«Cioran o variazioni sull’utopia». La tesi di Paolo Vanini

Il titolo di questa tesi evoca le Variazioni Goldberg di Bach ed esprime l’intenzione di rileggere l’opera di Emil Cioran come se essa fosse una variazione filosofica sul tema dell’utopia. Lo stesso Cioran, giustificando il nostro richiamo al compositore tedesco, ci riferisce, da un lato, che «senza l’imperialismo del concetto, la musica avrebbe preso il posto della filosofia» [1]; dall’altro, che «senza Bach la teologia sarebbe privata d’oggetto, la Creazione fittizia, il nulla perentorio. Se c’è qualcuno che deve tutto a Bach, questi è Dio» [2].
I due aforismi citati sono sufficienti per collocare il nostro autore all’interno di una discussione metafisica, la quale però non considera il metodo filosofico-deduttivo come lo strumento più adeguato per cogliere la natura dell’essere e dell’uomo. Sul carattere frammentario e anti-sistematico delle sue pagine, che si rivelano refrattarie a qualsiasi classificazione univoca, si è scritto molto; a noi qui basta rilevare che, per Cioran, il linguaggio è il segno della frattura insanabile che separa l’uomo dall’assoluto – e, a maggior ragione, il gergo filosofico dalla realtà ultima. Il rifiuto teorico che orienta tutta la speculazione cioraniana consiste nel non identificare la «verità» con la «coerenza», per porre invece la «contraddizione irrisolta» come una delle condizioni del pensiero autentico.

La premessa del discorso è che qualsiasi problema, se indagato nelle sue fondamenta ultime, costringe il pensiero a un’impasse, a un punto oltre il quale l’argomentazione logica non può procedere, perché non resta che il vuoto. E il vuoto non si dimostra. Riconoscere questo retroterra irrazionale del gioco dialettico, più che significare una sconfitta della ragione, comporta una lucida difesa contro ogni forma di pensiero che, chiamando «necessario» ciò che è «contingente», crea i presupposti per il dogmatismo intellettuale e per la prassi fanatica. Richiamandosi agli antichi sofisti, che si qualificarono «cittadini del mondo» e per primi affermarono l’essenza retorica dell’oggettività, Cioran scrive che «dobbiamo tagliare le nostre radici, diventare metafisicamente stranieri» [3]. Dobbiamo, in altri termini, abbandonare la «patria» delle certezze e imparare a pensare contro noi stessi, contro e malgrado il pensiero stesso:  il quale, da un lato, è la cifra speculativa della nostra immagine,  dall’altro, si rivela incapace di racchiudere ciò che dovrebbe riflettere.  In una sorta di contrappunto metafisico che ci allena ad essere fanatici del pro e del contro, siamo sollecitati a scommettere sulle nostre contraddizioni, per essere più fedele alla corrispondenza che non esiste ma che costituisce la nostra ipotetica realtà.

Rispetto alla letteratura critica degli ultimi anni, che ha visto nell’utopia di Cioran una specie di corollario all’interno della tematica storica, noi tenteremo un approccio diverso: osservare la storia alla luce dell’utopia. «La maledizione congenita agli atti» [4] – che dovette colpire sia il demiurgo che l’uomo, costringendo il primo alla creazione e il secondo al tempo –  si pone come una fatalità atemporale che, già nel contesto del nulla primordiale, fu in grado di corrompere la purezza del Non-Essere per condannarlo a un destino da simulacro: quello dell’Essere. Da questo presupposto derivano due visioni filosofiche di uno scetticismo difficilmente eguagliabile: da un lato, la storia quale surrogato metafisico; dall’altro, l’essere quale utopia ontologica. Sono ipotesi complementari l’una all’altra e che sembrano condurre a una passività totale, perché, negando all’universo ogni contenuto «sostanziale», dovrebbero privare la ragione di qualsiasi intenzione «volitiva». Fortunatamente, mostreremo che questa conclusione è troppo deduttiva per essere applicata a Cioran, che si rivela capace, nel suo profondo scetticismo, di creare uno spazio etico nel quale non si manifesta l’esigenza di un ideale normativo positivo.

Questa tesi sarà suddivisa in tre capitoli. Nella parte iniziale del primo, affronteremo il rapporto tra il giovane Cioran e il movimento di estrema destra chiamato la «Guardia di Ferro». Durante gli anni Trenta, egli pubblica in rumeno una serie di articoli e un saggio (La Trasfigurazione della Romania) che sono consacrati all’apologia del fascismo e all’antisemitismo, e che sarà necessario analizzare per vedere in che misura i suoi scritti francesi si debbano anche leggere come un abbandono definitivo delle posizioni politiche sostenute durante gli anni universitari. In seguito, esamineremo l’interpretazione data dal nostro autore al mito biblico della Caduta, che, attraverso la figura Adamo, simboleggia il tema del «destino» all’interno del fenomeno storico. Questa esegesi, vedremo, implica una metafisica dell’immanenza che è stata inaugurata da Nietzsche e da Schopenhauer, i quali mostrarono l’origine organica del pensiero e la natura «corporea» della «coscienza». Erede di questa tradizione, Cioran subordina il concetto alla sensazione e fa del dolore e della sofferenza il nucleo «fisiologico» della sua ontologia, da cui deriva l’idea di storia come «malattia del tempo».

Nel secondo capitolo, l’attenzione sarà focalizzata sulle affinità stilistiche e metafisiche che legano la letteratura utopica sia agli scritti edenici che a quelli apocalittici, per vedere in che misura il «paradiso» è una realtà impossibile in entrambi le ipotesi che lo proiettano o nel passato dell’età dell’oro o nel futuro della redenzione finale. La speranza utopica, teoricamente direzionata in avanti, è situata in realtà in un luogo intermedio fra la «nostalgia» di una perfezione perduta e il «desiderio» di un compimento ultimo: questa posizione indecidibile spiega perché, ad essere utopici, non siano soltanto i «sogni» del rivoluzionario, ma anche i «rimpianti» del reazionario. Nell’uno e nell’altro caso, la storia si pone tanto come il «presente» che vanifica l’altrove, quanto come il «divenire» che provoca in noi la paura della noia. Per Cioran, la «noia» è sia un principio ontologico che definisce il progresso storico in opposizione alla quiete eterna; sia una virtù etica che rende praticabile l’unica e ammissibile forma di saggezza: l’ascesi verso l’apatia. Ma poiché, antropologicamente, una rinuncia assoluta del desiderio equivarrebbe alla morte, l’uomo non può essere né saggio né redento. In un raffronto serrato con Joseph de Maistre, il grande apologeta della Restaurazione che sposava appieno questa concezione negativa e peccaminosa dell’essere umano, Cioran opera una decisiva critica alle ideologie filosofiche e politiche, destabilizzando le divergenza fra «rivoluzione» e  «reazione» e capovolgendo il rapporto fra «attualità» e «virtualità». Vedremo che il nostro autore giunge alla conclusione che il pensatore metafisico sia la contropartita filosofica del politico reazionario, perché entrambi propongono una medesima visione statica del mondo: la prima che giustifica l’immutabilità dell’essere, la seconda un potere non riformabile.
Platone mette in crisi questo assunto perché, nella Repubblica, il progetto «rivoluzionario» della kallipolis è possibile solo nel contesto «metafisico» della teoria delle Idee: la quale non rappresenta un archetipo statico che rinnega il dinamismo della realtà sensibile, bensì un paradigma che è il risultato di un perenne confronto con il «male» presente qui e ora nella polis. La questione teoretica da cui muove tutto il dialogo è: se la giustizia è possibile, che ruolo dovrebbe avere la filosofia nella città giusta? Partendo da questa domanda, nel terzo capitolo svilupperemo un confronto a tre fra Cioran, Platone e Primo Levi.
Platone, per rispondere al quesito, sviluppa la prima utopia della tradizione Occidentale, propone un modello di felicità antropologica realizzabile esclusivamente all’interno di una comunità governata dal lògos filosofico e innesca, alla luce di questo ordinamento elitario, una tenace critica al regime democratico. Levi, che è sopravvissuto ad Auschwitz, si trova invece ad attraversare la negazione di ogni utopia e di ogni illusione razionalista, la distopia del Lager nazista; ne I sommersi e i salvati, lo scrittore torinese elabora una riflessione essenziale sul ruolo della testimonianza storica, che riguarda la doppia impossibilità di «raccontare la materialità dell’assurdo» e di testimoniare per il mussulmano, colui che ha «toccato il fondo». Gli ideali illuministi e positivisti che segnano la formazione culturale di Levi si scontrano con la «prassi dell’orrore» delle SS, e da questa spaccatura nasce una meditata discussione sul paradossale rapporto etico fra ordine caotico e disordine razionale, che tocca gli stessi limiti del «linguaggio» e della «comunicazione», senza cui nessuna norma morale potrebbe esplicitarsi.

Cercheremo di situare il pensiero di Cioran fra la consapevolezza platonica del legame inscindibile fra utopia e metafisica e il rifiuto leviano di considerare l’irrazionale quale categoria ermeneutica. Dalla compresenza di questi elementi divergenti, Cioran opera una riqualificazione del «paradosso» che diventa lo spazio in cui assurdo e ragione, bene e male, sembrano poter trovare un compromesso capace di non aumentare la quantità di dolore nel mondo. Il pensatore rumeno non propone nessun escamotage soteriologico, ma riconosce che l’illusione utopica è necessaria perché «noi agiamo solo sotto la fascinazione dell’impossibile» [5].

Nel quart’ultimo aforisma pubblicato in francese, Cioran parla di una sua visita alla tomba di Bach: «Lo avrei dunque visto come molti altri grazie ad una di quelle indiscrezioni a cui i becchini e i giornalisti sono abituati, e mi ritrovo a pensare senza tregua alle sue orbite che non hanno nulla di originale, se non che esse proclamano il nulla che egli ha negato» [6]. La critica cioraniana all’utopia, che dissacra senza riserve il qui e l’altrove in cui la realtà potrebbe essere, si rivela capace di una simile negazione o, più precisamente, di una «trasfigurazione del nulla» – al termine della quale, però, non si raggiunge né l’assoluto né l’abisso, ma una sorta di cavità ontologica che conferisce alla parola «libertà» un minimo di significato. Un miracle au fond du gouffre, per dirla con lo stesso Cioran.


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Paolo Vanini
(n. 2, febbraio 2015, anno V)

NOTE

1. E. Cioran, Syllogismes de l’amertume, in Œuvres, Paris, Gallimard, 1995, p. 797. (Faremo riferimento a questa edizione per tutte le opere di Cioran. Salvo indicazioni specifiche, la traduzione in italiano è nostra sia per le Œuvres sia per gli altri saggi in francese citati durante la tesi).
2. Ibidem.
3. ID., La tentation d’exister, cit., p. 888.
4. ID., La tentation d’exister, cit., p. 821.
5. ID., Glossaire, cit., p. 1790.
6. ID., Aveux et anathèmes, cit., p. 1724.