Dieter Schlesak, un ʻuomo senza radiciʼ

Volutamente, nel suo titolo, Uomo senza radici (Garzanti 2011), Dieter Schlesak si rifà a Musil, L’uomo senza qualità, perché è una peculiarità, l’essere senza radici, al pari di una qualità. Connotano, le radici, al pari delle qualità. L’essere senza radici connota al pari dell’essere senza qualità. Ed ecco allora che l’autore va in cerca delle proprie radici e il bisogno, sempre avvertito, diviene urgenza alla morte della madre, la testimone, lo specchio dell’infanzia e di un’epoca, di una cultura, dell’Heimat. L’Heimat, la casa, con le sue figure e i suoi riti, ma anche la piccola patria di appartenenza, i sassoni in Transilvania. Questi, di nuovo, il luogo e le persone. E il tempo. Di nuovo quello dell’avvento al potere di Hitler che spazza l’Europa con la sua macchina di morte.

Schlesak scava nel ricordo e, proprio come fa Isaac Bashevis Singer per gli ebrei chassidim, salva nel suo libro tutto un mondo che non c’è più, con tutti i suoi valori, le sue tradizioni, i suoi riti, ma, anche, i suoi colori, i suoi odori. La storia ci consegna dei fatti, li analizza nelle loro cause-effetto, ma solo la memoria salva le atmosfere, la lingua, le emozioni. Con questo libro Schlesak ha messo un mondo al sicuro. E di quel mondo è forse l’ultimo testimone. Quel mondo non esiste più.
La Transilvania è cambiata. Andare a casa adesso significa non trovare più la casa. Significa trovare le strade, gli edifici, ma non quel mondo che vi brulicava allora. Ma in quel luogo Schlesak torna e vi torna anche il suo alter ego, il protagonista del romanzo. È, questo, come lui, scrittore. È, come lui, un tedesco dell’Est che ha scelto un volontario «esilio» in Toscana. E, proprio come lui, intraprende il suo viaggio «a ritroso» verso la nativa Transilvania per compiacere a quello che sapeva essere il desiderio della madre. La madre, la cui morte spalanca nel suo animo un abisso.

Schlesak scrive così nell’incipit del romanzo: «Andarmene da questa luce. Non sentire più il rintocco delle ore, non sentire più niente. Nascondermi. Sparire. Essere un nessuno. E così poter sopportare tutto. Anche l’angoscia di fronte alla morte, e l’angoscia di fronte alla morte di tutte le persone care... Mia madre non c’è più. Attraverso la finestra chiusa guardo giù nel verde del giardino i due alberi così familiari (…) Un picchiettio sul vetro che separa il dentro dal fuori. A bussare è un passerotto: nessuna letterina nel becco?». È terribile che tutto rimanga esattamente come prima quando perdiamo una persona cara; avvertiamo la normalità delle cose come un terribile non senso nel momento in cui il mondo per noi è stato capovolto dal dolore. Avvertiamo un senso di straniamento. Uno scollamento dalla realtà.

Schlesak continua così: «Da quando non è più stata qui mia madre? Sono passati molti anni. E ora, da una settimana è morta. Una settimana: era il 20 febbraio. Quassù non verrà più. Mai più». E ancora: «(…) squilla il campanello. Davanti alla porta, a cavalcioni sulla sua Vespa, i piedi a terra, il postino. Consegna una lettera. Da lei non ne arriveranno più. E sarà così, sempre così». È questa inesorabilità del distacco che produce lo straniamento, che apre l’abisso. E allora, tornare per accondiscendere a un desiderio della madre, ma, anche, dar voce a quel mondo della cui memoria la madre era depositaria e a tutte le persone di quel mondo ormai scomparse, al mondo dell’infanzia con gli anni della guerra e le loro vittime: gli ebrei internati ad Auschwitz e gli uomini trasformati in aguzzini. Sono anche loro a spingerlo al viaggio a ritroso. Sono loro a chiedere di parlare, a voler uscire dall’abisso. Dunque la guerra, quel tempo dal quale la memoria non può prescindere, quel tempo che ha avvelenato i luoghi, i ricordi. E, dopo la follia nazista, il comunismo.
Così la patria ha un volto ambivalente: è la patria persa, la terra dei suoi antenati, ma è anche la terra volontariamente lasciata, quella che Schlesak, in occasione della prima presentazione italiana del romanzo al Circolo dei lettori a Torino, il 6 aprile 2011, ha definito «mondo amato, ma anche odiato, perché è stato anche un nido di crimini, di due crimini, quello nazista e quello comunista». Nella stessa occasione lui dice che tutta la sua scrittura nasce così, come da uno shock «molto intimo», qualcosa di doloroso che «non poteva» dimenticare. Così lo stato d’ animo del protagonista è in realtà il suo stato d’animo, così come suo è il modo di vivere la scrittura, un modo che, nel saggio Anima passionale. Uno scrittore nel nostro tempo, lui stesso descrive come «una protezione e una resistenza, un luogo di integrità» che assume – come si può ben vedere nei suoi testi e nei temi da lui trattati – quella che lui chiama «una qualità morale».

«Più che in circostanze normali, essa diventò una VITA che garantiva l’identità e il regno dell’interiorità: ciò a causa del pericolo, del coraggio che era necessario per la verità e per la parola, considerata dai potenti come una bestia feroce, da cui dovevano guardarsi. Penso anche che le particolarità della mia biografia, con l’esilio e la vita in tre paesi diversi – la Romania, dove sono nato, e a cui sono legati i miei ricordi più profondi, la Germania, dove pubblico i miei libri e dove si parla la mia lingua madre, l’Italia, dove vivo ma che non sento come la mia patria – mi abbia reso un 'uomo di frontiera' (zwischenschaftler) che ben conosce l’abissalità di questa esistenza e ha superato l’illusione che il mondo sensibile possa offrire una patria; penso che mi abbia arricchito attraverso il dolore e le testimonianze diverse che posso dare sulla mia epoca». La qualità morale della scrittura di Schlesak è proprio questa, lui non si sottrae al compito di essere testimone di un’epoca. Non è facile. C’è chi ne ammira il coraggio, ma c’è anche chi vorrebbe che i testimoni tacessero. I negazionisti.

Invece prima di tutto, come nel caso de Il farmacista di Auschwitz, questo libro trova le sue radici in una terribile domanda che ha tormentato Schlesak per tutta la vita: «io sono nato nel 1934, troppo giovane per essere arruolato, ma, se fossi nato prima, anche io sarei stato preso in questa macchina nazista. Cosa avrei fatto?» Perché non tutti sanno che ai sassoni in Romania, come a tutti i tedeschi presenti nei paesi occupati dai nazisti, era imposto l’arruolamento non nella Wermacht, ma nelle SS. E Schlesak vuole scrivere anche questa storia, perché non tutte le SS erano uguali. Ricorda i suoi zii. Ronald era un entusiasta. Come tanti a quel tempo pensava che dall’alto non potessero venire che ordini «buoni», ma Karl Wilhelm Keul, detto Ali, non voleva andare. La sua famiglia, i suoi amici, la fidanzata, lo hanno convinto. Ricorda quando lui o Ronald andavano a trovarli e lo prendevano sulle spalle e lui, orgoglioso, si metteva il loro cappello con la tesa, che era largo e gli cadeva sugli occhi. Roland è tornato ed è vissuto fino a 81 anni, ma Ali è caduto l’11 aprile 1945 a Hottelstedt, combattendo contro gli americani nel piccolo paese di Hottelstedt. Là si trova anche la sua tomba che Schlesak ha ricercato e trovato (senza nome e croce). Un giorno scriverà anche di loro. Perché è il suo destino. Scrivere. Essere testimone.

In Anima passionale dice ancora: «Sono convinto che la scelta di una professione spirituale – dello scrivere, nel mio caso – sia un destino; certo, essa dipende anche dall’epoca in cui ci si trova a nascere, ma soprattutto dipende dal demone interno, dall’entelechia, che determina la vita e la forma secondo la sua legge. Se qualcuno mi domandasse perché ti sei assunto questo compito, perché hai scelto questa professione che 'non dà pane', che non fa camminare su un terreno dorato – come ha detto Paul Celan – ma anzi non ha terreno affatto, potrei solo rispondere: non sono io ad averla scelta, è lei che mi ha scelto; non potevo far altro che dedicare la mia vita a questo lavoro, restare ad esso fedele (ormai da mezzo secolo), e non ho mai avuto esitazioni, neanche in tempi di sventura, non ho mai tradito la mia amata immortale. Così Goethe descrive questo dèmone:

Non puoi sfuggire a te stesso, devi vivere / seguendo la legge con cui hai iniziato, / così dissero sibille e profeti; /
nessun tempo, nessuna potenza spezza / la forma impressa, che si sviluppa vivendo».


Vivetta Valacca
(n. 1, gennaio 2013, anno III)