Urmuz e la radicale questione del soggetto della scrittura. Il caso di Ismail e Turnavitu

L’abolizione del soggetto nel testo è uno dei concetti più importanti che Marin Mincu ha introdotto nel contesto del pensiero critico e testuale. L’elaborazione di questo concetto si trova in uno dei suoi tre libri dedicati all’opera del poeta-matematico Ion Barbu [1]. Secondo Mincu, la poesia di Ion Barbu è un ininterrotto divenire, un processo intertestuale, un’autogenerazione continua di senso in cui, attraverso il gioco delle permutazioni sintattiche, è possibile notare come il soggetto della scrittura sembri quasi annullarsi insieme all’autore. Nell’ambito della «pratica significante» della poesia barbiana, Mincu parla di «lezione tragica» del poeta-matematico, di una sua particolare «consacrazione al testo» che richiede «il totale annullamento del soggetto», la sua cancellazione e, allo stesso tempo, la sua integrazione nella trama testuale, che è intessuta dalle maglie del «reale». Più precisamente Mincu scrive: «L’instaurazione definitiva del testo richiede prima di tutto la soppressione del soggetto-autore (un autore che ha prodotto testi non scrive più, ma si sposta altrove, come è il caso di Rimbaud, Lautréamont, Urmuz, Ion Barbu), e poi anche del personaggio del testo [...]. Il tutto si riduce essenzialmente al gioco sempre nuovo delle superfici intertestuali. La morte del personaggio ci fa assistere alla morte nella scrittura come se si trattasse di un evento spettacolare [...], il segno esatto consacrato dall’ipostasi autoriflessiva» [2].
Come si può notare dalla citazione, oltre a Rimbaud, Lautréamont e Barbu, Mincu annovera tra i protagonisti di questa «opzione testuale» anche Urmuz. Tant’è vero che il critico romeno tornerà sull’opera di Urmuz due anni dopo, nel 1983, con un piccolo saggio che si trova nell’introduzione alla sua antologia Avangarda Literară Românească. In questo volume, dopo aver esposto sinteticamente la strategia retorica di Urmuz, afferma: «La lezione di Urmuz costituisce un modello catalizzante per tutti gli avanguardisti romeni. Il suo discorso istituisce una vera rivoluzione nel quadro delle forme d’espressione [...]. Urmuz comprende tra i primi che la forma (il significante) è l’elemento che lo scrittore deve mettere in azione [...]. L’attitudine responsabile di Urmuz nell’assunzione teoretica deliberata dell’atto di scrittura è condotta con lucidità fino all’ultima conseguenza tragica: la distruzione del soggetto nel linguaggio. Una simile esperienza è stata portata fino in fondo solo da Lautréamont [...]. Con un’anticipazione di quasi mezzo secolo, Urmuz intuisce vagamente la pratica significante come processo della testualizzazione letteraria e la applica dandogli una significazione maieutica per tutti gli sperimentalisti di oggi» [3].
In realtà, Mincu, qualche anno prima, aveva già identificato questa particolare modalità testuale («la pratica significante come processo della testualizzazione letteraria»), indicando nell’esemplarità scrittoria di Urmuz la «distruzione del soggetto nel linguaggio». Infatti, nell’antologia italiana Poesia romena d’avanguardia, apparsa a Milano nel 1980 e curata insieme a Marco Cugno, si legge: «La lezione di Urmuz costituisce […] un modello fondamentale per gli artisti romeni d’avanguardia. Essa inserisce nel quadro della letteratura romena una vera rivoluzione del linguaggio, comprendendo la disgregazione delle forme letterarie e divulgando per la prima volta la tendenza alla reificazione dell’umano. Nei suoi pochi testi Urmuz non fa soltanto una parodia dei temi e dei procedimenti della letteratura: egli lavora in modo cosciente sul linguaggio, desiderando mutarlo. Per questo scoprirà i meccanismi mediante i quali la pratica significante genera il testo, dissacrando l’atto della scrittura. Urmuz capisce che la forma (significante) è l’elemento sul quale deve agire lo scrittore: tuttavia coloro che lo adottano come esempio letterario non hanno ancora chiara questa pratica e si fermano soprattutto sul contenuto (il significato). La serietà di Urmuz nell’assunzione teorica deliberata dell’atto della scrittura è portata con lucidità fino all’ultima conseguenza: l’autodistruzione del soggetto nel linguaggio» [4].
Secondo Mincu, è proprio in questa dimensione di «auto-sacrificio testuale» (l’autodistruzione del soggetto nel linguaggio) che si adempie il destino scritturale ed esistenziale di Urmuz, cioè in quello spazio interstiziale e impalpabile, in quella «pratica significante» in cui il soggetto «si abolisce nel testo per autorigenerarsi nella scrittura». Il «Testo» di Urmuz, per sua stessa natura, produce sempre uno scarto indecidibile, e questo scarto non solo «spiazza l’aspettativa del lettore», ma implica anche una profonda cesura a livello del soggetto medesimo, una Spaltung che ne determina la differenziazione e che, al contempo, ne istituisce il luogo dell’enunciazione reperibile nella sfrenata corsa dei significanti scritturali [5]. La condizione necessaria affinché quest’evento possa realmente prodursi, è che il soggetto scritturale si eclissi nel linguaggio, seguendo una prospettiva di tipo sacrificale.
«In generale, – scrive Mincu – la narrazione urmuziana, sia che si presenti sotto forma di romanzo, fiaba, novella [o poema in prosa], ha uno sviluppo progressivamente parabolico dallo scatto iniziale fino alla risoluzione finale. Per converso, Urmuz procederà verso la distruzione del soggetto, sostituendolo con un sistema di assi che si intersecano in modo aleatorio; sull’asse orizzontale si descrive una serie di situazioni e oggetti che commettono atti riparabili, sull’asse verticale solo qualche movimento illogico. Il passaggio da un asse all’altro, brusco e imprevedibile, conduce allo spiazzamento dell’aspettativa del lettore, che non ha altra possibilità che di adattarsi al codice di lettura proposta dal Testo. Da queste osservazioni si può dedurre che sull’asse verticale, essendo quello preponderante, il lettore deve accettare volens-nolens, una lettura paradigmatica» [6].
Prendendo a prestito gli assi del linguaggio di Jakobson, Mincu afferma che spetta unicamente al lettore il compito di dare l’interpretazione giusta al «Testo», pur sapendo che la sua «lettura» sarà inevitabilmente condizionata dall’equivoco poli-prospettico e anamorfico della narrazione. Tale equivoco è strutturale, perché da una parte è causato da quella «pratica significante», che si ingenera a partire dall’asse immaginario che è il supporto del desiderio – il quale è caratterizzato dalla sua mobilità metonimica gravitante intorno ai suoi oggetti – e dall’altra è causato dall’asse simbolico (cioè il «codice di lettura proposta dal Testo») che è identificabile al «grande Altro», alla metafora lacaniana del «Nome del Padre», ovvero all’evocazione appassionata della presenza inoggettivabile dell’Altro, che assicura soggettivamente la tenuta sintattica della relazione testuale [7].

Il movimento del soggetto testuale alle prese con l’oggetto

Da un punto di vista più strettamente psicanalitico, si può del resto notare come nelle Pagine bizzarre il fantasma soggettivo di annullamento nel testo rientri a pieno titolo nella pratica discorsiva di Urmuz [8]. Il soggetto urmuziano è nello stesso tempo congiunto e disgiunto dall’oggetto del desiderio; fra i due termini c’è legame, ma la loro relazione non è univoca. È come se il legame simbolico con la parola fosse provvisoriamente sciolto e il soggetto in maniera inquietante si trovasse faccia a faccia con l’oggetto, così vicino da esserne quasi fagocitato [9]. Questa dimensione perturbante, in cui il soggetto è sul punto di svanire, non ha tanto a che fare con la rappresentazione dell’oggetto del desiderio, ma con una forma d’esperienza più oscura e arcana che è dettata dalla spinta verso la Cosa, das Ding [10].
A partire da quest’enigmatico evento, le Pagine bizzarre si configurano come un particolare specchio di scrittura di Urmuz in cui è possibile rintracciare il movimento del soggetto testuale alle prese con l’oggetto. Esso non si dà mai come un denotatum, ma si cela cripticamente nel dispiegamento dei significanti scritturali. Il soggetto delle «novelle» di Urmuz si rivela così nelle lacune del senso, nelle virgolette, nei puntini sospensivi e nei luoghi indecidibili degli eventi testuali che catturano immancabilmente l’occhio e l’orecchio del lettore, ossia in quei luoghi determinati dalla particolare forma del «Testo» il cui senso resiste a qualsiasi tentativo di racchiuderlo in qualche significato accertabile o univocamente predefinito.
Abolendosi coi suoi personaggi, e dando così vita alla voce impersonale del «Testo», il soggetto scritturale è concepibile come un universale singolare in cui si inscrivono le marche stilistico-formali della prima persona senza che tuttavia si esibisca quello strapotere debordante e narcisistico dell’Io. E questo è un dato rilevabile facilmente che va in contro tendenza, per esempio, sia rispetto alle modalità espressive del soggetto romantico (di tipo emineschiano) sia rispetto a quelle del soggetto avanguardistico di stampo dada-surrealista. Questo soggetto depotenziato, che passa sotto il nome di Urmuz, traccia nelle Pagine Bizzarre un percorso enciclopedico in cui l’Io stesso viene tagliato, segmentato nelle sequenze scritturali, come lamine costitutive dello stesso fantasma di autodissoluzione.
I luoghi urmuziani della narrazione, anche se si presentano in maniera falsamente descrittiva e parodicamente allusiva, in un intricato e complesso gioco imperniato sui nomi propri, tendono a illustrare delle micro-narrazioni esemplari in cui il soggetto del linguaggio ha modo di farsi sentire proprio in quei luoghi di maggiore opacità e di indecidibilità interpretativa. È come se la barra del segno linguistico, che separa il significante dal significato, operasse nettamente una cesura, un taglio simbolico non suturabile nel dispositivo letterario delle Pagine bizzarre. Ed è proprio attraverso questo taglio che il lettore ha illusoriamente la possibilità di riempire quel vuoto di senso attraverso le sue più o meno verosimili interpretazioni incentrate sull’immaginario testuale. Ma il taglio permane e il Testo si presenta leggibile e illeggibile allo stesso tempo, garantendo ad esso, così, una fruibilità e un’inesauribilità «semantica» teoricamente infinita [11].
Prendiamo il caso di Ismaïl şi Turnavitu a titolo puramente esemplificativo del discorso che stiamo facendo.

«Ismaïl şi Turnavitu [12]
Ismaïl este compus din ochi, favoriţi şi rochie şi se găseşte astăzi cu foarte mare greutate.
Înainte vreme creştea şi în Grădina Botanică, iar mai tîrziu, graţie progresului ştiinţei moderne, s-a reuşit să se fabrice unul pe cale chimică, prin syntheză.
Ismaïl nu umblă niciodată singur. Poate fi găsit însă pe la ora 5 ½ dimineaţa, rătăcind în zig-zag pe strada Arionoaiei, însoţit fiind de un viezure de care se află strâns legat cu un odgon de vapor şi pe care în timpul nopţii îl mănâncă crud şi viu, după ce mai întâi i-a rupt urechile şi a stors pe el puţină lămâie… Alţi viezuri mai cultivă Ismaïl în o pepinieră situată în fundul unei gropi din Dobrogea, unde îi întreţine până ce au împlinit vârsta de 16 ani şi au căpătat forme mai pline, când, la adăpost de orice răspundere penală, îi necinsteşte rând pe rând şi fără pic de mustrare de cuget». (p. 58)

«Ismail è composto di occhi, favoriti e una veste, e solo con molta difficoltà oggi lo si può rintracciare». Ecco un primo enigma. Chi è Ismail?
«Tempo fa cresceva anche nell’Orto Botanico e più tardi, grazie al progresso della scienza moderna, si è riusciti a fabbricarne uno per via chimica, mediante sintesi». Le maiuscole sono rilevanti in Urmuz per creare equivoci e doppi sensi. Quello che segue è un’allusione ironica che sembra prendere di mira la scienza.
«Ismail nei suoi spostamenti non si muove mai da solo. È ancora possibile reperirlo verso le 5 e 1/2 del mattino nel suo errabondo zigzagare sulla via Arionoaia, dove lo si vede sempre accompagnato da un tasso, a cui è strettamente legato da un canapo di bastimento. Quando arriva la notte, Ismail, una volta che gli ha strappato le orecchie, se lo mangia interamente crudo e ancora vivo, spremendovi sopra un po’ di limone...»
«Altri tassi Ismail li alleva in una pepiniera situata nel fondo di una grotta della Dobrugia». La Dobrugia, regione geografica compresa tra il basso corso del Danubio e il mar Nero, era anticamente abitata dai Daci, divenne poi provincia romana. Sottomessa all’impero ottomano per cinque secoli, a seguito delle guerre balcaniche e della prima guerra mondiale – cui partecipò Urmuz – la Dobrugia fu divisa tra Bulgaria e Romania. «In questo luogo egli provvede al loro sostentamento fino al compimento del sedicesimo anno, età in cui le loro forme si sono fatte più piene; soltanto a partire da allora, ormai al riparo da ogni responsabilità di ordine penale, li deflora uno a uno, senza manifestare un benché minimo senso di colpa».

Anche quest’altra attività di Ismail, come si vede, e tutt’altro che rassicurante. L’occupazione esistenziale di questo grottesco prodotto del progresso scientifico, si traduce nell’azione della tortura («strappare le orecchie»), della violenza sessuale («stupro»), nonché del cannibalismo più sordido e disgustoso («li mangia interamente crudi e ancora vivi») anche se il gesto di spremervi un po’ di limone tradisce un tocco raffinato da parte dell’eroe urmuziano. Certamente i tassi nel corso della tradizione culturale di tutti i tempi, non hanno goduto di una favorevole considerazione. Già Plinio il vecchio testimoniava che i tassi insieme ai castori venivano allevati, nell’Antichità, per potergli cavare i genitali, dotati di un benefico potere per coloro che li avessero ingeriti, perché ritenuti portentosi stimolanti sessuali. Anche in tempi meno sospetti l’eroe di Italo Calvino ne Il barone rampante scuoia i tassi per adibirli a comode pantofole; quindi, non c’è da meravigliarsi se i tassi di Ismail non si discostano dalla norma della tradizione. Indubbiamente il piacere di Ismail appartiene alla sfera di un erotismo perverso, ma non per questo bisogna vedervi le tracce di un dramma esistenziale, di un’incomunicabilità insormontabile, o parlare in termini psichiatrici di un caso clinico di Urmuz, tutti luoghi, questi, peraltro già battuti dalla critica nel tentativo di arginare la portata eversiva del dettato delle Pagine bizzarre. Non è questa la sede né di ripercorrerli velocemente né di confutarne le asserzioni. Riteniamo, in fondo, che il rituale alimentare di Ismail sia da ascriversi alla prospettiva hegeliana, cioè al riconoscimento del valore dell’altro a tal punto da doverlo ingoiare. La domanda, tuttavia, rimane. Qual è l’enigma che si cela all’ombra del nome di Ismail? È un riferimento biblico? È anche questo il nome tratto da un’insegna pubblicitaria, come indica la «Nota» di Urmuz apposta al titolo del racconto Algazy & Grummer? Oppure indica una cittadina della Bessarabia, posta sul confine tracciato dal delta del Danubio, scritta in caratteri cirillici (Измаил) come si leggeva nei cartelli stradali? In fondo non lo sappiamo con certezza. Si sa solo che Ismail si compone di occhi, favoriti e una veste, che oggi e difficile trovarlo, che un tempo cresceva nell’Orto Botanico e che erra ossessivamente a zig-zag in via Arionoaia. Si è indotti a credere, conoscendo gli effetti di superficie provocati dal gioco linguistico di Urmuz, che si tratti con ogni probabilità di un’espressione grafica scritta in caratteri arabi che, traslitterata, risulta essere il nome del filosofo-teologo sufista Ismail al-Ro’ayni, seguace di Empedocle, vissuto tra il V e l’XI secolo [13].
È come dire che Urmuz ripropone nella trama testuale la topica del nome di Ismail mettendolo letteralmente in scena, cioè facendolo zigzagare mimograficamente in via Arionaia (al-Ro’ayni). Infatti, come si può notare, Ismail si compone letteralmente di occhi, favoriti (cioè fedine, scopettoni, lunghe basette che arrivano in prossimità della bocca) e ha un andamento a zigzag sulla via che porta il suo nome. Inoltre è difficile trovarlo, tranne che verso le cinque e mezzo, infatti, da quanto si sa, è esistito all’inizio del V secolo e abbiamo poche notizie su di lui; conosciamo solo il suo nome, come lo conosceva del resto Urmuz, che sa cancellare abilmente le tracce dei suoi prestiti culturali. È come se Urmuz nell’atto della scrittura cancellasse l’eventuale fonte della sua lettura e utilizzasse l’articolazione vuota del nome proprio, grazie alla combinatoria del linguaggio, per investirla di materia linguistica, con meri segni grafici, che si consegnano al senso con significati iperbolici e allegorizzati. Si tratta, dunque, di un «personaggio storico» e non di un «monumento» [14], più precisamente del filosofo-teologo sufista di nome Isma’il ibn Abdillah al-Ro’ayni, «il nome più celebre in seno al sufismo spagnolo» [15]. In questo senso, si comprende l’azione del suo «amico» Turnavitu, che, per andare a trovarlo, «intraprende un lungo viaggio, di solito alle isole Maiorca e Minorca». Da ciò che ci riferisce Henri Corbin, si apprende anche che la scuola sufi costituitasi in Spagna, fu costretta a vivere in un clima di intolleranza e di sospetto, disturbata e anatemizzata e che dovette trincerarsi in un esoterismo stretto e in un’organizzazione segreta. Nulla però vieta di pensare che anche in questo caso si possa trattare ioneschianamente di una «bizzarra coincidenza» [16].
Ma guardiamo al testo e seguiamo la prospettiva tracciata da Isma’il al-Ro’ayni (Ismail) prendendola per vera o, per lo meno, storicamente «fondata» dal punto di vista dell’autore: «l’Orto Botanico» è da riferire forse al locus amoenus dei giardini mussulmani che prefiguravano, per la loro bellezza e per il loro simbolismo, il paradiso di Allah. Urmuz si farebbe così gioco dell’aspetto sacralizzante del sufismo che, su basi gnostico-neoplatoniche, traduceva l’ideale mistico del credente nella relazione amorosa, più astratta possibile, con Dio, recuperando quell’aspetto materiale che il misticismo occidentale fondamentalmente negava. Il rapporto credente-Dio, nel linguaggio filosofico-teologico sufista, assume le sembianze del rapporto tra l’io e l’altro, tra amante e Amato attraverso un’infinita possibilità metaforica di immagini e rappresentazioni. Viene riattualizzato l’antico dualismo Luce-Tenebre attraverso un ricchissimo gioco di corrispondenze che sono attestate anche nelle espressioni artistiche della letteratura e delle miniature, nonché nella simbologia dei giardini islamici. Il tutto verte sull’Unione mistico-ascetica, sul congiungimento dell’Amato con Lui, e ha molti punti di contatto con l’attività speculativa dell’ermetismo rinascimentale.
Ironicamente nel testo, Ismail si mostra molto crudele, trafigge i tassi e poi li mangia, dopo averli prima seviziati. Il tasso rappresenta, se seguiamo questa provocatoria traccia di lettura, la componente ilica dell’uomo, teme la luce e si nutre del proprio grasso, si traveste di notte per abusare delle donne, è astuto e volgare. Perciò Ismail, lo pseudo-teologo mussulmano, sembrerebbe punirlo, attraverso un rituale perverso, più consono alla sua usanza orientale. Ma al contempo se ne nutre, lo usa come pharmakon, come un’omeopatia: il male scaccia il male, e il materiale espelle il materiale per far posto alla luce. E infatti lo alleva insieme ad altri nell’oscurità di una grotta della Dobrugia.

I riferimenti alla «scienza»

Ora riprendiamo la questione di Ismail da un’altra prospettiva, quella riguardante da vicino la scienza, o meglio il mito della scienza creato dal positivismo di fine secolo: «grazie al progresso della scienza moderna, si è riusciti a fabbricarne uno per via chimica, mediante sintesi». Come è facilmente riscontrabile dalla lettura delle Pagine bizzarre di Urmuz i riferimenti alla «scienza» vengono combinati nella scrittura come appendici significanti atte a depistare l’attenzione significativa del lettore il quale tenta vanamente di colmare i significanti con dei significati di pregnanza culturale e libresca nel tentativo impossibile di addomesticare l’inquietante e lo spaesamento umoristico che attraversa la sua lettura. Alla descrizione «pedante», come ricorda Arghezi, dei personaggi delle Pagine bizzarre, corrispondono spesso interpolazioni «scientifiche» artificiose e meramente accessoriali, introdotte all’unico scopo di intraprendere un’azione deviante e prettamente grottesca sulla natura dei personaggi. Questa tecnica dispositiva e combinatoria, che mira chiaramente a demistificare il mito della scienza, attraversa anche i luoghi della narrazione [17]. Per esempio, in Pâlnia şi Stamate appaiono al centro della descrizione degli ambienti «un tavolo senza gambe, basato su calcoli e probabilità», e un vano chiuso, strutturato come una monade che «comunica con il mondo esterno mediante un tubo»,  in questo caso un «telescopio», «che a volte fuma e consente di vedere, durante la notte, i sette emisferi di Tolomeo», cioè lo scienziato precopernicano, «e durante il giorno, due uomini discendere dalla scimmia e una successione finita di semi secchi accanto all’Auto-Cosmo infinito e inutile»; mentre il vano limitrofo è rappresentato da «un interno turco [...] misurato col compasso». Il «tubo-telescopio», «gli emisferi di Tolomeo», «gli uomini discesi dalla scimmia», il «compasso» sono tutte protesi accessoriali che, nella sequenza significante, rinviano alla sfera semantica della «scienza» che nella cultura positivista tendeva a conferire proprio alla scienza e alla tecnologia il compito di una definizione gerarchica anche dei valori sociali. Il procedimento attuato da Urmuz, cioè quel procedimento di accumulazione semantica dei sintagmi utilizzati per la descrizione della localizzazione spaziale degli elementi costitutivi della trama testuale, veicola, nella configurazione sinonimica dei significati, uno spostamento degli assi del linguaggio. La sinonimia creata da Urmuz crea una sorta di cortocircuito testuale. Gli assi si spostano e ciò crea equivoco. Come scrive Mincu: «Il passaggio da un asse all’altro, brusco e imprevedibile, conduce allo spiazzamento dell’aspettativa del lettore, che non ha altra possibilità che di adattarsi al codice di lettura proposta dal Testo. Da queste osservazioni si può dedurre che sull’asse verticale, essendo quello preponderante, il lettore deve accettare volens-nolens, una lettura paradigmatica» [18].
Attraverso questo singolare dispositivo anamorfico di linguaggio Urmuz, dal punto di vista storico e culturale, focalizza l’attenzione di chi legge sulla concezione normativa della scienza che ha imposto, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, la Weltanschaung dominante dell’epoca scientista. Se si prende in considerazione il semioticamente «motivema» urmuziano «uomini discendere dalla scimmia», ci si renderà presto conto che lo scrittore romeno prende di mira il libro di Charles Darwin L’origine dell’uomo (1871) che chiariva la fondamentale scoperta dell’evoluzionismo biologico, caposaldo della scienza. Darwin sosteneva che l’uomo civile era il risultato di un’evoluzione da organismi inferiori e che non era possibile nessuna differenza fondamentale tra l’uomo e i mammiferi elevati per quanto riguardava le loro facoltà mentali. In tal modo la selezione naturale poneva le basi per il perfezionamento indefinito dell’uomo. Così «grazie al progresso della scienza moderna» Urmuz additava, con la fabbricazione dell’homunculus Ismail, «per via chimica tramite sintesi», a quel cieco ottimismo razionalistico della scienza che pretendeva di scoprire le «leggi oggettive» della natura tali da decifrare anche la «particolarità» di Cotadi che era quella di «diventare, senza volerlo, due volte più largo e completamente trasparente, una volta sola all’anno, e cioè, quando il sole giunge al solstizio». Il mito del progresso, secondo le leggi della ragione oggettiva, consisteva quindi, nell’accumularsi delle scoperte tecnologiche che inevitabilmente avrebbero condotto alla definizione della «verità»; e in virtù di ciò, anche la famiglia Stamate, nell’ottica dell’ideologia borghese, avrebbe potuto concedersi di «guardare col binocolo nel Nirvana» e contemplare i più alti misteri dell’esperienza mistico-religiosa, combinando insieme «un po’ di metafisica e astronomia».

Altri particolari riguardanti Ismail

Ma torniamo a Ismail che, come si è visto, vive in simbiosi coi tassi. In questi piccoli animali trova il senso della sua esistenza, la condizione di riconoscimento nell’altro e il sentimento di autocoscienza secondo la prospettiva tracciata da Hegel. Non a caso affida il suo allevamento di tassi a un personaggio di fiducia, conosciuto a una serata danzante, di nome Turnavitu. Urmuz fornisce al lettore altri particolari riguardanti Ismail.

«Cea mai mare parte din an, Ismaïl nu se ştie unde locuieşte. Se crede că stă conservat într-un borcan [19] situat în podul locuinţei iubitului său tată, un bătrân simpatic cu nasul tras la presă şi împrejmuit cu un mic gard de nuiele. Acesta, din prea multă dragoste părintească, se zice că îl ţine astfel sechestrat pentru a-l feri de pişcăturile albinelor şi de corupţia moravurilor noastre electorale. Totuşi, Ismaïl reuşeşte să scape de acolo câte trei luni pe an, [...]». (pp. 58-59)

«Dove abiti Ismail la più parte dell’anno non è dato saperlo. Si suppone che venga tenuto in conserva dentro un vasetto riposto in soffitta nella dimora dell’amorevole padre, un simpatico vecchietto, il cui naso, tirato alla pressa, era ricinto da una piccola siepe fatta di bastoncini. Si dice che questi, spinto da un eccessivo amore paterno, lo tenga così sequestrato per meglio proteggerlo dalle punture delle api e dalla corruzione dei nostri costumi elettorali. Tuttavia, durante l’inverno, Ismail riesce a fuggire da questo luogo per tre mesi l’anno, [...]».

È interessante notare l’allusione ironica al padre di Ismail, – il «simpatico vecchietto» – che Urmuz fa ricorrendo a un topos dell’espressione lirica: «lo tenga così sequestrato per meglio proteggerlo dalle punture delle api». Le api, simbolo del contatto tra l’umano e il divino, nella particolare visione del neoplatonismo urmuziano, diventano mediatrici tra il cielo e la terra, modelli di saggezza ma anche ispiratrici di una negata esuberanza erotica. Inoltre è degno di nota rilevare che la descrizione del padre, «il cui naso, tirato alla pressa, era ricinto da una piccola siepe fatta di bastoncini» possa richiamare l’immagine geometrico-figurativa di Dio, cioè una sorta di triangolo a raggera e splendente, che è allo stesso tempo anche un recinto, una staccionata, un ostacolo inattraversabile, oltre il quale non si può né si deve passare.
Si potrebbe dire che sia Ismail che il protagonista della Lettera al padre di Franz Kafka mettono in rilievo, letteralmente, la conservazione della condizione infantile di fronte al modello paterno. Ai loro occhi, il padre ha l’aspetto enigmatico degli dèi e dei tiranni, la cui legge si fonda nell’immaginario sulla loro persona e non sulla dimensione simbolica del pensiero.In Urmuz e in Kafka, l’idealizzazione paterna assume pertanto tratti evidentemente superegoici e inquietantemente persecutori. Ciò che unisce Kafka e Urmuz, come mostra chiaramente Freud attraverso l’elaborazione dell’Edipo, è il carattere di «doppio messaggio» paradossale dell’autorità paterna indirizzato nei confronti del figlio, che si può riassumere nella formula antitetica: «Tu sei come me. Tu non sei come me». Ciò, oltre a portare all’espressione di contraddizioni interne nel processo di assimilazione e di identificazione nei confronti dell’autorità genitoriale, è anche una crisi, una sfiducia nella coerenza dei valori tramandati di cui è tradizionalmente depositario il padre. L’Edipo è strutturale nello sviluppo dello psichismo umano. Ma ciò che si può notare è che sia Kafka sia Urmuz, pur mettendo in discussione l’ideale dell’autorità paterna, traggono da questa denuncia una speciale forma di godimento nello scrivere la propria opera che ha aspetti tragici e penosi ma ad un tempo decisamente umoristici e comici. Il loro universo quasi concentrazionario annuncia la pulsione di morte e l’angoscia accanto al piacere del riso, della comicità e dell’eros.
Con Urmuz e con Kafka l’autorità paterna, che ha un ruolo centrale e che funge da origine e da garanzia della validità della legge divina, è messa seriamente in crisi. Il padre così viene restituito a ciò che simbolicamente rappresenta, ossia costituisce l’innervatura, la traccia, l’incavo dell’ordine simbolico, lo spazio di gioco linguistico tra assenza e presenza, che turba tutti i meccanismi di azione, di pretesa razionale, di presa empirica e oggettivistica della realtà. E non è un caso che proprio Freud abbia basato la sua critica sullo smascheramento dell’idea di Dio vista come una proiezione della figura paterna, e sull’interpretazione della legge, sempre come imperativo paterno. Questa legge, al fondo di sé, appare vuota, equivoca, piena di ambiguità e di contraddizioni. È priva di significato e di senso al di là del suo carattere di legge che funziona da sé come risvolto negativo del desiderio. L’obbedienza alla legge consiste semplicemente nel suo riconoscimento. Ma riconoscere la legge implica anche la sua trasgressione che è insita nell’etica del desiderio. Al centro dell’interrogazione di Kafka e di Urmuz sta la crisi della legge e il godimento simbolico che da tutto questo se ne trae. Ciò che Celan ha visto nell’opera di Urmuz e di Kafka è che questi due scrittori non sono solo dei rivoluzionari ma hanno anche avuto il presentimento degli orrori dittatoriali e dei dispositivi concentrazionari di tutti i sistemi scientifico-burocratici che sono giunti a un tale grado di perversione da creare nella storia dell’umanità uno sconcerto inaudito.

Il «plus-valore» di Ismail

Riprendiamo la lettura di Ismail e Turnavitu:

«în timpul iernii, când cea mai mare plăcere a lui este să se îmbrace cu o rochie de gală, făcută din stofă de macat de pat cu flori mari cărămizii şi apoi să se agaţe de grinzi pe la diferite binale, în ziua când se serbează tencuitul, cu scopul unic de a fi oferit de proprietar ca recompensă şi împărţit la lucrători… În acest mod speră el că va contribui într-o însemnată măsură la rezolvarea chestiunii muncitoreşti…» (p. 59)

«durante l’inverno, il più grande piacere di Ismail consiste nell’indossare prima una veste di gala, ricavata dal drappeggio d’una trapunta a grossi fiorami rosso mattone, poi, così bardato, arrampicarsi sulle impalcature dei cantieri, quando si festeggia il giorno dell’intonacatura, al solo scopo di vedersi offerto dal proprietario come ricompensa ed essere diviso tra i lavoratori… In questo modo egli spera di contribuire in rilevante misura alla soluzione della questione operaia...»

Al di là del richiamo ironico di Urmuz a Mastro Manole e alla leggendaria costruzione del monastero di Curtea de Argeş – il cui restauro venne fatto nel XIX secolo dall’architetto francese André Lecomte du Noüy, il quale, pur avendo consentito all’edificio di ritrovare l’antico splendore, aveva però distrutto la maggior parte degli affreschi interni –, Ismail si offre come «plus-valore» che nella teoria marxista è la differenza tra il valore del prodotto del lavoro e la remunerazione sufficiente al mantenimento dei lavoratori. Questa differenza nel regime capitalistico costituisce il profitto dell’imprenditore. Cotadi, «con la sua camicia contadina e il tappo di champagne» nella «novella» Cotadi şi Dragomir, e Ismail, fatto «di stoffa a fiorami rosso mattone», nella prospettiva scritturale urmuziana, hanno la funzione di supplementi simbolici. Urmuz punta soprattutto la sua attenzione sull’aspetto feticistico della merce di scambio, sul «carattere mistico» del prodotto che acquisisce valore. Il tappo di champagne da dividere in lotti di terreno per risolvere la complessa questione agraria, e Ismail, ricompensa del proprietario per i muratori, contribuiscono allo sdoppiamento essenziale del soggetto nel rapporto con l’oggetto. L’oggetto diventa feticcio nel valore che gli viene conferito, e si presenta nella doppia valenza di oggetto d’uso e di porta-valore; quindi la merce, nella logica del paradosso, si traduce in un bene immateriale e astratto il cui godimento è impossibile se non attraverso l’accumulazione e lo scambio. Ora si scoprono altri aspetti curiosi riguardanti Ismail:

«Ismaïl primeşte şi audienţe, însă numai în vârful dealului de lângă pepiniera cu viezuri. Sute de solicitatori de posturi, ajutoare băneşti şi lemne sunt mai întâi introduşi sub un abat-jour enorm, unde sunt obligaţi să clocească fiecare cîte 4 ouă. Sunt apoi suiţi în câte un vagonet de gunoi de-al primăriei şi căraţi cu o iuţeală vertiginoasă până sus la Ismaïl, de către un prieten al acestuia, care îi servă ºi de salam, numit Turnavitu, personaj ciudat, care, în timpul ascensiunii, are urâtul obicei de a cere solicitatorilor să i se promită coresponden₫ă amoroasă, contrar amenin₫ă cu răsturnarea». (pp. 59-60)

«Ismail si concede anche alle udienze, ma solo sulla cima della collina che domina la pepiniera dei tassi. Centinaia di postulanti che richiedono, chi un posto, chi aiuti in denaro e legna da ardere, vengono prima introdotti sotto un enorme abat-jour, dove sono costretti a covare 4 uova ciascuno, poi sono invitati a salire su dei vagoncini della spazzatura municipale, con cui vengono spinti su, a velocità vertiginosa, fino in cima, al cospetto di Ismail, per opera di un suo amico, di nome Turnavitu, che gli funge anche da salame. Questo strano personaggio, durante l’ascesa, ha la cattiva abitudine di pretendere dai postulanti la promessa di una corrispondenza amorosa, altrimenti minaccia di ribaltarli giù».

I riferimenti ai passi evangelici sono corrosivi. Inoltre, parole vertiginose come abat-jour e salam (nel senso arabo salam’alaik «pace su di te»), che si prestano a essere feticizzate o impiegate in maniera moralmente dissacratoria, mostrano l’eco della loro origine straniera nell’essere presi fedelmente-infedelmente alla lettera e nella loro cifra linguistica pronta a essere nuovamente allegorizzata.
I postulanti, nella prospettiva hegeliana della Fenomenologia dello Spirito, hanno desideri sin troppo concreti, materiali. Più propriamente hanno solo dei bisogni: richiedono, chi un posto, chi aiuti in denaro e legna da ardere. Ismail e Turnavitu mostrano invece una migliore dimestichezza con la dimensione simbolica del linguaggio e della sua forza performativa. Consapevoli della posizione che occupano nell’ordine simbolico del discorso, il loro strano comportamento è dettato dialetticamente dal desiderio inteso come domanda d’amore e di riconoscimento («la promessa di una corrispondenza amorosa, altrimenti minaccia di ribaltarli giù»). Perciò, Ismail e Turnavitu, adottando il registro discorsivo della promessa e della minaccia, sanno benissimo che questi specifici atti linguistici sono dei performativi. Per dirlo con John L. Austin, il performativo, rispetto all’atto constativo, è un linguaggio di potere che va al di là non solo del bisogno ma anche della stessa conoscenza [20]. I performativi sono delle parole che provocano, non appartengono all’ordine del sapere, cioè degli enunciati, ma all’enunciazione, a quella passione del soggetto, che è la verità stessa del desiderio. Questo dispositivo linguistico crea, a livello della narrazione di Ismail e Turnavitu, uno speciale effetto comico, ma anche una scarto irriducibile nel discorso, il quale è segnalato, in questo brano di Urmuz, dagli equivoci e dai doppi sensi improntati alla logica del potere e della violenza.

La storia di Turnavitu

Ora veniamo a conoscere la storia di Turnavitu:

«Turnavitu nu a fost multă vreme decât un simplu ventilator pe la diferite cafenele murdare, greceşti, de pe strada Covaci şi Gabroveni. Nemaiputând suporta mirosul ce era silit să aspire acolo, Turnavitu făcu mai multă vreme politică şi reuşi astfel să fie numit ventilator de stat, anume la bucătăria postului de pompieri “Radu-Vodă”.
La o serată dansantă făcu cunoştinţa lui Ismaïl. Expunându-i acestuia mizera situaţie în care a ajuns din cauza atâtor învârtituri, Ismaïl, inimă caritabilă, îl luă sub protecţiunea sa. I se promise să i se servească de îndată câte 50 de bani pe zi şi tain, cu singura obligaţiune pentru Turnavitu de a-i servi de şambelan la viezuri; asemenea, să-i iasă înainte, în fiecare dimineaţă, pe strada Arionoaiei şi, prefăcându-se că nu-l observă, să calce viezurele pe coadă spre a-i cere apoi mii de scuze pentru neatenţie, iar pe Ismaïl să-l măgulească pe rochie cu un pămătuf muiat în ulei de rapiţă, urându-i prosperitate şi fericire…
Tot spre a place bunului său prieten şi protector, Turnavitu ia o dată pe an formă de bidon, iar dacă este umplut cu gaz până sus, întreprinde o călătorie îndepărtată, de obicei la insulele Majorca şi Minorca: mai toate aceste călătorii se compun din dus, din spânzurarea unei şopârle de clanţa uşii Căpităniei portului şi apoi reîntoarcerea în patrie…» (pp. 60-61)

«Per lungo tempo, Turnavitu non era stato che un semplice ventilatore in diversi luridi caffè greci nella via Covaci e Gabroveni. Non potendo più sopportare i cattivi odori che era costretto ad aspirare in questi luoghi, si era dedicato per molto tempo alla politica e riuscì in questo modo a farsi dare la nomina di ventilatore di stato presso la cucina della stazione dei pompieri “Radu Voda”».
È interessante l’uso che fa Urmuz del nome proprio dell’altro personaggio, che fa coppia con Ismail. Turnavitu, nome di sonorità greca che tradisce la xenonimia francese di tourne vite, cioè gira veloce come un «ventilatore».
«Durante una serata danzante fece la conoscenza di Ismail. Dopo avergli esposto la misera condizione nella quale versava dopo tanto girare, Ismail, che aveva un cuore caritatevole, lo prese sotto la sua protezione». È indicativa l’ironia salace in merito alla caritas cristiana. «Questi gli promise una rimunerazione immediata di 50 soldi al giorno, più il vitto, alla sola condizione che accettasse l’obbligo di ricoprire la carica di ciambellano, presso la grotta dei tassi». Vediamo subito cosa comporta essere un ciambellano di tassi.
«Turnavitu aveva il compito, inoltre, di andare incontro ogni mattina in via Arionaia e, fingendo di non accorgersi di lui, doveva pestare la coda al tasso in modo da potergli chiedere per la sua distrazione mille volte scusa; in quel modo Turnavitu avrebbe soddisfatto la vanità di Ismail facendo scorrere sulla sua veste un pennello intinto nell’olio di colza, augurandogli tutta la felicità di questo mondo...»
C’è da notare in questo brano tutta l’arguzia di Urmuz. Con i lunghi peli della coda del tasso si fabbricavano pennelli con i quali Turnavitu sembra lubrificare l’insegna-personaggio Ismail. Nella levantina ritualità dei gesti si conferma di nuovo la natura meramente grafica di Ismail. Ma non finisce qui. Leggiamo: «Sempre per far piacere al suo buon amico e protettore, Turnavitu una volta l’anno prende la forma di un bidone, e, se viene riempito di petrolio fino all’orlo, intraprende un lungo viaggio, di solito alle isole Maiorca e Minorca: il più delle volte questi viaggi consistono nell’andare, nell’impiccare una lucertola alla maniglia della porta della Capitaneria del porto, poi nel tornare in patria...»
Viaggio apparentemente assurdo, quello di Turnavitu, in direzione della terra natale di Ismail, filosofo-teologo di Spagna. Tuttavia questo viaggio ricorda un’azione riferibile a un sadismo infantile, uno scherzo di cattivo gusto o un atto di spregio tipico della crudeltà dei bambini. Ma se ci riferiamo al testo paleocristiano del Fisiologo, che Urmuz aveva ben in mente, scopriamo che la lucertola insieme all’ape, che compare anch’essa nel testo, poteva, in epoca cristiana, personificare l’anima che in questa forma sgusciava via dalla bocca dei dormienti, i quali, dopo il ritorno della bestiola, potevano essere informati delle sue esperienze [21]. Comunque l’aspetto ironico, grottesco ed enigmatico di Urmuz può essere anche letto nella maniera seguente. Se la lucertola in epoca cristiana veniva assunta a immagine di valenza positiva che testimoniava la rinascita, il ringiovanimento mediante la muta della pelle, la nostalgia della luce spirituale, tanto da essere raffigurata su incensieri e lanterne (si tenga presente che Turnavitu una volta l’anno prende la forma di un bidone, riempito di petrolio fino all’orlo), con Urmuz questo simbolo religioso viene impietosamente profanato. La lucertola è infatti impiccata alla maniglia della porta della Capitaneria del porto.
Ritorniamo ora al testo e vediamo cosa ancora accade. Turnavitu, tourne vite, nella xenonimia francese, dopo aver passato un periodo di vita politica, girando velocemente in qualità di ventilatore di stato presso luridi caffè orientali, greci, ora si trova ad essere nominato da Ismail a «ciambellano dei tassi»; una carica anch’essa di particolare importanza, una responsabilità che purtroppo verrà a tradursi in un evento drammatico nella narrazione. Infatti il povero Turnavitu, durante uno di questi ricorrenti viaggi, contrae un fastidioso raffreddore determinando la contaminazione dei tassi e quindi l’impossibilità da parte di Ismail di rinnovare il conseguimento del piacere e la continuazione del suo rituale esoterico. Implacabilmente Turnavitu fu all’istante licenziato, ciò che per lui comportò una pesante umiliazione e la messa in atto di un funesto piano di suicidio personale, non prima però di aver preparato un’adeguata vendetta, condotta con estrema lucidità.

«În una din aceste călătorii, Turnavitu, contractând un guturai nesuferit, molipsi la înapoiere, în aşa hal, pe toţi viezurii, încât, din cauza deselor lor strănuturi, Ismaïl nu îi mai putea avea la discreţie oricum. Fu imediat concediat din serviciu.
Fire afară din cale sensibilă şi neputând suporta o atare umilinţă, disperat, Turnavitu îşi puse atunci în aplicare funestul plan al sinuciderii, după ce avu însă mai întâi grijă să îşi scoată cei patru dinţi canini din gură…
Înainte de moarte se răzbună grozav pe Ismaïl, căci, punând să i se fure acestuia toate rochiile, cu gaz dintr-însul le dădu foc pe-un maidan. Redus astfel la mizerabila situaţie de a rămâne compus numai din ochi şi favoriţi, Ismaïl abia mai avu puterea să se târască până la marginea pepinierei cu viezuri; acolo căzu el în stare de decrepitudine şi în această stare a rămas şi până în ziua de azi». (pp. 61-62)

«In una di queste spedizioni, Turnavitu contrasse un insopportabile raffreddore e, al suo ritorno, contagiò a tal punto tutti i tassi che questi si misero a starnutire senza tregua. Ismail, non potendoli più avere a suo piacere, rimosse immediatamente Turnavitu dalla sua funzione».
Da qui inizia il dramma, la spirale negativa del desiderio – come saprà straordinariamente indicare Ionesco, restituendo ne «Le Rhume» de La Cantarice chauve il prestito contratto da Turnavitu:
«Natura estremamente sensibile, non potendo sopportare una così grande umiliazione, Turnavitu, in preda alla disperazione, mise in atto allora il suo funesto piano di suicidio, non senza aver preso innanzitutto, la precauzione di strapparsi dalla bocca i quatto denti canini».
Ormai i denti canini si sono trasformati in «denti di scrittura» (Celan). Ecco il finale: «Prima di morire, si vendicò atrocemente di Ismail: lo fece derubare di tutte le sue vesti che poi bruciò in mezzo alla via col suo petrolio interiore.  Ridotto così alla sua miserabile condizione di esser composto solo di occhi e favoriti, Ismail ebbe appena la forza di trascinarsi fino alla soglia della grotta dei tassi; lì cadde in uno stato di decrepitezza e in questa condizione vi giace ancora al giorno d’oggi...»
Si è assistito alla realizzazione di un piano di suicidio testuale. Gli elementi alchemici della materia scrittoria, dopo tante trasmutazioni, riprendono la loro essenzialità inconsistente della lettera. Ismail ritorna al suo stato di elemento scritturale, alla condizione originaria di grafema orientale proprio come lo aveva conosciuto Urmuz. Nel processo di allegoresi (che cela anche riferimenti storici riguardanti la Romania durante dominazione turca e il relativo governo greco fanariota, nonché le allusioni alle pagine della vita di Gesù), i componenti, gli attributi ornamentali di Ismail riprendono il loro statuto di frammento, di simulacro nel gioco corrosivo del «petrolio interiore» della scrittura di Urmuz. Il vuoto del soggetto è ciò che resta nella scrittura.
Al di là della realizzazione del «funesto piano di suicidio», gli occhi e favoriti di Ismail non fanno altro che riflettere il tratto particolare del desiderio, il suo essere oggetto scarto tra la domanda d’amore e il bisogno, sempre al di là del soddisfacimento del bisogno e al di qua della soddisfazione della domanda d’amore; desiderio che non si appaga mai di niente e che proprio per questo, appare definibile in negativo, attraverso questo non-appagamento che lo caratterizza e lo sostiene. Eppure in questo rinvio di significante in significante che lo rivela e lo nasconde insieme immortalandolo così nella scrittura, questo desiderio nasconde ancora qualcosa di non appagato né appagabile, non svanisce, resiste, rimane indistruttibile. Le prose urmuziane rivelano un’ontologia testuale, una carica profetica. Esse mettono in scena qualcosa di molto radicale: la dialettica senza fine del desiderio, il desiderio di desiderio dell’Altro [22]. In questo gioco è la morte che la fa da padrona. Tuttavia, la morte in quanto tale non deve mai tradursi in realtà effettiva, pena la fine del gioco [23]. Il riconoscimento della morte come Signore o Padrone assoluto porta con sé una distanza dalla morte come realtà effettuale, sia dalla morte del soggetto che non è mai esperita né mai tanto saputa come tale, sia dalla morte dell’altro, quella morte che il soggetto non può dare all’altro perché ciò condannerebbe il suo stesso desiderio di riconoscimento. Tenendo presente l’idea del «riconoscimento», nella sua articolazione con la struttura del «desiderio», si è in grado di comprendere adeguatamente la dinamica dell’evento scritturale delle Pagine bizzarre di Urmuz.
La morte è la regola del gioco ed è, ad un tempo, il patto che precede ogni forma di violenza. La morte è un maestro assoluto e deve essere posta a debita distanza. La lotta, la rivalità, la competizione dei personaggi di Urmuz, i quali mettono in scena il mito della lotta Servo-Padrone, è la cifra dell’aggressività che è insita nel desiderio di riconoscimento. È una lotta crudele in cui la crudeltà è sempre, al fondo, umanità, perché chi si colpisce a morte è proprio il simile. Il simile inteso come propria immagine speculare. Nella lotta Servo-Padrone la pulsione angosciosa di morte che domina e condiziona il narcisismo, si manifesta, quando straripa, in quell’aggressione che condanna il desiderio dell’altro ad una spirale di violenza insensata.
Freud ha mostrato che il narcisismo è uno stato che caratterizza l’Io, e, da questo punto di vista, il narcisismo non è solo amore di sé. L’essere umano per amare l’amato ha bisogno dell’Io per trasformare l’amato reale in oggetto d’amore. Per far questo ricorre al fantasma e trasforma l’amato in oggetto fantasmatico, ossia in un’immagine interiore. La meta ideale dell’amore è quella di fondersi con l’amato attraverso il fantasma: esperienza puramente illusoria e quindi impossibile da realizzarsi perché di Due, effettivamente, non si può fare Uno, se non appunto nel fantasma. A partire da qui si potrebbe aprire nella coppia una spirale di violenza se l’amore si limitasse a questo [24]. Da questa spirale violenta il desiderio di riconoscimento non uscirebbe se la morte non fosse posta a distanza come regola del gioco, se il simbolico, cioè la parola, non precedesse e fondasse l’immaginario che scatena questa dialettica del riconoscimento senza fine fino ai suoi esiti più disastrosi. È la morte, dunque, il Maestro assoluto che il desiderio di riconoscimento trova al fondo di sé. Ed è ancora la morte che, assunta come regola del gioco, trasposta nel simbolico, quindi nelle parole, consente al desiderio, che vuole fare uno nel fantasma, di uscire dalla spirale violenta senza fine del desiderio del desiderio dell’altro.
Nel simbolo – cioè nella parola, nella scrittura, nella letteratura, che permette attraverso il suo dispositivo di linguaggio di esprimere, in maniera mediata, questo desiderio di fare uno nell’amore – quindi nel patto simbolico o nella regola del gioco, il desiderio trova, oltre alla violenza, anche la possibilità di un accordo col desiderio dell’altro, una possibilità che certo non abolisce del tutto l’aggressività che rimane al fondo del desiderio, ma che, testimoniandola (attraverso la scrittura, la parola, la domanda, la cultura, ecc.), le trova una forma, la disciplina, cioè la educa, la civilizza ne fa qualcosa di significativo non solo per sé ma anche per gli altri.
Ciò che rimane dunque, alla fine, è un accordo tra i desideri, un accordo che è alla cieca, come quando si dice che l’amore è cieco. E c’è un prezzo che si paga per questa cecità dell’accordo dei desideri che è l’alienazione strutturale del desiderio dell’uomo nel simbolico, ossia il tributo soggettivo che si paga alla poesia, alla cultura, alla letteratura.
In altri termini, il desiderio deve trovare un varco nella parola, al limite tradursi in parola, farsi deportare nella parola, nella domanda d’amore o d’amicizia, nella sua dimensione misteriosa e mai perversa. Oppure – prima ancora che come desiderio dell’altro, inteso come proprio simile che può scatenare una competizione aggressiva o una rivalità infinita che può condurre alla morte effettiva – questo accordo cieco di desideri si può porre come desiderio dell’Altro con la maiuscola, cioè del soggetto che si scopre sempre di essere Altro rispetto a se stesso.
Il Desiderio del desiderio dell’Altro significa in fondo amare l’incertezza che è alla base di ciò che si è, ovvero amare l’enigma che noi siamo a noi stessi, amare il gioco nella nostra relazione con l’Altro o con gli altri, e la consapevolezza che si può essere altrimenti da ciò che riteniamo a priori di essere.

Identità e antipersonaggi

Dunque, ritornando più da vicino a Urmuz, finora si è visto che le coppie delle Pagine bizzarre (Ismail e Turnavitu, Algazy e Grummer, Cotadi e Dragomir, ecc.), ripropongono metonimicamente il conflitto hegeliano dell’autocoscienza per il riconoscimento, nel rapporto Servo/Signore, ovvero il passaggio della coscienza alla coscienza di Sé. La via che perseguono i personaggi è quella del desiderio che spinge verso l’alterazione di una presunta o mitica sostanza dell’identità. Il passaggio è traumatico e si esplica in una lotta all’ultimo sangue, in cui, nel rapporto dialettico di amore e odio, ciascuna personalità vuole essere riconosciuta senza tuttavia riconoscere l’altro. È il dramma immaginario dell’identità. Da qui il desiderio di sopprimere l’altro, della morte dell’Altro, si traduce inevitabilmente in una mancanza della coscienza di Sé (e in questo Urmuz dà l’impressione di andare oltre la visione totalizzante di Hegel in cui nessuno deve morire, pena il fallimento del confronto dialettico). Urmuz sembra piuttosto riscrivere questo dissidio hegeliano in termini per cui la dialettica della coscienza di Sé si trasforma nella dialettica infinita del Desiderio, nel dispiegamento della parola dell’Altro, in una corsa irrefrenabile fino «all’ultimo osso», che è luogo vuoto e originario della parola. su questa scia Urmuz sarà seguito in modo singolarmente diverso da Gherasim Luca, Paul Celan e Nichita Stănescu.
Da questo vuoto di parola si dispiega l’infinita corsa dei significanti scritturali che tentano illusoriamente di colmare il luogo della mancanza, attivando quel processo compositivo e scritturale che genera di fatto la molteplicità del senso. Si appaga così, illusoriamente, nel fantasma, quella soddisfazione di quel bisogno, di quel desiderio, di quella domanda d’amore che i personaggi urmuziani, inscenando fantasie perverse, tentano disperatamente di scambiarsi tra i silenzi della scrittura in una prospettiva abissale. Le pagine di Urmuz, proiettate verso il futuro, desiderano così raggiungere quel vuoto originario di parola che sta alla base di ogni prodursi del linguaggio, lasciando al lettore il compito di raccogliere e riesumare i frammenti, i resti, i muti grafemi, i nomi dimenticati, i reperti di una fantastica Biblioteca di Babele mai abbandonata.
A questo punto, tenendo presente ciò che i testi di Urmuz mettono realmente in gioco, si potrebbe provare a tracciare una filiazione diretta con una genealogia di autori-personaggi riconducibili a una particolare tipologia letteraria novecentesca. In questa prospettiva si può immaginare un grande albero araldico di personaggi cartacei, o antipersonaggi, in cui gli scrittori, all’inizio del secolo scorso, hanno rappresentato se stessi eclissandosi nella scrittura [25].
Se si accoglie il suggerimento di Eugène Ionesco, secondo cui in Urmuz, come in Kafka e in Jarry, è in atto un tentativo da parte del soggetto di riappropriarsi della realtà, instaurando un nuovo rapporto con le cose, – in quanto l’attività creativa e il creatore stesso non possono essere risparmiati dal processo di alienazione – lo scrittore, da questo punto di vista, si trova come invischiato, a causa del loro carattere mercificante, negli oggetti che impiega per il reperimento di nuovi impasti stilistici: il soggetto diventa in prima persona vittima del feticismo insito nel suo rapporto alienato con l’oggetto, e di conseguenza, per superare questa contraddizione, deve cercare di abolirsi per testimoniare quella crudele e talvolta gioiosa forma di godimento e di desiderio che dall’opera d’arte promana.
In altre parole, si è disposti ad avallare l’ipotesi interpretativa secondo cui le prose urmuziane si collocano nel «segno di Odradek» – come già aveva osservato Ion Biberi nel 1937 in accordo con Saşa Pană che aveva tradotto in romeno il piccolo testo kafkiano – cioè, in quel particolare fenomeno per cui l’opera d’arte si esplica e si differenzia nei confronti della merce mostrando quella tendenza irriducibile alla reificazione dell’umano. In un certo senso si tratta di una dialettica perversa che si poggia su un fondo di tipo sacrificale, ossia di una dialettica impossibile tra godimento e distruzione del soggetto.
«La condizione della riuscita di questo compito sacrificale – scrive Giorgio Agamben – è che l’artista porti fino alle sue estreme conseguenze il principio della perdita e dello spossessamento di sé. L’esclamazione programmatica di Rimbaud: je est un autre deve essere presa alla lettera: la redenzione delle cose non è possibile che a patto di diventare cosa. Come l’opera d’arte deve distruggere e alienare se stessa per diventare merce assoluta, così l’artista […] deve diventare un cadavere vivente, costantemente teso verso un altro, una creatura essenzialmente non umana e antiumana» [26]. Dunque, l’abolizione del soggetto nel testo non è altro che una particolare forma di scrittura, una scrittura che può essere definita, nei termini di Maurice Blanchot, come mortale [27].

L’abolizione del soggetto nel testo è in fondo scrittura dell’altro, del morire stesso. Ora, la morte in questione della scrittura è la morte del soggetto stesso. È il venir meno del soggetto come identità, interiorità, presenza a sé. È radicale messa in questione della soggettività. Si tratta dunque di pensare il rapporto con la scrittura come un rapporto in cui la presunta identità del soggetto che scrive è cancellata, e il soggetto dello scrivere non è altro che un soggetto che viene meno. Ma è proprio in forza di ciò che il soggetto, rinunciando alla tentazione di porsi come un sapere totalizzante e definitivo, è portato a un altro tipo di sapere, un sapere latente e trasformativo, un sapere dinamico, sempre in movimento, che è differente da ogni sapere. L’abolizione del soggetto nel testo, teorizzato da Mincu, è, in tal senso, la prova mortale di una scrittura che si rivela come traduzione sempre in atto. Essa è teoricamente infinita e può solo trovare qualche punto d’arresto nel fantasma creato dall’autore, nel tentativo impossibile di colmare le lacune della verità del desiderio che intimamente lo riguarda.



Giovanni Rotiroti
(n. 4, aprile 2014, anno IV)

NOTE

1. Mi riferisco, in particolare, al volume Ion Barbu. Eseu despre textualizarea poetică, apparso nel 1981, il quale ha rappresentato, a quel tempo, la summa teorica dello sperimentalismo e del testualismo nello spazio culturale romeno.
2. M. Mincu, Ion Barbu. Eseu despre textualizarea poetică, Bucureşti, Cartea Românească, 1981, pp. 282-283.
3. M. Mincu, Avangarda Literară Românească, Bucureşti, Cartea Românească, 1983, p. 25.
4. M. Mincu, Avanguardia romena e avanguardia europea, in Poesia romena d’avanguardia, a cura di M. Cugno e M. Mincu, Milano, Feltrinelli, 1980, p. 38.
5. In tal senso Julia Kristeva, facendo riferimento al primo insegnamento di Lacan, scrive: «Nelle sue avanzate più ardite, la psicanalisi attuale, quella lacaniana, propone una teoria del soggetto come unità scissa, sorta e determinata dal manque (il vuoto, il nulla, lo zero, secondo la dottrina di riferimento) e in cerca inappagata di un impossibile che il desiderio metonimico figura. Questo soggetto, che chiameremo “soggetto unario”, sommesso alla legge dell’Uno che s’invera essere il Nome del Padre, questo soggetto della filiazione o soggetto-figlio è in effetti il non detto o se si vuole la verità del soggetto della scienza ma anche del soggetto assoggettato dell'organismo sociale (della famiglia, del clan, dello stato, del gruppo). Che ogni soggetto, nella misura che è soggetto d'una società, supponga questa istanza unaria scissa che Freud ha posto per primo con la topica Inconscio/Conscio, è ciò che ci dice la psicoanalisi, attirando l’attenzione verso ciò che costituisce il soggetto, cioè la rimozione originaria. Se questa rimozione originaria istituisce il soggetto al tempo stesso che istituisce la funzione simbolica, essa istituisce pure la distinzione significante/significato nella quale Lacan vede la determinazione di ogni cesura di ordine sociale. Il soggetto unario è il soggetto che si istituisce da questa cesura di ordine sociale». J. Kristeva, Il soggetto in processo, in Artaud, verso una rivoluzione culturale, Bari, Dedalo Libri, 1974, pp. 41-42.
6. Cfr. M. Mincu, Avangarda Literară Românească, cit., p. 25.
7. Sulla correlazione psicanalitica fra Il Nome del Padre e il desiderio si veda Dizionario di psicanalisi, a cura di R. Chemama e B. Vandermersch, Roma, Gremese Editore, 2004, pp. 225-226.
8. Su questo particolare aspetto dell’opera di Urmuz mi permetto di rinviare al mio libro, Il piacere di leggere Urmuz. Indagini psicanalitiche sui fantasmi letterari delle «Pagine Bizzarre», Università degli Studi di Napoli «L’Orientale», Napoli, Il Torcoliere, 2010.
9. In psicanalisi, questo evento, che è testimoniato dalla clinica, prende il nome di afanisi. Si tratta di una fantasia di annichilimento dai tratti fortemente angosciosi. Si veda a questo proposito J. Laplanche e J.-B. Pontalis, Enciclopedia della psicanalisi, Roma-Bari, Laterza, 1990, p. 6.
10. Das Ding è «quanto vi è di più intimo per un soggetto, benché a lui estraneo, strutturalmente inaccessibile, significato come proibito (incesto) e da lui immaginato come il Bene sovrano», Dizionario di psicanalisi, a cura di R. Chemama e B. Vandermersch, cit., p. 72.
11. Si vedano a questo proposito i lavori di Stefano Agosti, in particolare Critica della testualità. Strutture e articolazioni del senso nell’opera letteraria, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 357-373. Nei libri di Mincu si parla a questo riguardo di «semiosi infinita».
12. Questa novella di Urmuz è stata pubblicata da Arghezi nella rivista «Cugetul românesc», I, n. 3, 1922, pp. 270-272. Si riporta l’edizione critica stabilita da Ion Pop: Urmuz, Schiţe şi nuvele aproape… futuriste,Bucarest, Editura Tracus Arte, 2012.
13. Questa ipotesi sembra essere confermata dallo stesso Urmuz, quando nel Post scriptum contenuto nel manoscritto della Biblioteca dell’Accademia Romena, si trova scritto che Ismaïl […] nu a fost niciodată monument, ci numai personaj istoric,[…]. Cfr. Urmuz, Schiţe şi nuvele aproape… futuriste, cit., p. 62 nota 36.
14. Ibidem.
15. Henri Corbin, Storia della filosofia islamica. Dalle origini ai giorni nostri, Milano, Adelphi, 1991, p. 233.
16. Mi riferisco alla celeberrima battuta dei coniugi Martin ne La Cantatrice chauve.
17. Cfr. Nicolae Balotă, Urmuz, Cluj, Editura Dacia, 1970, pp. 117-120.
18. M. Mincu, Avangarda Literară Românească, cit., p. 25.
19. «în un borcan cu o soluţie de ambrozie şi papricaş», Urmuz, Schiţe şi nuvele aproape… futuriste, cit., p. 58 nota 6.
20. J. L. Austin, Come fare cose con le parole, Genova, Marietti, 1987.
21. Il Fisiologo, a cura di Francesco Zambon, , Milano, Adelphi, 1975, p. 40.
22. «Il desiderio – scrive Lacan – è ciò che si manifesta nell’intervallo scavato dalla domanda al di qua di se stessa in quanto il soggetto, articolando la catena significante, porta alla luce la mancanza ad essere insieme all’invocazione a riceverne il complemento dall’Altro, luogo della parola, e anche il luogo di questa mancanza. In tal modo ciò che all’Altro è dato di colmare, e che è proprio ciò che non ha perché anche a lui l’essere manca, è ciò che si chiama amore, ma anche odio e ignoranza. Ed anche, passioni dell’essere, ciò che è evocato da ogni domanda aldilà del bisogno che in che in essa si articola, e di ciò il soggetto rimane tanto più privato quanto più è soddisfatto il bisogno articolato nella domanda. Più ancora, la soddisfazione del bisogno appare come l’illusione in cui la domanda d’amore va schiantarsi, rimandando il soggetto al sonno in cui questo frequenta il limbo dell’essere, lasciandolo partire in esso». J. Lacan, Scritti, traduzione di Giacomo Contri, Torino, Einaudi, 1974, p. 623.
23. Si veda su questo particolare aspetto lo studio di Marianna Gensabella Furnari, L’oggetto perduto. Desiderio e verità in Jacques Lacan, Napoli, Giannini Editore, 1985, pp. 85-99.
24. Nell’amore si tratta in realtà dell’incontro del Due nell’evento del Terzo, cioè nell’incontro dell’evento simbolico della morte e della parola che fanno parte costitutiva del gioco irriducibile del desiderio. In questo senso Lacan diceva che «non c’è rapporto sessuale». Cfr. Alain Badiou, Elogio dell’amore, Vicenza, Neri Pozza, 2013, pp. 27-30.
25. Jarry in Docteur Faustroll, Kafka in Odradek, Urmuz nei vari Stamate, Fuchs, Algazy, Dragomir, ecc., aggiungendo a questo catalogo Mallarmé in Igitur, Michaux in Plume, Beckett in Molloy, Calvino in Palomar e così di seguito.
26. G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino, Einaudi, 1977, p. 59.
27. Cfr. M. Blanchot, L’Entretien infini, Paris, Gallimard, 1969.