L’uomo, cantus firmus del pensiero di Cioran. Un recente volume di Renzo Rubinelli

Segnaliamo l’uscita del volume Tempo e destino nel pensiero di E.M. Cioran (Aracne Editrice, 2014), di Renzo Rubinelli, che offre al pubblico, accanto alla parte teoretica, anche una corposa sezione fotografica. La filosofa romena Mihaela-Genţiana Stănişor, che firma la quarta di copertina, nota che «l’esegesi si sviluppa prefigurando un dialogo fra due polarità estreme: l’eternità di Emanuele Severino e il nichilismo di Cioran. Tuttavia, nella tentazione mistica del pensatore transilvano, sembra potersi scorgere una percezione emozionale dell’Essere accompagnata dal dubbio “che l’ultima parola non risiede forse nella Negazione”. Il libro presenta non solo una visione teoretica dell’opera di Cioran, ma anche una prospettiva affettiva della sua famiglia parigina e romena, come Renzo Rubinelli l’ha scoperta nelle sue visite a Parigi, Sibiu e Răşinari. I concetti chiave della filosofia di Cioran, “tempo” e “destino”, si schiudono sull’universo intimo dell’autore, che cercandoli nel pensiero dell’altro, li accoglie in sé, trasformandoli in affetti per esprimerli meglio, in un doppio linguaggio: filosofico e personale ad un tempo».
Qui di seguito pubblichiamo i temi riguardanti L’uomo e L’io che fanno parte di un ʻpercorso introduttivoʼ che ci porta al tema centrale del Tempo, oggetto principale dell’intero lavoro. Questo percorso è composto di quattro punti, strettamente legati l’un l’altro: la sensazione, l’uomo, l’io e, infine, il dolore.


L'uomo

Non si esagera se si sostiene che l’uomo è l’unico argomento del pensiero di Cioran. Ogni riflessione sul tema più disparato, dalla più acuta analisi di un particolare periodo o popolo storico (il settecento francese, la fine di Roma, gli ebrei, la Russia), alla sua concezione del Tempo e della Storia, dalle sue profondissime incursioni in terreno metafisico o religioso, alle sue nitide e impietose introspezioni: tutto in Cioran riguarda l’uomo.
L’uomo gettato in un universo senza senso, costretto a restarvi, forgiandosi continuamente delle lusinghe in grado di prorogare indefinitamente l’appuntamento con l’ineluttabile non senso del tutto.
L’assurdo della condizione  umana, per Cioran, è l’esser spirito, coscienza, qualcosa di sublime rispetto alla materia inorganica, e nello stesso tempo carne, ossia qualcosa di infinitamente inferiore, in quanto addirittura soggetta a decomposizione. Il paradosso dell’uomo consiste proprio nell’essere questa coniugazione di due realtà abissalmente distanti e inconciliabili.
Le pietre hanno molto più dignità della nostra carne in quanto sono stabili, godono di una particolare forma di eternità, che noi, in preda all’orgasmo degli istanti, non potremo mai conoscere. Il loro è un mistero «più lento, più vasto e più grave del destino di questa nostra specie passeggera» [1] , «un caos ben più ricco di quello su cui noi contiamo» [2] . Che le pietre avessero un’anima sarebbe molto meno assurdo del fatto che l’abbiamo noi, soggetti a putrefazione.
L’uomo è, nel pensiero di Cioran, non solo l’interesse principale, ma anche il centro d’irradiazione di ogni riflessione, è la «categoria» che presiede alla formulazione del pensiero, elemento catalizzatore, attraverso il quale tutto si piega e si antropomorfizza.  Anche la riflessione più speculativa viene tradotta in termini di vicenda umana e viene definita con il lessico della sofferenza.
È superfluo citare esempi a riguardo, ogni brano lo testimonia. C’è un aforisma molto bello, tanto breve quanto stravagante, che ne offre per intero la misura: «Tutte le acque sono colori dell’annegamento» [3].
Non si conosce l’origine, i motivi che hanno ispirato questa frase, ma essa chiarisce in modo emblematico il procedimento teorico sotteso alle formulazioni del suo pensiero: tutto rimanda all’uomo. E così anche l’acqua viene recepita solo come annegamento. Questo aforisma è una combinazione perfetta, come in un gioco con due sole possibili coordinate all’interno delle quali poter scegliere il predicato da attribuire ad un tema qualsiasi. Le coordinate sono, in questo caso, l’uomoe la morte, ma più sovente l’uomoe la sofferenza; il tema designato, invece, è l’acqua.
Si scartano così tutte le implicazioni dell’acqua che non riguardano immediatamente l’uomo, come il mare, la pioggia, gli acquedotti, la formula chimica ecc., in modo che rimangano soltanto le informazioni che parlano del rapporto diretto dell’uomo con l’acqua: nuotare, bagnarsi, lavarsi, bere, annegare, ecc. Poi entra in gioco la seconda coordinata, che scarta fra questi significati tutti quelli che non riguardino la morte e la sofferenza dell’uomo: rimane soltanto l’annegamento.
Di tutto ciò che si può dire sull’acqua, Cioran dice solo che «tutte le acque sono colori dell’annegamento». È un caso bizzarro, paradossale, ma indicativo di un procedimento che si conferma sempre, magari in contesti meno neutri rispetto all’argomento acqua.
Un altro esempio, questa volta un po’ meno singolare, si riscontra poche righe dopo: «Il divenire: un’agonia senza conclusione» [4]. Il divenire, un termine universale, come Essere, Nulla, Tempo, viene ricondotto ad una figura della sofferenza umana: l’agonia.
Lo schema è sempre presente, soprattutto negli aforismi. La perentorietà, caratteristica peculiare dello stile aforistico, che riassume in una battuta un processo molto più articolato, ne accentua in qualche modo, l’effetto.
L’inclinazione di Cioran a rendere antropomorfico qualsiasi oggetto del suo pensiero è riscontrabile in ogni momento nella sua opera, senza eccezioni.
Si può quindi parlare di antropocentrismo come categoria formale di un pensiero che nella sostanza è esasperato antiumanesimo. E per concludere, in un secco aforisma di Squartamento Cioran sentenzia:
«L’uomo è inaccettabile» [5].


L’io

Abbiamo finora parlato dell’uomo, ma non di quel particolare tipo d’uomo  da cui non ci si può liberare, al quale si è destinati: sé stessi, ovvero l’Io, altra imprescindibile figura nel pensiero di Cioran.
Quando egli parla di sé stesso, delle sue più intime  ossessioni, degli attimi interminabili delle sue notti bianche, in cui il tempo diventa infinito  e intollerabile,  raggiunge un’eccezionale risultato stilistico e la sua lucidità diventa scrittura lirica; i suoi aforismi diventano «lacrime cristallizzate» in pensieri: «Non ho mai pianto, poiché le mie lacrime si sono trasformate in pensieri. E questi pensieri non sono altrettanto amari che le lacrime? » [6]
Cioran è uno scrittore di assoluto valore nella totalità dei suoi scritti, ed ha ragione Roberto Calasso nel dire che a lui «dobbiamo la più bella prosa francese che oggi si scrive» [7]; non  c’è critico che non lo riconosca e proprio  in quest’ambito di «pensieri privati» [8], in cui si esprimono maggiormente le risorse liriche [9] della soggettività, egli si trova in quello che è sempre stato [10]  il suo ambito naturale. Mircea Eliade, nel suo Journal del 1° settembre 1946 così scrive: «Emile  Cioran non capisce il mio interesse per “l’aspetto oggettivo” delle religioni. Lui si interessa solo alle modalità personali, esistenziali, dei vari santi, mistici o Bodhisattva. Atteggiamento evidentemente moderno quant’altri mai; vedi, per esempio, il successo dell’esistenzialismo. Mi domando tuttavia se in questa ossessione “esistenzialista”, “personalista”, non sia possibile decifrare altro, se non  si tratti di ritrovare in sé una dimensione che l’uomo moderno ha perduto, la dimensione cosmologica. Fino al Rinascimento l’uomo si sentiva integrato al Cosmo. . . Le diverse modalità esistenziali erano allora vissute a un livello cosmico; per un moderno siffatte esperienze possono sembrare “alienate”, “oggettivate”,  ma per l’uomo delle società tradizionali esisteva una porosità perfetta tra tutti i livelli cosmici; l’esperienza di una notte stellata, per esempio equivaleva all’esperienza intima e personale di un contemporaneo». [11]
Questo brano di Eliade, scritto durante la sua permanenza a Parigi, in un periodo in cui frequentava Cioran quotidianamente, oltre ad essere molto acuto ed illuminante, introduce alcuni elementi di riflessione che consentono di inquadrare il nostro autore nel contesto culturale del secolo e dell’epoca moderna in generale.
Per Sartre «l’esistenzialismo è umanesimo» e Cioran non ha mai voluto essere confuso con quell’esistenzialismo che fioriva negli anni ’50, a Parigi, nel Quartiere Latino, dove anch’egli viveva, ma è innegabile tuttavia che quella di Cioran sia una filosofia che, pur antiumanista e antistoricista, nell’approccio alla realtà anteponga l’esistenza individuale alla dimensione cosmologica.
Non è trascurabile in Cioran la presenza dell’intuizionismo bergsoniano, secondo il quale è il proprio corpo il primo oggetto della percezione, ed il tempo è un dato della coscienza individuale, dell’interiorità. La presenza di Bergson, messa in ombra dallo stesso Cioran, è stata trascurata dalla critica. Infatti non incide sulla sostanza del suo pensiero, ma sicuramente egli (che sostenne la sua tesi di laurea su Bergson) ne assimilò gli aspetti che contribuirono a rafforzare e a dare una giustificazione filosofica a quella inclinazione verso un pensiero prepotentemente soggettivo, personale e autobiografico.
Fondamentale poi è la presenza dell’esistenzialismo kierkegaardiano, con la sua forte rivendicazione dell’imprescindibile centralità della categoria del singolo in ogni pensiero che si pretenda autentico.
Quello del pensatore danese è «un filosofare che esige il coraggio della confessione e che rende Kierkegaard affine a S.Agostino e a Pascal» [12] .
È riscontrabile inoltre una stretta parentela con l’autore delle Confessioni, ed un legame addirittura «affettivo» con l’autore dei Pensées, ma a differenza di tutti loro Cioran non ha mai manifestato conversione al Cristianesimo, pur essendo il suo pensiero sempre permeato da un’irrisolta e veemente tensione religiosa.
«Divorato dalla nostalgia del paradiso, senza aver conosciuto un solo accesso di vera fede». [13]
La stretta relazione di Cioran con l’esistenzialismo kierkegaardiano [14], in cui la categoria del singolo sta ad indicare l’Io come vissuto personale, viene  messa in evidenza dal contrasto che egli invece sottolinea caparbiamente con il moi di Valery, che egli considera soltanto sterile coscienza.
Egli riconosce a Valery di essersi avvicinato alla comprensione dell’essenza vera della coscienza, che è una perpetua messa in questione della vita, un ostacolo ai nostri atti ed una rovina della vita stessa: «Bewusstsein als Verhängnis “La Coscienza come Fatalità”, è il titolo di un libro apparso in Germania fra le due guerre e il cui autore, traendo le conseguenze della sua visione del mondo si è dato la morte. C’è, evidentemente nel fenomeno della coscienza una dimensione drammatica, funesta, che non è sfuggita a Valéry (si pensi alla “lucidità micidiale” di L’Ame et la dance), ma egli non poteva insistervi troppo, senza entrare in contraddizione con le proprie teorie [...] Che cos’è tutta la sua poetica  se non l’apoteosi della coscienza? [15]
Pur riconoscendo a Valéry alcuni altri meriti, non ultimo  quello di aver teorizzato un moi, «agli antipodi del Moi – produttività infinita, forza cosmogonica – quale lo aveva concepito il romanticismo tedesco» [16]; gli rimprovera l’eccesso opposto, ovvero di essersi appesantito, nello sforzo di definire sé stesso, sulle proprie «operazioni mentali», e di aver preso tutto ciò per vera conoscenza.

L’io di Valéry è, per Cioran, un «io sterile», «coscienza della coscienza», frutto della ricerca, nel bel mezzo delle nostre sensazioni, di un’invariante che non viene individuata «nella nostra personalità cangiante, bensì nell’io puro, “pronome universale”, “appellativo di ciò che non ha rapporto con un viso”, “che non ha un nome”, “che non ha storia” [...] fenomeno di esacerbazione della coscienza [...] sprovvista di ogni contenuto determinato e senza alcun rapporto con il soggetto psicologico». [17]
Per Cioran, l’io di Valéry, resta, nella sua astrattezza, un niente lucido: «Quintessenza del nulla, nulla cosciente (non coscienza del nulla, ma niente che si conosce e rifiuta gli accidenti e le vicissitudini  del soggetto contingente), quell’io, ultima tappa della lucidità [...] purificata da ogni complicità con gli oggetti o gli eventi». [18]
Il primo libro in francese di Cioran, Précis de décomposition, rispetto agli altri presenta un accento ancora molto lirico, un tono che, seppur stretto fra le maglie cartesiane della lingua francese, sente ancora l’eco dell’impetuosa e quasi folle produzione rumena. Vi si trova l’apologia della poesia, dominio dell’io, come unica forma di espressione autentica, contrapposta all’attività filosofica, dominio  del si impersonale, e profetica (religiosa, morale o politica), che è invece «apoteosi del moi» . [19]
Si tratta di una sorta di dichiarazione programmatica a favore della prima persona singolare, posta agli esordi della sua produzione francese, alla quale poi tenne sempre fede. «Io sono la materia della mia opera – dichiara Cioran – [...] ma non sono egoista [...] Credo che un’opera sia la ricerca infinita di sé stessi. [...] Colui che legge si riconosce, e così quello  che sembra egoismo è in realtà una forma di carità, di altruismo [...]» [20]



Renzo Rubinelli
(n. 4, aprile 2014, anno IV)




NOTE

1. Cfr. Exercises d’admiration. Essais et portraits, Paris, Gallimard, 1986, p. 137; citazione da Pierres di R. Caillois.
2. Ibidem, p. 138; tr. M.A. Rigoni, «Corriere  della Sera», 19.07.1985.
3. Syllogismes  de l’amertume, Paris, Gallimard, 1952, p. 67.
4. Ibidem, corsivo dell’Autore.
5. Squartamento, tr. M.A. Rigoni, Milano, Adelphi, 1981, p. 175, corsivo dell’Autore.
6. Pe culmile disperării (citato da S. Stolojan, Pref. a De larmes  et des saints,  tr. e pref. a cura  di Sanda Stolojan, Paris, Editions de l’Herne, 1986, p. 15).
7. Roberto  Calasso, Presentazione di La tentation d’exister, Paris, Gallimard, 1956, 2ª di copertina.
8. Cfr. S. Stolojan, Pref. a De larmes  et des saints, op. cit., p. 9.
9. Il lirismo per Cioran è una «forma barbara il cui valore è di non essere altro che sangue, sincerità e fiamme». Gli accenti lirici della sua giovinezza, di cui sono permeati i suoi libri romeni verranno a poco a poco temperati, col passaggio alla lingua francese e trasformati nel «sorriso ironico del moralista che però non si separa dalle sue ossessioni originarie», legate «allo scadimento del corpo, alla malattia, alla sofferenza» e alla morte. Cfr. S. Stolojan, op. cit., p. 14.
10. Durante gli anni universitari di Cioran a Bucarest, Eliade, appena tornato dall’India, redigeva su un quotidiano nazionale una rubrica che si chiamava Lettere a un provinciale; queste lettere erano molto spesso indirizzate agli studenti che partecipavano alla feconda stagione culturale della Bucarest degli anni ’30. «Un giorno – racconta Cioran – toccò il mio [turno]: mi si invitava né più né meno a liquidare le mie ossessioni, a non riempire più i periodici delle mie idee funebri, ad abbordare problemi diversi da quello della morte, mia fissazione di allora e di sempre». Cfr. Exercises d’admiration cit., p. 125.
11. Cfr. M. Eliade, Giornale, p. 23.
12. Cfr. Tito Perlini, Kierkegaard, in: AA.VV., Filosofia. Storia del pensiero occidentale, dir. E. Severino, vol. 5, Roma, Curcio, pp. 1273-99.
13. Aveux et Anathèmes, Paris, Gallimard, 1987, p. 145.
14. Mircea Eliade parla di un clima esistenzialista in Romania precedente all’esistenzialismo francese, negli anni 1933-36. Egli disse di aver letto due o tre opere di Kierkegaard in traduzione italiana e di aver scritto il primo articolo, pubblicato in Romania, sul filosofo danese nel 1925 o 1926. Cfr. La prova del labirinto, op. cit., p. 23. Nel suo Journal del 2 maggio 1947, racconta da Parigi: «Virgil Ierunca, giunto recentemente dalla Romania, mi dice che oggi laggiù “l’esistenzialismo” è la sola diversione politica possibile, l’unica resistenza anticomunista, più o meno tollerata. ... Mihai Ralea, in due conferenze fatte alla Fondazione, se l’è presa contro quel “farfugliame” di Kierkegaard e gli “esistenzialisti rumeni” Naë Ionescu, Mircea Eliade e Emile Cioran». Cfr.  M. Eliade, op. cit., p. 47.
15. Esercizi di ammirazione (Adelphi, 1988, tr. L. Zilli), p. 101.
16. Exercises d’admiration (Gallimard), p. 93.
17. Exercises d’admiration (Gallimard), pp. 92-93.
18. Esercizi di ammirazione (Adelphi, 1988, tr. L. Zilli), p. 101.
19. Cfr. Précis de décomposition,  Paris,  Gallimard, 1949, p. 30.
20. Cfr. Rosa Maria  Pereda, Cioran l’Étranger, «Magazine littéraire», n. 204, feb. 1984, p. 81.