Andrea Zanzotto, coacervazione di parole come origine del poetico

Nella primavera del 2009 incontrai fugacemente Andrea Zanzotto il quale mi disse, tra l’altro, di aver terminato un nuovo testo poetico, che vide la luce in ottobre dello stesso anno con un titolo emblematico, di forte impronta programmatica, Conglomerati. A guardar bene, questo testo si appalesa quasi conclusione di un processo ciclico di indagini logico-semantiche che vanno da Beltà (1968), a Il Galateo in bosco (1978) a Fosfeni (1983) a Idioma (1986) a Sovrimpressioni (2001). Lungo tale linea le singole tappe sono autonome e prove attive di un ideale di costruzione della poesia, ingenerata da una vigorosa speculazione del pensiero, fondando il linguaggio nel moto di una trasfigurazione della realtà per rappresentare la natura oggettuale delle cose. La funzione semantica di tale processo costituisce l’ossatura permanente della poesia zanzottiana grazie alla forza della parola, colta in sé e non aggregata obbligatoriamente alla relazione intima della struttura frastica, perché il fenomeno di ammasso verbale indicizza a macchie la caoticità del mondo, quale primo approccio della ragione a formulare un ordine da offrire alla meditazione del fruitore.
Il valore del titolo dell’ultimo libro, Conglomerati, da questo punto di vista, ha un’incidenza esemplare nonché simbolico-cosale, sostenuta da opportune e acute riflessioni dello stesso poeta. Speculativamente conglomerato denota una massa costituita da elementi eterogenei, una mescolanza di sostanze amalgamate da corpi leganti; però nel campo testuale significa un assieme prelogico di parole, quale “intensione” visiva di disordine, da cui il pensiero sensitivo ricava una cogenza di forma verbale ed espressiva, allo scopo di costruire la realtà che la coscienza, connessa alla conoscenza, si raffigura come sostanza (coseità) e non apparenza (con supremazia, dunque, del significante sul significato). Si coglie in tal modo l’immediatezza dell’impressione sensibile della semantica quale commutazione della parola-cosa in messaggio: in Giardino di crode disperse si legge: “Non le pratiche né le grammatiche/dai nostri sputi e denti divinate/non le memorie gravi ciaccone passacaglie di rocce e faglie/ma soltanto, da questo/PUNTO (traliccio) (trabiccolo d’essere)/valgano le inscalfibili matematiche”. All’ammasso (o “costellazione di massi”) è accostato anche il fremere della iterazione (non ripetizione automatica, di origine psicotica), quasi una sorta di risonanza percettiva, che è invocata a creare la sonorità dell’architettura dello spazio. Vedi in Silenzio dei mercatini 1: “Tacciono tacciono i mercatini/il mercatino così gremito di riccioli/giovani genti e voci/così - forse troppo infrondato da suoni/ il mercatino sprofonda lento, ora, di ora in ora/ in un silenzio/nuovo inaudito e ora udibile/basso silenzio, sottorigo silenzio”. Arriva, il poeta, perfino a utilizzare la “versione” per esibire, all’altrui vista, l’irrequietezza dello spirito nella costruzione della scrittura, non agito ma agente, come fonte di  raccapricciante indomita  introspezione della natura incerta del linguaggio o sua articolazione strutturale. In Crode del Pedrè, nella prima versione si legge, ad esempio, “Tutto è muto e sconosciuto e perduto/tutto è chiuso in un suo lutto/ Rutilante lutto di sopite ire irosi sopori/Manca manca    posto/visto”, e nella seconda: “Tutto è muto/ e sconosciuto/e perduto/ tutto è chiuso, sasso a sasso, nel suo lutto/rutilante lutto di sopite ire di irosi sopori/Manca, manca, ruota come ferma vertigine il mancare”.

In numerosi saggi Zanzotto affronta le problematiche del comporre poesia, sotto molteplici aspetti, dando una visione vigorosa e di impianto meditativo, spesso quasi ai limiti del filosofico, ma massimamente avvalendosi della sua diretta esperienza di costruttore di linguaggi, di fondatore di appercezioni,  di “strizzatore” di parole per ricavarne i sensi più intimi e segreti. Solo alla luce di queste riflessioni organiche è  possibile comprendere la sua scrittura poetica, penetrare il messaggio visionario e sentire la forza sonora del verso come il suono sprigionato dal battere il ferro sull’incudine. In un saggio del 1987, Tentativi di esperienze poetiche, Zanzotto, parlando di Leopardi, quasi si  confessa, mettendo in luce sue convinzioni ed esplicitando, lucidamente, le ragioni del suo sistematico organizzare la trama linguistica e il modo di trattamento della parola nella sua migliore responsabilità di potenza. Zanzotto è un analista trasparente del messaggio, scava la semantica fino al midollo, fino a ricavarne il senso ultimo delle cose,  per questo sovente si abbandona alla sua lingua madre, quale palpito mimetico della sua origine, il dialetto della sua terra natia; pertanto egli afferma che  il cultore di poesia, “compie, ripete dei tentativi, mosso da una pulsione di qualche genere, e vuol compiere anche un’esperienza, e per di più “produttiva” o “creativa; questa esperienza egli la riconnette all’idea e ad un atto di strutturazione, o coacervazione di parole, a un modo di usare  e insieme di saggiare la lingua” (cfr. Poesie 1999, p.1309). Precedente al linguaggio, tuttavia, stanno le pulsioni, ossia la genesi della poesia è fecondità dello spirito pensante e somma di appercezioni, in senso psichico, perché senza alcun moto dell’animo nessun segno agisce. In principio è la partenogenesi, la sorgente di tutti i sensi, che vengono dall’oscurità profonda dell’inconscio ad affacciarsi alla luce della coscienza, da dove l’intelletto stando in agguato attinge  quanto gli è consono e personalizzabile: in questo senso il poeta affonda la lama: “La pulsione iniziale sottesa a tale comportamento viene da terreni talmente lontani e profondi che risultano comuni”, in un processo inventivo, e impercettibilmente sensoriale, tale da tendere “ad accertare ed a mettere in opera “nuclei di sopravvivenza” attivati attraverso una continua, ostinata “ripetizione”, onde le sensazioni trapassano nel linguaggio che “non solo come voce, foné, ma come lingua-graffio fatto nell’aria, segno-movimento degli arti (che è appunto una traccia,  un fatto grafico), riassume la totalità del vivere del corpo-psiche”.  Si tratta, con l’ausilio dell’intelletto, di un acuto intelletto, di penetrare nell’agglomeramento della reità per poter cogliere il senso dei singoli semi e predisporli ad assurgere a segni materici e poi a simboli. Il transito dal caos  (“buio profondo”) al logos (“vortice pirotecnico”) si avvale anche del suo contrario, onde i due sistemi agiscono in interazione: c’è osmosi delle opposte sponde, tra inconscio di Freud e sfrenatezza  di Nietzsche, fino alla sintesi suprema coscientemente operata da Joyce in Finnegans Wake che si protende come un filo rosso di tipo carsico da  La Beltà fino a Conglomerati.

Il poeta costruisce il proprio linguaggio predisposto alla logica di messaggio in virtù del principio di ricerca selettiva, consentanea al travagliato tumulto dei segni che si sommuovono nel crogiuolo focale delle sensazioni: in tal modo il significato viene posto davanti all’intelligenza del fruitore. Per questo è, indiscutibilmente, esemplare il presente brano tratto da Possibili prefazi o riprese o conclusioni, (IV, vv. 1-9): “L’archi-, trans,  iper, iper, (amore) (statuto del trauma) /individuato ammonticchiato speso/con amore spinta per spinta/- a luci rosse e filo di terra,/a sole a sole perfino- /spallate gomitate/ come in un pleonasmo straboccante/canzoniere epistolario d’amore/ di cui tutto fosse fonemi monemi e corteo”. Questa tipologia morfologica è una tendenza diffusa, che,  perfezionata, conduce la scrittura a farsi dimensione coatta e a determinare lo sblocco dall’afasia verso un’allucinata interpretazione delle cose e del mondo. Emerge, solertemente, sempre più la coscienza a dominio dell’irrazionale e dell’irreale, da portar ordine e intelligenza nell’intimo del linguaggio o, più sottilmente, nel seno stesso della semantica, per cui indicativo, qui, è il seguente esempio: “alchechengi fucsie eliotropi qui ad esempio per primi/e agostinismi e settembrinismi e altro/e poi grandi depositi di termini botanici/ che mai realizzeremo – in quei luoghi male si aggancia/il fatto semantico al fatto fonematico ma tutto/s’insegue sfreccia spara a vista/insegna e disinsegna graffe laccioli asole” (VIII, vv. 19-25). Appare ben evidente che la mente ha come fine la costruzione della realtà che pensa e non quella che oggettivamente è. Tale modulo espressivo e compositivo varia e si arricchisce nel tempo e mostra di tappa in tappa i suoi aspetti innovativi, talvolta anche eversivi e memorabili. Il poeta mentre approfondisce la grammatica e la semantica della lingua, si lascia affascinare dalla sonorità incoativa del dialetto della sua terra (così intima è la connessione tetta-vita- infanzia, con tutto quanto n’è d’intorno), recupera quindi un mondo individuale con lo spirito che è tutt’uno con il dialetto (veneto) come accade in Filò, dove sono elevati a fondamento stravolgimenti, deformazioni, allucinazioni nel tono talvolta ludico, come in questo caso: “Pin penin/valentin/pena bianca/mi quaranta/ mi un mi doi mi trèi mi quatro /mi cinque mi sie mi sète mi oto’/buroto” (che, tradotto in lingua, perde l’incanto ludico tipicamente infantile). Ne Il Galateo in Bosco, poi, la ricerca si fa più serrata e molto variata, pur resistendo nuclei di parole a sé, più pregne di tensione in senso autogeno; il logos con la sua variabilità di strutture si spinge sino a toccare il cuore di una condotta tradizionale, come in Ipersonetto, il più classico dei componimenti della nostra letteratura, ma con un’acutezza imitatoria pausata per contrazione e rinnovata grazie a una oculata scelta semantica: insomma è, questo esperimento, volontà di rifiuto di pseudopetrarchismo perpetrato nei secoli; cfr. questi versi (XI, vv. 1-4): “Che fai? Che pensi?Ed a chi mai chi parla?/Chi e che cerececè d’augèl  distinguo,/   con che stillii di rivi il vacuo impinguo/del paese che intorno a me s’intarla?”. Al lato opposto, invece si registra, (cfr. Conglomerati, p. 176, vv. 4-11), quasi esperimento terminale, un rimarcato gioco verbale: “ora tu giungerai/ora tu ora ora ora ora e giammai/ ed ora è come giammai/e giammai come qui/e così no così si in /tangibile transitabile/invisibilità//Dulìe ipodulie latrie  come boschi e barchi d’oro”. Il linguaggio è sede feconda della coscienza, e la sua deformazione è lo stato di un malessere tipicamente insito alla presente civiltà, di cui Zanzotto è un singolare, perspicace interprete.

Ciro Vitiello
(n. 1, gennaio 2012, anno II)