miron Costin. (4) Da noi non esiste  una  letteratura per un ceto sociale e un’altra  per un altro ceto sociale, ma esiste una letteratura intellettuale in contatto con le più ingenue poesie popolari: così un contadino intelligente è capace di capire la letteratura di qualità della nostra epoca. Ma ci fu un tempo quando tutta  l’Europa divenne superficiale: tacchi alti per gli uomini, gilè scollati  e ornamentati, parrucche dalla treccia legata con un nastro. A quell’epoca le signore eleganti si riunivano intorno ai tavoli per le sedute spiritiche. In  quell’epoca nessuna letteratura europea osò di andare verso il classicismo  e di calpestare  i nastrini, ma i signori e le dame di corte andavano  in campagna a bere il latte fresco e ad ammirare gli agnelli e il pollame.  L’unica letteratura che osò di farlo nonostante  il convenzionalismo, andando direttamente al classicismo, fu la tragedia di Alfieri e  si raccomanda calorosamente a questi giovani di fare ciò che fece la generazione del 1800 con  Alfieri. Questi fu per la gente della sua epoca non un invito allo spargimento di sangue del giacobinismo parigino, bensì uno slancio verso l’uomo della nazione che si doveva formare e verso l’uomo contemporaneo animato dalle idee dell’epoca, ma che segue un ideale implacabile, e fino ai nostri giorni quest’elemento eroico che ha le origini nell’antichità si  conserva in una parte della letteratura italiana. Se uno segue le migliori  produzioni di questa letteratura, ma non D’Annunzio, che scrive anche a Parigi in francese ed è un’anima  mista, non così unitaria e pura come le altre  della letteratura italiana, se va fino a ciò che è di più storico, espressivo, fondamentale e tipico nella letteratura italiana, può vedere queste  due cose che raccomando  calorosamente ai giovani che da qualche tempo  vogliono qualcosa,  ma non riescono sempre a trovarlo,  e perciò hanno bisogno non di consiglieri interni, che possono essere parziali, bensì esteri,  che sono al di sopra di qualsiasi  interesse: l’eroismo e l’orizzonte.
 Esaminare la società  italiana per vedere il miracolo italiano (perché in  questo momento si può parlare di un miracolo  italiano come non si è visto da  nessun’altra parte) significa capire da dove viene da due cose.
 Primo, l’Italia non ha interrotto  mai una vita spirituale formata nel  Medioevo. Essa non conosce un’epoca  moderna contemporanea che  interrompa questa continuità  secolare; essa ha le sue basi in ciò che si faceva nel 1200 o nella gente che intorno al 1100 sconfiggeva Federico  Barbarossa nei campi di Lombardia.  Solo chi può assimilare l’anima di tante generazioni del suo popolo lo può sollevare e trasformare.La seconda cosa che innalza la civiltà italiana è che i più importanti  scrittori sono persone che capiscono  ciò che si trova nei ceti più umili, e nei ceti più umili non c’è persona che con il proprio pensiero e con il proprio  lavoro non contribuisca a ciò che si forma nei ceti alti, da dove viene  la gloriosa manifestazione del popolo italiano.
   
 
 
  Nicolae IorgaTraduzione italiana di Corina Anton
 (n. 12,  dicembre 2015, anno V)
 NOTE
 
 1. August Treboniu Laurian (1810-1881), filologo e storico, educato a Vienna, Hanovra e Gottingen, uno dei dirigenti romeni della rivoluzione di 1848 in Transilvania, diventerà professore di lingua e letteratura latina e preside della Facoltà di Lettere e Filosofia di Bucarest appena fondata nel 1864. Due volte presidente dell’Accademia  romena. La sua Storia dei romeni è del 1853. I due lavori menzionati qui hanno censurato le parole di origine non latina nel vocabolario romeno dell’epoca, creandone addirittura altre per meglio manifestare la sopravvivenza del latino «in Daciis».
 2. N.  Iorga, As vias de penetraçao de latinidade no sueste de Europa e em especial na  România, Lisboa, 1928.
 3. Questa eccezionale distinzione fu ricevuta dallo storico romeno in gennaio 1933 insieme al dottorato honoris causa dell’Università di Roma.
 4. Grigore Ureche (c. 1560-1647),  cronista moldavo, educato in un collegio gesuita in Polonia. La sua opera presenta la storia della Moldavia dalla conquista romana all’anno 1594. Miron Costin (1633-1691), che aveva acquisito una cultura umanistica sempre in Polonia, continuò la cronaca di Ureche. Ebbe un ruolo politico importante, cercando di liberare la sua patria dal dominio ottomano grazie agli interventi della Polonia ossia dell’Impero asburgico.
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