Un incontro tra due poeti: Marco Lucchesi e George Popescu

Testata tramite le sperimentazioni, spesso liminari, di tante rivoluzioni avanguardiste, neo- e post-, la poesia ha finito per essere svuotata della sua genuina e originaria aura. E, per quanto possa apparire paradossale, questo lungo e faticoso processo, complicato e, in qualche misura, struggente, lungi dall´aver sottratto qualcosa alla sua funzione raffinata, finalmente le ha potenziato il suo lato più comunicazionale, attribuendole una più diretta presa sulle insidie del quotidiano.
Così, il luogo delle sonorità stellari, degli arpeggi immersi dal segreto dialogo dell’anima pindarica e hölderliniana con il kantiano «il cielo stellato sopra…» è stato sostituito dall’apostrofare il reale immediato:  lo stesso confessare  si è soppresso,  in parte, la dimensione lucreziana dell’intimità col cosmo, con la grandezza del galattico silenzio, preferendo il fracasso del quotidiano.
Ecco lo scatto dell’insolita percezione da me vissuta, più di un decennio fa, all’incontro con la poesia di Marco Lucchesi.

Studioso di risonanza medievale, nel più esatto significato di quel ficiniano uomo universale della post-dantesca e pre-vinciana Firenze alla quale Lucca, la città dei suoi avi e dei suoi genitori, si trova, e non  solo  geograficamente,  così vicina,  il poeta  e l’accademico brasiliano innamorato di Eminescu, di Bacovia, di Sorescu, così come anche di Enescu e di Mioriza, garantisce – con la vasta estensione delle sue conoscenze di lingue e di culture – allo stesso tempo quel borgesiano attributo di bibliotecario babelico. Cosicché, ancor una volta, la sua poesia, pare nutrita e coltivata piuttosto da e con parole apposta diminuite, ridotte a pure e cristalline forme mono-tonali, che galleggiano fra meraviglia e grido, come una catena di mirabili suoni sulla tastiera di un inter-regno non ancora fissato fra il Cielo e la Terra, fra l’antico e l’attuale.
La sua biografia, con le sue particolari provocazioni, e che non rifiuta, a sua volta, l’insolito, a me pare rendere singolare Marco Lucchesi nel quadro della poesia di oggi, del Brasile, dell’Italia e di ovunque. Nato a Rio do Janeiro, in una famiglia di immigranti italiani, acquisisce, certo, la lingua dei genitori con l’apprendistato del parlare, ma appena un po’ più tardi, all’età della lettura e della scrittura, si riverserà, con un più di cura e di preoccupazione, nel suo destino poetico. Il suo nativo bilinguismo non gli cambierà tanto la natura della scrittura: immaginativo, quasi morbosamente sedotto, ancor bambino, dai segreti della matematica e della astrologia,  si è addolcito lo slancio per le scienze «esatte» con lo sprofondamento, e lo stesso precipitato ardore, nell’incantato giardino della musica, ascoltatore ed esecutore, e il senso dei suoni delle altissime armonie, dai gravi accordi delle liturgie e fino a quelle delle rapsodie eneschiane, ha finito col distillare il suo verso. In questa distillazione che a me sembra, a volte, vicina a quell’incomprensibile codice delle preghiere dei primi cristiani ipotizzato dal sommo poeta italiano Mario  Luzi la più  autentica  arte poetica , consiste l’originalità, la singolarità, il segreto poesia di Marco Lucchesi.
Ed è tanto vero che lui ignora, apparentemente, la pressione del quotidiano, di quell'adesso ora che ci provoca dagli interstizi del reale: lo ignora, dico, perché, nei suoi versi in cui rovescia, appena confiscati, cieli (lucreziani e danteschi), pianeti, corto-circuitati da un animo, suo, pronto a rifare il disperso ordine, il reale persiste, ma ahimè, soltanto come un bagaglio abbandonato, un testimone ignobile del pieno vivere.

Non amo – li ho da sempre occultati – i discorsi «tematisti» sulla poesia; la poesia  di Marco  Lucchesi  mi conferma,  e convincentemente  e concretamente,  questa mia, per dire così, idiosincratica scelta; il suo universo si delinea, nella concatenazione delle breve toccate lessicali, nel confronto fra la Luce e il Buio, fra il Cosmo e il Caos, fra la Vita e la Morte, fra il Sogno e la Realtà, il Silenzio e il Discorso; e tutto in un tracciato in cui le sfumature sono generatrici di Senso.
Ecco, in un aleatorio ordine, qualche esempio in cui quelle che sembrano incongruenze, slittamenti, alluvioni – del grande cosmo e di quello umano dentro di noi – perdono qualsiasi attributo conflittuale, riprendendo così la dimensione dell’aporetico il quale, dalle Upanisad fino a Platone e poi tramite gli seguaci dell’Ermete o Thot, ci insidiano sino ad oggi:

Quel gran silenzio
che precipita dal cielo
esterrefatto di azzurro

quel gran silenzio
che s’accalca nelle ombre
sanguigne del tramonto

quel gran silenzio
che regge la tema degli angeli
tra nubi di ferro e follia

quel gran silenzio
che arrovella e inaridisce
la terra di lacrime spenta

quel gran silenzio
che rade la nebbia dei giorni
e la malinconia dei buoi

quel gran silenzio
verso cui
tende
la selva di rumori
che ci strazia
e ci fa guerra

oppure, come in questi inquietanti poemi che si spuntano come veri e affannati respiri, batter d’ali di una allodola data perduta:

Mari di silenzi
E scogli di stelle

Approdo a mar musa

Non mancano, dal bestiario risorto in chiave epifanica, neanche gli dèi (Un gatto / sovra i tetti / mi guarda // come un dio), né ninfe (come ad esempio quella Hyades per gli occhi di cui il poeta contempla Roma passata tramite il filtro della propria sensibilità con tutta la sua storia) e nemmeno gli angeli, i vecchi e i nuovi, nella prospettiva beniaminiana, cioè bifrons; il buio è segno di un disordine – da oltre qualsiasi memoria – in cui il semplice susseguirsi delle parole musicalmente decantate e quasi scongiurate, diventa il vero e proprio atto poetico, garante di un nuovo ordine, oniricamente redistribuito:

Primo Buio

Il senso s’immilla
in altri sensi

e il nome
s’innesca
in altri nomi…

tra le guglie
irrevocabili
del mondo

muove
la terra

il cielo
in gran sussulto

il tempo
ti si strappa
dalle tempie

e slarga
l’orizzonte
al primo buio

tu sogni
insospettabili
parvenze

in questa
notte immemore
di pace

ma il senso poi
s’immilla
in altri sensi

e il nome
verso il nulla
si sprofonda

Marco Lucchesi va a caccia della magia (anch’essa fuori uso dell’esercizio poetico corrente) delle antiche orazioni, in veste di cantante arabo di lontani secoli ovvero di intempestivo giullare alle corti signorili di quel tardo Medioevo, ma l’immagine che mi sta a cuore col passare degli anni e con la quale la sua poesia mi accompagna è quella di un nuovo Orfeo dimenticato, da se stesso, nella biblioteca del mondo, che sta purificandoglielo la polvere millenaria e vincergli le casuali vicissitudini con delle irrigazioni di aria fresca presa in prestito dall’infinito cosmo.
Così come scrivevo più di dieci anni fa nella prefazione della prima raccolta poetica in romeno, Marco Lucchesi è uno fra i pochi poeti per cui la vera modernità resta lontana, indietro, e il vero postmodernismo potrebbe essere identificato in un verso pindarico. Chi ascolta, come lui, nel silenzio di questo frastornato mondo di oggi, «la melanconia dei buoi» possa decifrare anche il taciuto messaggio di un dio che appena sta reinventando il vero idioma della poesia.



Nota bio-bibliografica


Marco Lucchesi è nato nel dicembre del 1963, a Rio de Janeiro, da Elena Sati ed Egidio Lucchesi, primo brasiliano di una famiglia italiana. Vive a Niteroi da quando ha otto anni. Poeta, scrittore (romanziere, drammaturgo e saggista) e traduttore, Marco Lucchesi è anche professore dell’Università Federale di Rio de Janeiro (UFRJ), del Colégio do Brasil e della Fondazione Oswaldo Cruz.
Laureato in Storia presso l’Università Federale Fluminense (UFF) ha ricevuto i titoli di Maestro e Dottore in Scienza della Letteratura alla UFRJ ed il Post-dottorato in Filosofia Rinascimentale all’Universtità di Colonia, in Germania. È ricercatore del Consiglio Nazionale di Sviluppo Scientifico e Tecnologico (CNPq), direttore accademico del Colégio do Brasil, Visiting Professor dell’Università di Roma Tor Vergata e dell’università di Craiova in Romania.
È stato editore della rivista «Poesia Sempre», della rivista «Mosaico Italiano» e, attualmente, svolge il ruolo di caporedattore di «Tempo Brasileiro». Si è messo in evidenza anche nel Coordinamento Generale di Ricerca ed Edizione della Biblioteca Nazionale, come responsabile per l’edizione di cataloghi e fac-simili. È inoltre collaboratore di noti giornali come «O Estatdo de São Paulo», «O Globo», «Jornal do Brasil» e «Folha de São Paulo». Si occupa anche di drammaturgia ed organizza seminari per il Centro Cultural Banco do Brasil, per la Funiarte oltre a curare importanti esposizioni presso la Biblioteca Nazionale.
Grande importanza ha inoltre la sua prolifica carriera di traduttore grazie alla conoscenza di molte lingue tra le quali: italiano, greco, romeno, persiano, turco, bulgaro, serbo-croato, polacco, tedesco, arabo, francese, inglese, russo.
Ha pubblicato: Sphera (Premio Jabuti, 2004, e prefinalista del Premio del Portogallo Telecom), Viagem a Florença, Caminhos do Islã, Lucca dentro, Poesie (Premio Cilento e Premio San Paolo), Saudades do Paraíso, O sorriso do caos (candidato al Premio Jabuti, 1997), Teatro alquímico (Premio dell’Accademia Mineira delle Lettere, 2000), Faces da utopia, A paixão do infinito, Bizâncio (finalista del Premio Jabuti, 1999), Os olhos do deserto, Poemas Reunidos (finalista del Premio Jabuti, 2001). Di recente, ha pubblicato anche il suo primo romanzo, O Dom do Crime, Rio de Janeiro, Record, 2010 (Prêmio Machado de Assis da UBE e Finalista do Prêmio São Paulo).
I suoi libri sono stati tradotti in tedesco da Curt Meyer Clason, in spagnolo da Rodolfo Alonso, in persiano da G. Fahmi e in romeno da George Popescu.

George Popescu
(n. 9, settembre 2013, anno III)