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 |  | Urmuz e la radicale questione del soggetto della scrittura. Il caso di Ismail e Turnavitu
 
  L’abolizione del soggetto nel testo è uno dei concetti più importanti che  Marin Mincu ha introdotto nel contesto del pensiero critico e testuale.  L’elaborazione di questo concetto si trova in uno dei suoi tre libri dedicati  all’opera del poeta-matematico Ion Barbu [1]. Secondo Mincu, la poesia di Ion  Barbu è un ininterrotto divenire, un processo intertestuale, un’autogenerazione  continua di senso in cui, attraverso il gioco delle permutazioni sintattiche, è  possibile notare come il soggetto della scrittura sembri quasi annullarsi  insieme all’autore. Nell’ambito della «pratica significante» della poesia  barbiana, Mincu parla di «lezione tragica» del poeta-matematico, di una sua  particolare «consacrazione al testo» che richiede «il totale annullamento del  soggetto», la sua cancellazione e, allo stesso tempo, la sua integrazione nella  trama testuale, che è intessuta dalle maglie del «reale». Più precisamente  Mincu scrive: «L’instaurazione  definitiva del testo richiede prima di tutto la soppressione del soggetto-autore  (un autore che ha prodotto testi non scrive più, ma si sposta altrove, come è  il caso di Rimbaud, Lautréamont, Urmuz, Ion Barbu), e poi anche del personaggio  del testo [...]. Il tutto si riduce essenzialmente al gioco sempre nuovo delle superfici intertestuali. La morte del personaggio ci fa assistere alla  morte nella scrittura come se si trattasse di un evento spettacolare [...], il  segno esatto consacrato dall’ipostasi autoriflessiva» [2]. Come si può  notare dalla citazione, oltre a Rimbaud, Lautréamont e Barbu, Mincu annovera  tra i protagonisti di questa «opzione testuale» anche Urmuz. Tant’è vero che il critico romeno  tornerà sull’opera di Urmuz due anni dopo, nel 1983, con un piccolo saggio che  si trova nell’introduzione alla sua antologia Avangarda Literară Românească.  In questo volume, dopo aver esposto sinteticamente la strategia retorica di  Urmuz, afferma: «La  lezione di Urmuz costituisce un modello catalizzante per tutti gli  avanguardisti romeni. Il suo discorso istituisce una vera rivoluzione nel  quadro delle forme d’espressione [...]. Urmuz comprende tra i primi che la  forma (il significante) è l’elemento che lo scrittore deve mettere in azione  [...]. L’attitudine responsabile di Urmuz nell’assunzione teoretica deliberata  dell’atto di scrittura è condotta con lucidità fino all’ultima conseguenza  tragica: la distruzione del soggetto nel linguaggio. Una simile esperienza è  stata portata fino in fondo solo da Lautréamont [...]. Con un’anticipazione di  quasi mezzo secolo, Urmuz intuisce vagamente la pratica significante come  processo della testualizzazione letteraria e la applica dandogli una  significazione maieutica per tutti gli sperimentalisti di oggi» [3].
 In realtà,  Mincu, qualche anno prima, aveva già identificato questa particolare modalità  testuale («la pratica significante come processo della testualizzazione  letteraria»), indicando  nell’esemplarità scrittoria di Urmuz la «distruzione del soggetto nel  linguaggio». Infatti,  nell’antologia italiana Poesia romena d’avanguardia, apparsa a Milano  nel 1980 e curata insieme a Marco Cugno, si legge: «La lezione di Urmuz  costituisce […] un modello fondamentale per gli artisti romeni d’avanguardia.  Essa inserisce nel quadro della letteratura romena una vera rivoluzione del  linguaggio, comprendendo la disgregazione delle forme letterarie e divulgando  per la prima volta la tendenza alla reificazione dell’umano. Nei suoi pochi  testi Urmuz non fa soltanto una parodia dei temi e dei procedimenti della  letteratura: egli lavora in modo cosciente sul linguaggio, desiderando mutarlo.  Per questo scoprirà i meccanismi mediante i quali la pratica significante  genera il testo, dissacrando l’atto della scrittura. Urmuz capisce che la forma  (significante) è l’elemento sul quale deve agire lo scrittore: tuttavia coloro  che lo adottano come esempio letterario non hanno ancora chiara questa pratica  e si fermano soprattutto sul contenuto (il significato). La serietà di Urmuz  nell’assunzione teorica deliberata dell’atto della scrittura è portata con  lucidità fino all’ultima conseguenza: l’autodistruzione del soggetto nel  linguaggio» [4].
 Secondo Mincu, è proprio  in questa dimensione di «auto-sacrificio testuale» (l’autodistruzione  del soggetto nel linguaggio) che si adempie il destino scritturale ed  esistenziale di Urmuz, cioè in quello spazio interstiziale e impalpabile, in  quella «pratica significante»  in cui il soggetto «si abolisce nel testo per autorigenerarsi nella scrittura». Il «Testo» di Urmuz, per sua  stessa natura, produce sempre uno scarto indecidibile, e questo scarto non solo  «spiazza l’aspettativa del lettore»,  ma implica anche una profonda cesura a livello del soggetto medesimo, una Spaltung che ne determina la differenziazione e che, al contempo, ne istituisce il luogo  dell’enunciazione reperibile nella sfrenata corsa dei significanti scritturali  [5]. La condizione necessaria affinché quest’evento possa realmente prodursi, è  che il soggetto scritturale si eclissi nel linguaggio, seguendo una prospettiva  di tipo sacrificale.
 «In generale, – scrive  Mincu – la narrazione urmuziana, sia che si presenti sotto forma di romanzo,  fiaba, novella [o poema in prosa], ha uno sviluppo progressivamente parabolico  dallo scatto iniziale fino alla risoluzione finale. Per converso, Urmuz  procederà verso la distruzione del soggetto, sostituendolo con un sistema di  assi che si intersecano in modo aleatorio; sull’asse orizzontale si descrive  una serie di situazioni e oggetti che commettono atti riparabili, sull’asse  verticale solo qualche movimento illogico. Il passaggio da un asse all’altro,  brusco e imprevedibile, conduce allo spiazzamento dell’aspettativa del lettore,  che non ha altra possibilità che di adattarsi al codice di lettura proposta dal Testo. Da queste osservazioni si può  dedurre che sull’asse verticale, essendo quello preponderante, il lettore deve  accettare volens-nolens, una lettura  paradigmatica» [6].
 Prendendo a prestito gli  assi del linguaggio di Jakobson, Mincu afferma che spetta unicamente al lettore  il compito di dare l’interpretazione giusta al «Testo», pur sapendo che la sua «lettura» sarà inevitabilmente  condizionata dall’equivoco poli-prospettico e anamorfico della narrazione. Tale  equivoco è strutturale, perché da una parte è causato da quella «pratica  significante», che si  ingenera a partire dall’asse immaginario che è il supporto del desiderio – il  quale è caratterizzato dalla sua mobilità metonimica gravitante intorno ai suoi  oggetti – e dall’altra è causato dall’asse simbolico (cioè il «codice di  lettura proposta dal Testo») che è identificabile  al «grande Altro», alla metafora  lacaniana del «Nome del Padre»,  ovvero all’evocazione appassionata della presenza inoggettivabile dell’Altro,  che assicura soggettivamente la tenuta sintattica della relazione testuale [7].
 Il movimento del soggetto testuale alle prese con l’oggetto
 Da un punto di vista più  strettamente psicanalitico, si può del resto notare come nelle Pagine  bizzarre il fantasma soggettivo di annullamento nel testo rientri a pieno  titolo nella pratica discorsiva di Urmuz [8]. Il soggetto urmuziano è nello  stesso tempo congiunto e disgiunto dall’oggetto del desiderio; fra i due  termini c’è legame, ma la loro relazione non è univoca. È come se il legame  simbolico con la parola fosse provvisoriamente sciolto e il soggetto in maniera  inquietante si trovasse faccia a faccia con l’oggetto, così vicino da esserne  quasi fagocitato [9]. Questa dimensione perturbante, in cui il soggetto è sul  punto di svanire, non ha tanto a che fare con la rappresentazione dell’oggetto  del desiderio, ma con una forma d’esperienza più oscura e arcana che è dettata  dalla spinta verso la Cosa, das Ding [10].
 A partire da  quest’enigmatico evento, le Pagine bizzarre si configurano come un  particolare specchio di scrittura di Urmuz in cui è possibile rintracciare il  movimento del soggetto testuale alle prese con l’oggetto. Esso non si dà mai  come un denotatum, ma si cela  cripticamente nel dispiegamento dei significanti scritturali. Il soggetto delle  «novelle» di Urmuz si  rivela così nelle lacune del senso, nelle virgolette, nei puntini sospensivi e  nei luoghi indecidibili degli eventi testuali che catturano immancabilmente  l’occhio e l’orecchio del lettore, ossia in quei luoghi determinati dalla  particolare forma del «Testo»  il cui senso resiste a qualsiasi tentativo di racchiuderlo in qualche significato  accertabile o univocamente predefinito.
 Abolendosi coi  suoi personaggi, e dando così vita alla voce impersonale del «Testo», il soggetto  scritturale è concepibile come un universale singolare in cui si inscrivono le  marche stilistico-formali della prima persona senza che tuttavia si esibisca  quello strapotere debordante e narcisistico dell’Io. E questo è un dato  rilevabile facilmente che va in contro tendenza, per esempio, sia rispetto alle  modalità espressive del soggetto romantico (di tipo emineschiano) sia rispetto  a quelle del soggetto avanguardistico di stampo dada-surrealista. Questo  soggetto depotenziato, che passa sotto il nome di Urmuz, traccia nelle Pagine  Bizzarre un percorso enciclopedico in cui l’Io stesso viene tagliato,  segmentato nelle sequenze scritturali, come lamine costitutive dello stesso  fantasma di autodissoluzione.
 I luoghi  urmuziani della narrazione, anche se si presentano in maniera falsamente  descrittiva e parodicamente allusiva, in un intricato e complesso gioco  imperniato sui nomi propri, tendono a illustrare delle micro-narrazioni  esemplari in cui il soggetto del linguaggio ha modo di farsi sentire proprio in  quei luoghi di maggiore opacità e di indecidibilità interpretativa. È come se  la barra del segno linguistico, che separa il significante dal significato,  operasse nettamente una cesura, un taglio simbolico non suturabile nel  dispositivo letterario delle Pagine bizzarre. Ed è proprio attraverso  questo taglio che il lettore ha illusoriamente la possibilità di riempire quel  vuoto di senso attraverso le sue più o meno verosimili interpretazioni  incentrate sull’immaginario testuale. Ma il taglio permane e il Testo si  presenta leggibile e illeggibile allo stesso tempo, garantendo ad esso, così,  una fruibilità e un’inesauribilità «semantica» teoricamente infinita [11].
 Prendiamo il  caso di Ismaïl şi Turnavitu a titolo puramente  esemplificativo del discorso che stiamo facendo.
 «Ismaïl  şi Turnavitu [12] Ismaïl este compus din ochi, favoriţi şi rochie şi se găseşte astăzi cu  foarte mare greutate.
 Înainte vreme creştea şi în Grădina Botanică, iar mai tîrziu, graţie  progresului ştiinţei moderne, s-a reuşit să se fabrice unul pe cale chimică,  prin syntheză.
 Ismaïl nu umblă niciodată singur. Poate fi găsit însă pe la ora 5 ½  dimineaţa, rătăcind în zig-zag pe strada Arionoaiei, însoţit fiind de un  viezure de care se află strâns legat cu un odgon de vapor şi pe care în timpul  nopţii îl mănâncă crud şi viu, după ce mai întâi i-a rupt urechile şi a stors  pe el puţină lămâie… Alţi viezuri mai cultivă Ismaïl în o pepinieră situată în  fundul unei gropi din Dobrogea, unde îi întreţine până ce au împlinit vârsta de  16 ani şi au căpătat forme mai pline, când, la adăpost de orice răspundere  penală, îi necinsteşte rând pe rând şi fără pic de mustrare de cuget». (p. 58)
 «Ismail è  composto di occhi, favoriti e una veste, e solo con molta difficoltà oggi lo si  può rintracciare». Ecco un primo  enigma. Chi è Ismail?«Tempo fa cresceva anche  nell’Orto Botanico e più tardi, grazie al progresso della scienza moderna, si è  riusciti a fabbricarne uno per via chimica, mediante sintesi». Le maiuscole sono  rilevanti in Urmuz per creare equivoci e doppi sensi. Quello che segue è  un’allusione ironica che sembra prendere di mira la scienza.
 «Ismail nei suoi  spostamenti non si muove mai da solo. È ancora possibile reperirlo verso le 5 e  1/2 del mattino nel suo errabondo zigzagare sulla via Arionoaia, dove lo si  vede sempre accompagnato da un tasso, a cui è strettamente legato da un canapo  di bastimento. Quando arriva la notte, Ismail, una volta che gli ha strappato  le orecchie, se lo mangia interamente crudo e ancora vivo, spremendovi sopra un  po’ di limone...»
 «Altri tassi Ismail li  alleva in una pepiniera situata nel fondo di una grotta della Dobrugia». La Dobrugia, regione  geografica compresa tra il basso corso del Danubio e il mar Nero, era anticamente  abitata dai Daci, divenne poi provincia romana. Sottomessa all’impero ottomano  per cinque secoli, a seguito delle guerre balcaniche e della prima guerra  mondiale – cui partecipò Urmuz – la Dobrugia fu divisa tra Bulgaria e Romania.  «In questo luogo egli provvede al loro sostentamento fino al compimento del  sedicesimo anno, età in cui le loro forme si sono fatte più piene; soltanto a  partire da allora, ormai al riparo da ogni responsabilità di ordine penale, li  deflora uno a uno, senza manifestare un benché minimo senso di colpa».
 
 Anche quest’altra  attività di Ismail, come si vede, e tutt’altro che rassicurante. L’occupazione  esistenziale di questo grottesco prodotto del progresso scientifico, si traduce  nell’azione della tortura («strappare le orecchie»), della violenza sessuale («stupro»), nonché del cannibalismo  più sordido e disgustoso («li mangia interamente crudi e ancora vivi») anche se il gesto di  spremervi un po’ di limone tradisce un tocco raffinato da parte dell’eroe  urmuziano. Certamente i tassi nel corso della tradizione culturale di tutti i  tempi, non hanno goduto di una favorevole considerazione. Già Plinio il vecchio  testimoniava che i tassi insieme ai castori venivano allevati, nell’Antichità,  per potergli cavare i genitali, dotati di un benefico potere per coloro che li  avessero ingeriti, perché ritenuti portentosi stimolanti sessuali. Anche in  tempi meno sospetti l’eroe di Italo Calvino ne Il barone rampante scuoia i tassi per adibirli a  comode pantofole; quindi, non c’è da meravigliarsi se i tassi di Ismail non si  discostano dalla norma della tradizione. Indubbiamente il piacere di Ismail  appartiene alla sfera di un erotismo perverso, ma non per questo bisogna  vedervi le tracce di un dramma esistenziale, di un’incomunicabilità  insormontabile, o parlare in termini psichiatrici di un caso clinico di Urmuz,  tutti luoghi, questi, peraltro già battuti dalla critica nel tentativo di arginare  la portata eversiva del dettato delle Pagine bizzarre. Non è questa la  sede né di ripercorrerli velocemente né di confutarne le asserzioni. Riteniamo,  in fondo, che il rituale alimentare di Ismail sia da ascriversi alla  prospettiva hegeliana, cioè al riconoscimento del valore dell’altro a tal punto  da doverlo ingoiare. La domanda, tuttavia, rimane. Qual è l’enigma che si cela  all’ombra del nome di Ismail? È un riferimento biblico? È anche questo il nome  tratto da un’insegna pubblicitaria, come indica la «Nota» di Urmuz apposta al titolo del racconto Algazy & Grummer? Oppure indica una  cittadina della Bessarabia, posta sul confine tracciato dal delta del Danubio,  scritta in caratteri cirillici (Измаил) come si leggeva nei cartelli  stradali? In fondo non lo sappiamo con certezza. Si sa solo che Ismail si  compone di occhi, favoriti e una veste, che oggi e difficile trovarlo, che un  tempo cresceva nell’Orto Botanico e che erra ossessivamente a zig-zag in via  Arionoaia. Si è indotti a credere, conoscendo gli effetti di superficie  provocati dal gioco linguistico di Urmuz, che si tratti con ogni probabilità di  un’espressione grafica scritta in caratteri arabi che, traslitterata, risulta  essere il nome del filosofo-teologo sufista Ismail al-Ro’ayni, seguace di Empedocle,  vissuto tra il V e l’XI secolo [13].
 È come dire che Urmuz  ripropone nella trama testuale la topica del nome di Ismail mettendolo  letteralmente in scena, cioè facendolo zigzagare mimograficamente in via Arionaia (al-Ro’ayni). Infatti,  come si può notare, Ismail si compone letteralmente di occhi, favoriti (cioè fedine, scopettoni, lunghe basette che  arrivano in prossimità della bocca) e ha un andamento a zigzag sulla via che  porta il suo nome. Inoltre è difficile trovarlo, tranne che verso le cinque e  mezzo, infatti, da quanto si sa, è esistito all’inizio del V secolo e abbiamo  poche notizie su di lui; conosciamo solo il suo nome, come lo conosceva del  resto Urmuz, che sa cancellare abilmente le tracce dei suoi prestiti culturali.  È come se Urmuz nell’atto della scrittura cancellasse l’eventuale fonte della  sua lettura e utilizzasse l’articolazione vuota del nome proprio, grazie alla  combinatoria del linguaggio, per investirla di materia linguistica, con meri  segni grafici, che si consegnano al senso con significati iperbolici e  allegorizzati. Si tratta, dunque, di un «personaggio storico» e non di un «monumento» [14], più precisamente del  filosofo-teologo sufista di nome Isma’il ibn Abdillah al-Ro’ayni, «il nome più celebre in seno al  sufismo spagnolo» [15]. In questo  senso, si comprende l’azione del suo «amico» Turnavitu, che, per andare a trovarlo, «intraprende  un lungo viaggio, di solito alle isole Maiorca e Minorca». Da ciò che ci riferisce Henri Corbin, si  apprende anche che la scuola sufi costituitasi in Spagna, fu costretta a vivere  in un clima di intolleranza e di sospetto, disturbata e anatemizzata e che  dovette trincerarsi in un esoterismo stretto e in un’organizzazione segreta.  Nulla però vieta di pensare che anche in questo caso si possa trattare ioneschianamente di una «bizzarra coincidenza» [16].
 Ma guardiamo al testo e  seguiamo la prospettiva tracciata da Isma’il al-Ro’ayni (Ismail) prendendola per  vera o, per lo meno, storicamente «fondata» dal punto di vista dell’autore: «l’Orto Botanico» è da riferire forse al locus  amoenus dei giardini mussulmani  che prefiguravano, per la loro bellezza e per il loro simbolismo, il paradiso  di Allah. Urmuz si farebbe così gioco dell’aspetto sacralizzante del sufismo  che, su basi gnostico-neoplatoniche, traduceva l’ideale mistico del credente  nella relazione amorosa, più astratta possibile, con Dio, recuperando  quell’aspetto materiale che il misticismo occidentale fondamentalmente negava.  Il rapporto credente-Dio, nel linguaggio filosofico-teologico sufista, assume  le sembianze del rapporto tra l’io e l’altro, tra amante e Amato attraverso un’infinita possibilità metaforica  di immagini e rappresentazioni. Viene riattualizzato l’antico dualismo  Luce-Tenebre attraverso un ricchissimo gioco di corrispondenze che sono  attestate anche nelle espressioni artistiche della letteratura e delle  miniature, nonché nella simbologia dei giardini islamici. Il tutto verte  sull’Unione mistico-ascetica, sul congiungimento dell’Amato con Lui, e ha molti  punti di contatto con l’attività speculativa dell’ermetismo rinascimentale.
 Ironicamente nel testo,  Ismail si mostra molto crudele, trafigge i tassi e poi li mangia, dopo averli  prima seviziati. Il tasso rappresenta, se seguiamo questa provocatoria traccia  di lettura, la componente ilica dell’uomo,  teme la luce e si nutre del proprio grasso, si traveste di notte per abusare  delle donne, è astuto e volgare. Perciò Ismail, lo pseudo-teologo mussulmano,  sembrerebbe punirlo, attraverso un rituale perverso, più consono alla sua usanza  orientale. Ma al contempo se ne nutre, lo usa come pharmakon, come  un’omeopatia: il male scaccia il male, e il materiale espelle il materiale per  far posto alla luce. E infatti lo alleva insieme ad altri nell’oscurità di una  grotta della Dobrugia.
 
 I riferimenti alla «scienza»
 
 Ora riprendiamo  la questione di Ismail da un’altra prospettiva, quella riguardante da vicino la  scienza, o meglio il mito della scienza creato dal positivismo di fine secolo:  «grazie al progresso della scienza moderna, si è riusciti a fabbricarne uno per  via chimica, mediante sintesi».  Come è facilmente riscontrabile dalla lettura delle Pagine bizzarre di  Urmuz i riferimenti alla «scienza»  vengono combinati nella scrittura come appendici significanti atte a depistare  l’attenzione significativa del lettore il quale tenta vanamente di colmare i  significanti con dei significati di pregnanza culturale e libresca nel  tentativo impossibile di addomesticare l’inquietante e lo spaesamento  umoristico che attraversa la sua lettura. Alla descrizione «pedante», come ricorda Arghezi,  dei personaggi delle Pagine bizzarre, corrispondono spesso  interpolazioni «scientifiche»  artificiose e meramente accessoriali, introdotte all’unico scopo di  intraprendere un’azione deviante e prettamente grottesca sulla natura dei personaggi.  Questa tecnica dispositiva e combinatoria, che mira chiaramente a demistificare  il mito della scienza, attraversa anche i luoghi della narrazione [17]. Per  esempio, in Pâlnia şi Stamate appaiono al centro della descrizione degli  ambienti «un tavolo senza gambe, basato su calcoli e probabilità», e un vano chiuso, strutturato  come una monade che «comunica con il mondo esterno mediante un tubo»,  in questo caso un «telescopio», «che a volte fuma e  consente di vedere, durante la notte, i sette emisferi di Tolomeo», cioè lo scienziato  precopernicano, «e durante il giorno, due uomini discendere dalla scimmia e una  successione finita di semi secchi accanto all’Auto-Cosmo infinito e inutile»; mentre il vano  limitrofo è rappresentato da «un interno turco [...] misurato col compasso». Il «tubo-telescopio», «gli emisferi di Tolomeo», «gli uomini discesi  dalla scimmia», il «compasso» sono tutte protesi  accessoriali che, nella sequenza significante, rinviano alla sfera semantica  della «scienza» che nella  cultura positivista tendeva a conferire proprio alla scienza e alla tecnologia  il compito di una definizione gerarchica anche dei valori sociali. Il  procedimento attuato da Urmuz, cioè quel procedimento di accumulazione  semantica dei sintagmi utilizzati per la descrizione della localizzazione  spaziale degli elementi costitutivi della trama testuale, veicola, nella  configurazione sinonimica dei significati, uno spostamento degli assi del  linguaggio. La sinonimia creata da Urmuz crea una sorta di cortocircuito testuale.  Gli assi si spostano e ciò crea equivoco. Come scrive Mincu: «Il passaggio da  un asse all’altro, brusco e imprevedibile, conduce allo spiazzamento  dell’aspettativa del lettore, che non ha altra possibilità che di adattarsi al codice di lettura proposta dal Testo.  Da queste osservazioni si può dedurre che sull’asse verticale, essendo quello  preponderante, il lettore deve accettare volens-nolens, una lettura  paradigmatica» [18].
 Attraverso  questo singolare dispositivo anamorfico di linguaggio Urmuz, dal punto di vista  storico e culturale, focalizza l’attenzione di chi legge sulla concezione  normativa della scienza che ha imposto, a cavallo tra l’Ottocento e il  Novecento, la Weltanschaung dominante dell’epoca scientista. Se si  prende in considerazione il semioticamente «motivema» urmuziano «uomini discendere dalla scimmia», ci si renderà presto  conto che lo scrittore romeno prende di mira il libro di Charles Darwin L’origine  dell’uomo (1871) che chiariva la fondamentale scoperta dell’evoluzionismo  biologico, caposaldo della scienza. Darwin sosteneva che l’uomo civile era il  risultato di un’evoluzione da organismi inferiori e che non era possibile  nessuna differenza fondamentale tra l’uomo e i mammiferi elevati per quanto  riguardava le loro facoltà mentali. In tal modo la selezione naturale poneva le  basi per il perfezionamento indefinito dell’uomo. Così «grazie al progresso  della scienza moderna» Urmuz additava,  con la fabbricazione dell’homunculus Ismail, «per via chimica tramite  sintesi», a quel cieco  ottimismo razionalistico della scienza che pretendeva di scoprire le «leggi  oggettive» della natura  tali da decifrare anche la «particolarità»  di Cotadi che era quella di «diventare, senza volerlo, due volte più largo e  completamente trasparente, una volta sola all’anno, e cioè, quando il sole  giunge al solstizio». Il mito del  progresso, secondo le leggi della ragione oggettiva, consisteva quindi,  nell’accumularsi delle scoperte tecnologiche che inevitabilmente avrebbero condotto  alla definizione della «verità»;  e in virtù di ciò, anche la famiglia Stamate, nell’ottica dell’ideologia  borghese, avrebbe potuto concedersi di «guardare col binocolo nel Nirvana» e contemplare i più  alti misteri dell’esperienza mistico-religiosa, combinando insieme «un po’ di  metafisica e astronomia».
 
 Altri particolari riguardanti Ismail
 
 Ma torniamo a Ismail  che, come si è visto, vive in simbiosi coi tassi. In questi piccoli animali  trova il senso della sua esistenza, la condizione di riconoscimento nell’altro  e il sentimento di autocoscienza secondo la prospettiva tracciata da Hegel. Non  a caso affida il suo allevamento di tassi a un personaggio di fiducia,  conosciuto a una serata danzante, di nome Turnavitu. Urmuz fornisce al lettore  altri particolari riguardanti Ismail.
 «Cea mai mare parte din an, Ismaïl nu se ştie unde  locuieşte. Se crede că stă conservat într-un borcan [19] situat în podul  locuinţei iubitului său tată, un bătrân simpatic cu nasul tras la presă şi  împrejmuit cu un mic gard de nuiele. Acesta, din prea multă dragoste  părintească, se zice că îl ţine astfel sechestrat pentru a-l feri de  pişcăturile albinelor şi de corupţia moravurilor noastre electorale. Totuşi,  Ismaïl reuşeşte să scape de acolo câte trei luni pe an, [...]». (pp.  58-59)  «Dove  abiti Ismail la più parte dell’anno non è dato saperlo. Si suppone che venga  tenuto in conserva dentro un vasetto riposto in soffitta nella dimora  dell’amorevole padre, un simpatico vecchietto, il cui naso, tirato alla pressa,  era ricinto da una piccola siepe fatta di bastoncini. Si dice che questi,  spinto da un eccessivo amore paterno, lo tenga così sequestrato per meglio  proteggerlo dalle punture delle api e dalla corruzione dei nostri costumi  elettorali. Tuttavia, durante l’inverno, Ismail riesce a fuggire da questo  luogo per tre mesi l’anno,  [...]».  È interessante notare  l’allusione ironica al padre di Ismail, – il «simpatico vecchietto» – che Urmuz  fa ricorrendo a un topos dell’espressione lirica: «lo tenga così  sequestrato per meglio proteggerlo dalle punture delle api». Le api, simbolo  del contatto tra l’umano e il divino, nella particolare visione del  neoplatonismo urmuziano, diventano mediatrici tra il cielo e la terra, modelli  di saggezza ma anche ispiratrici di una negata esuberanza erotica. Inoltre è  degno di nota rilevare che la descrizione del padre, «il cui naso, tirato alla  pressa, era ricinto da una piccola siepe fatta di bastoncini» possa richiamare  l’immagine geometrico-figurativa di Dio, cioè una sorta di triangolo a raggera  e splendente, che è allo stesso tempo anche un recinto, una staccionata, un  ostacolo inattraversabile, oltre il quale non si può né si deve passare. Si potrebbe dire che sia  Ismail che il protagonista della Lettera al padre di Franz Kafka mettono  in rilievo, letteralmente, la conservazione della condizione infantile di  fronte al modello paterno. Ai loro occhi, il padre ha l’aspetto enigmatico  degli dèi e dei tiranni, la cui legge si fonda nell’immaginario sulla loro  persona e non sulla dimensione simbolica del pensiero.In Urmuz e in  Kafka, l’idealizzazione paterna assume pertanto tratti evidentemente  superegoici e inquietantemente persecutori. Ciò che unisce Kafka e Urmuz, come  mostra chiaramente Freud attraverso l’elaborazione dell’Edipo, è il carattere  di «doppio messaggio» paradossale dell’autorità paterna indirizzato nei  confronti del figlio, che si può riassumere nella formula antitetica: «Tu sei  come me. Tu non sei come me». Ciò, oltre a portare all’espressione di  contraddizioni interne nel processo di assimilazione e di identificazione nei  confronti dell’autorità genitoriale, è anche una crisi, una sfiducia nella  coerenza dei valori tramandati di cui è tradizionalmente depositario il padre.  L’Edipo è strutturale nello sviluppo dello psichismo umano. Ma ciò che si può  notare è che sia Kafka sia Urmuz, pur mettendo in discussione l’ideale  dell’autorità paterna, traggono da questa denuncia una speciale forma di  godimento nello scrivere la propria opera che ha aspetti tragici e penosi ma ad  un tempo decisamente umoristici e comici. Il loro universo quasi  concentrazionario annuncia la pulsione di morte e l’angoscia accanto al piacere  del riso, della comicità e dell’eros.
 Con Urmuz e con Kafka  l’autorità paterna, che ha un ruolo centrale e che funge da origine e da  garanzia della validità della legge divina, è messa seriamente in crisi. Il  padre così viene restituito a ciò che simbolicamente rappresenta, ossia  costituisce l’innervatura, la traccia, l’incavo dell’ordine simbolico, lo  spazio di gioco linguistico tra assenza e presenza, che turba tutti i  meccanismi di azione, di pretesa razionale, di presa empirica e oggettivistica  della realtà. E non è un caso che proprio Freud abbia basato la sua critica  sullo smascheramento dell’idea di Dio vista come una proiezione della figura  paterna, e sull’interpretazione della legge, sempre come imperativo paterno.  Questa legge, al fondo di sé, appare vuota, equivoca, piena di ambiguità e di  contraddizioni. È priva di significato e di senso al di là del suo carattere di  legge che funziona da sé come risvolto negativo del desiderio. L’obbedienza  alla legge consiste semplicemente nel suo riconoscimento. Ma riconoscere la  legge implica anche la sua trasgressione che è insita nell’etica del desiderio.  Al centro dell’interrogazione di Kafka e di Urmuz sta la crisi della legge e il  godimento simbolico che da tutto questo se ne trae. Ciò che Celan ha visto  nell’opera di Urmuz e di Kafka è che questi due scrittori non sono solo dei  rivoluzionari ma hanno anche avuto il presentimento degli orrori dittatoriali e  dei dispositivi concentrazionari di tutti i sistemi scientifico-burocratici che  sono giunti a un tale grado di perversione da creare nella storia dell’umanità  uno sconcerto inaudito.
 
 Il «plus-valore» di Ismail
 
 Riprendiamo la lettura  di Ismail e Turnavitu:
 «în timpul iernii, când cea  mai mare plăcere a lui este să se îmbrace cu o rochie de gală, făcută din stofă  de macat de pat cu flori mari cărămizii şi apoi să se agaţe de grinzi pe la  diferite binale, în ziua când se serbează tencuitul, cu scopul unic de a fi  oferit de proprietar ca recompensă şi împărţit la lucrători… În acest mod  speră el că va contribui într-o însemnată măsură la rezolvarea chestiunii  muncitoreşti…» (p. 59) «durante  l’inverno, il più grande piacere di Ismail consiste nell’indossare prima una  veste di gala, ricavata dal drappeggio d’una trapunta a grossi fiorami rosso  mattone, poi, così bardato, arrampicarsi sulle impalcature dei cantieri, quando  si festeggia il giorno dell’intonacatura, al solo scopo di vedersi offerto dal proprietario  come ricompensa ed essere diviso tra i lavoratori… In questo modo egli spera di  contribuire in rilevante misura alla soluzione della questione operaia...»  Al di là del richiamo  ironico di Urmuz a Mastro Manole e  alla leggendaria costruzione del monastero di Curtea de Argeş – il cui restauro  venne fatto nel XIX secolo dall’architetto francese André Lecomte du Noüy, il  quale, pur avendo consentito all’edificio di ritrovare l’antico splendore,  aveva però distrutto la maggior parte degli affreschi interni –, Ismail si  offre come «plus-valore» che nella teoria marxista è la differenza tra il  valore del prodotto del lavoro e la remunerazione sufficiente al mantenimento  dei lavoratori. Questa differenza nel regime capitalistico costituisce il profitto  dell’imprenditore. Cotadi, «con la sua camicia contadina e il tappo di  champagne» nella «novella» Cotadi şi  Dragomir, e Ismail, fatto «di stoffa a fiorami rosso mattone», nella  prospettiva scritturale urmuziana, hanno la funzione di supplementi simbolici.  Urmuz punta soprattutto la sua attenzione sull’aspetto feticistico della merce  di scambio, sul «carattere mistico» del prodotto che acquisisce valore. Il  tappo di champagne da dividere in lotti di terreno per risolvere la complessa  questione agraria, e Ismail, ricompensa del proprietario per i muratori,  contribuiscono allo sdoppiamento essenziale del soggetto nel rapporto con  l’oggetto. L’oggetto diventa feticcio nel valore che gli viene conferito, e si  presenta nella doppia valenza di oggetto d’uso e di porta-valore; quindi la  merce, nella logica del paradosso, si traduce in un bene immateriale e astratto  il cui godimento è impossibile se non attraverso l’accumulazione e lo scambio.  Ora si scoprono altri aspetti curiosi riguardanti Ismail: 
 «Ismaïl primeşte şi audienţe,  însă numai în vârful dealului de lângă pepiniera cu viezuri. Sute de  solicitatori de posturi, ajutoare băneşti şi lemne sunt mai întâi introduşi sub  un abat-jour enorm, unde sunt obligaţi să clocească fiecare cîte 4 ouă. Sunt  apoi suiţi în câte un vagonet de gunoi de-al primăriei şi căraţi cu o iuţeală  vertiginoasă până sus la Ismaïl, de către un prieten al acestuia, care îi servă  ºi de salam, numit Turnavitu, personaj ciudat, care, în timpul ascensiunii, are  urâtul obicei de a cere solicitatorilor să i se promită coresponden₫ă amoroasă,  contrar amenin₫ă cu răsturnarea». (pp. 59-60)
 «Ismail  si concede anche alle udienze, ma solo sulla cima della collina che domina la  pepiniera dei tassi. Centinaia di postulanti che richiedono, chi un posto, chi  aiuti in denaro e legna da ardere, vengono prima introdotti sotto un enorme  abat-jour, dove sono costretti a covare 4 uova ciascuno, poi sono invitati a  salire su dei vagoncini della spazzatura municipale, con cui vengono spinti su,  a velocità vertiginosa, fino in cima, al cospetto di Ismail, per opera di un  suo amico, di nome Turnavitu, che gli funge anche da salame. Questo strano personaggio,  durante l’ascesa, ha la cattiva abitudine di pretendere dai postulanti la  promessa di una corrispondenza amorosa, altrimenti minaccia di ribaltarli giù». 
 I riferimenti ai passi  evangelici sono corrosivi. Inoltre, parole vertiginose come abat-jour e salam (nel senso arabo salam’alaik «pace su di te»), che si prestano a essere  feticizzate o impiegate in maniera moralmente dissacratoria, mostrano l’eco  della loro origine straniera nell’essere presi fedelmente-infedelmente alla  lettera e nella loro cifra linguistica pronta a essere nuovamente  allegorizzata.
 I postulanti, nella  prospettiva hegeliana della Fenomenologia  dello Spirito, hanno desideri sin troppo concreti, materiali. Più  propriamente hanno solo dei bisogni: richiedono, chi un posto, chi aiuti in  denaro e legna da ardere. Ismail e Turnavitu mostrano invece una migliore  dimestichezza con la dimensione simbolica del linguaggio e della sua forza  performativa. Consapevoli della posizione che occupano nell’ordine simbolico  del discorso, il loro strano comportamento è dettato dialetticamente dal  desiderio inteso come domanda d’amore e di riconoscimento («la promessa di una  corrispondenza amorosa, altrimenti minaccia di ribaltarli giù»). Perciò, Ismail  e Turnavitu, adottando il registro discorsivo della promessa e della minaccia,  sanno benissimo che questi specifici atti linguistici sono dei performativi.  Per dirlo con John L. Austin, il performativo, rispetto all’atto constativo, è  un linguaggio di potere che va al di là non solo del bisogno ma anche della  stessa conoscenza [20]. I performativi sono delle parole che provocano, non  appartengono all’ordine del sapere, cioè degli enunciati, ma all’enunciazione,  a quella passione del soggetto, che è la verità stessa del desiderio. Questo  dispositivo linguistico crea, a livello della narrazione di Ismail e Turnavitu, uno speciale effetto  comico, ma anche una scarto irriducibile nel discorso, il quale è segnalato, in  questo brano di Urmuz, dagli equivoci e dai doppi sensi improntati alla logica  del potere e della violenza.
 
 La storia di Turnavitu
 
 Ora veniamo a conoscere  la storia di Turnavitu:
 
 «Turnavitu nu a fost multă vreme decât un simplu  ventilator pe la diferite cafenele murdare, greceşti, de pe strada Covaci şi  Gabroveni. Nemaiputând suporta mirosul ce era silit să aspire acolo, Turnavitu  făcu mai multă vreme politică şi reuşi astfel să fie numit ventilator de stat,  anume la bucătăria postului de pompieri “Radu-Vodă”.
 La o serată dansantă făcu  cunoştinţa lui Ismaïl. Expunându-i acestuia mizera situaţie în care a ajuns din  cauza atâtor învârtituri, Ismaïl, inimă caritabilă, îl luă sub protecţiunea sa.  I se promise să i se servească de îndată câte 50 de bani pe zi şi tain, cu  singura obligaţiune pentru Turnavitu de a-i servi de şambelan la viezuri;  asemenea, să-i iasă înainte, în fiecare dimineaţă, pe strada Arionoaiei şi,  prefăcându-se că nu-l observă, să calce viezurele pe coadă spre a-i cere apoi  mii de scuze pentru neatenţie, iar pe Ismaïl să-l măgulească pe rochie cu un  pămătuf muiat în ulei de rapiţă, urându-i prosperitate şi fericire…
 Tot spre a place bunului său  prieten şi protector, Turnavitu ia o dată pe an formă de bidon, iar dacă este  umplut cu gaz până sus, întreprinde o călătorie îndepărtată, de obicei la  insulele Majorca şi Minorca: mai toate aceste călătorii se compun din dus, din  spânzurarea unei şopârle de clanţa uşii Căpităniei portului şi apoi  reîntoarcerea în patrie…» (pp. 60-61)
 «Per  lungo tempo, Turnavitu non era stato che un semplice ventilatore in diversi  luridi caffè greci nella via Covaci e Gabroveni. Non potendo più sopportare i  cattivi odori che era costretto ad aspirare in questi luoghi, si era dedicato  per molto tempo alla politica e riuscì in questo modo a farsi dare la nomina di  ventilatore di stato presso la cucina della stazione dei pompieri “Radu Voda”». È interessante l’uso che  fa Urmuz del nome proprio dell’altro personaggio, che fa coppia con Ismail.  Turnavitu, nome di sonorità greca che tradisce la xenonimia francese di tourne  vite, cioè gira veloce come un «ventilatore».
 «Durante una serata  danzante fece la conoscenza di Ismail. Dopo avergli esposto la misera  condizione nella quale versava dopo tanto girare, Ismail, che aveva un cuore  caritatevole, lo prese sotto la sua protezione». È indicativa l’ironia salace  in merito alla caritas cristiana. «Questi gli promise una rimunerazione  immediata di 50 soldi al giorno, più il vitto, alla sola condizione che  accettasse l’obbligo di ricoprire la carica di ciambellano, presso la grotta  dei tassi». Vediamo subito cosa comporta essere un ciambellano di tassi.
 «Turnavitu  aveva il compito, inoltre, di andare incontro ogni mattina in via Arionaia e,  fingendo di non accorgersi di lui, doveva pestare la coda al tasso in modo da  potergli chiedere per la sua distrazione mille volte scusa; in quel modo  Turnavitu avrebbe soddisfatto la vanità di Ismail facendo scorrere sulla sua  veste un pennello intinto nell’olio di colza, augurandogli tutta la felicità di  questo mondo...»
 C’è da notare in questo  brano tutta l’arguzia di Urmuz. Con i lunghi peli della coda del tasso si  fabbricavano pennelli con i quali Turnavitu sembra lubrificare  l’insegna-personaggio Ismail. Nella levantina ritualità dei gesti si conferma  di nuovo la natura meramente grafica di Ismail. Ma non finisce qui. Leggiamo: «Sempre  per far piacere al suo buon amico e protettore, Turnavitu una volta l’anno  prende la forma di un bidone, e, se viene riempito di petrolio fino all’orlo,  intraprende un lungo viaggio, di solito alle isole Maiorca e Minorca: il più  delle volte questi viaggi consistono nell’andare, nell’impiccare una lucertola  alla maniglia della porta della Capitaneria del porto, poi nel tornare in  patria...»
 Viaggio apparentemente  assurdo, quello di Turnavitu, in direzione della terra natale di Ismail,  filosofo-teologo di Spagna. Tuttavia questo viaggio ricorda un’azione  riferibile a un sadismo infantile, uno scherzo di cattivo gusto o un atto di  spregio tipico della crudeltà dei bambini. Ma se ci riferiamo al testo  paleocristiano del Fisiologo, che Urmuz aveva ben in mente, scopriamo  che la lucertola insieme all’ape, che compare anch’essa nel testo, poteva, in  epoca cristiana, personificare l’anima che in questa forma sgusciava via dalla  bocca dei dormienti, i quali, dopo il ritorno della bestiola, potevano essere  informati delle sue esperienze [21]. Comunque l’aspetto ironico, grottesco ed  enigmatico di Urmuz può essere anche letto nella maniera seguente. Se la  lucertola in epoca cristiana veniva assunta a immagine di valenza positiva che  testimoniava la rinascita, il ringiovanimento mediante la muta della pelle, la  nostalgia della luce spirituale, tanto da essere raffigurata su incensieri e  lanterne (si tenga presente che Turnavitu una volta l’anno prende la forma di  un bidone, riempito di petrolio fino all’orlo), con Urmuz questo simbolo  religioso viene impietosamente profanato. La lucertola è infatti impiccata alla  maniglia della porta della Capitaneria del porto.
 Ritorniamo ora al testo  e vediamo cosa ancora accade. Turnavitu, tourne vite, nella xenonimia  francese, dopo aver passato un periodo  di vita politica, girando velocemente in qualità di ventilatore di stato presso  luridi caffè orientali, greci, ora si trova ad essere nominato da Ismail a  «ciambellano dei tassi»; una carica anch’essa di particolare importanza, una  responsabilità che purtroppo verrà a tradursi in un evento drammatico nella  narrazione. Infatti il povero Turnavitu, durante uno di questi ricorrenti  viaggi, contrae un fastidioso raffreddore determinando la contaminazione dei  tassi e quindi l’impossibilità da parte di Ismail di rinnovare il conseguimento  del piacere e la continuazione del suo rituale esoterico. Implacabilmente  Turnavitu fu all’istante licenziato, ciò che per lui comportò una pesante  umiliazione e la messa in atto di un funesto piano di suicidio personale, non  prima però di aver preparato un’adeguata vendetta, condotta con estrema  lucidità.
 
 «În una din aceste călătorii,  Turnavitu, contractând un guturai nesuferit, molipsi la înapoiere, în aşa hal,  pe toţi viezurii, încât, din cauza deselor lor strănuturi, Ismaïl nu îi mai  putea avea la discreţie oricum. Fu imediat concediat din serviciu.
 Fire afară din cale sensibilă  şi neputând suporta o atare umilinţă, disperat, Turnavitu îşi puse atunci în  aplicare funestul plan al sinuciderii, după ce avu însă mai întâi grijă să îşi  scoată cei patru dinţi canini din gură…
 Înainte de moarte se răzbună  grozav pe Ismaïl, căci, punând să i se fure acestuia toate rochiile, cu gaz  dintr-însul le dădu foc pe-un maidan. Redus astfel la mizerabila situaţie de a  rămâne compus numai din ochi şi favoriţi, Ismaïl abia mai avu puterea să se  târască până la marginea pepinierei cu viezuri; acolo căzu el în stare de  decrepitudine şi în această stare a rămas şi până în ziua de azi». (pp. 61-62)
 «In una di  queste spedizioni, Turnavitu contrasse un insopportabile raffreddore e, al suo  ritorno, contagiò a tal punto tutti i tassi che questi si misero a starnutire  senza tregua. Ismail, non potendoli più avere a suo piacere, rimosse  immediatamente Turnavitu dalla sua funzione». Da qui inizia il  dramma, la spirale negativa del desiderio – come saprà straordinariamente indicare  Ionesco, restituendo ne «Le Rhume» de La Cantarice chauve il prestito contratto da Turnavitu:
 «Natura  estremamente sensibile, non potendo sopportare una così grande umiliazione,  Turnavitu, in preda alla disperazione, mise in atto allora il suo funesto piano  di suicidio, non senza aver preso innanzitutto, la precauzione di strapparsi  dalla bocca i quatto denti canini».
 Ormai i denti canini si sono trasformati in «denti  di scrittura» (Celan). Ecco il finale: «Prima di morire, si vendicò atrocemente di Ismail:  lo fece derubare di tutte le sue vesti che poi bruciò in mezzo alla via col suo  petrolio interiore.  Ridotto così alla  sua miserabile condizione di esser composto solo di occhi e favoriti, Ismail  ebbe appena la forza di trascinarsi fino alla soglia della grotta dei tassi; lì  cadde in uno stato di decrepitezza e in questa condizione vi giace ancora al  giorno d’oggi...»
 Si è assistito alla  realizzazione di un piano di suicidio testuale. Gli elementi alchemici della materia  scrittoria, dopo tante trasmutazioni, riprendono la loro essenzialità  inconsistente della lettera. Ismail ritorna al suo stato di elemento  scritturale, alla condizione originaria di grafema orientale proprio come lo  aveva conosciuto Urmuz. Nel processo di allegoresi (che cela anche riferimenti  storici riguardanti la Romania durante dominazione turca e il relativo governo  greco fanariota, nonché le allusioni alle pagine della vita di Gesù), i  componenti, gli attributi ornamentali di Ismail riprendono il loro statuto di  frammento, di simulacro nel gioco corrosivo del «petrolio interiore» della  scrittura di Urmuz. Il vuoto del soggetto è ciò che resta nella scrittura.
 Al di là della  realizzazione del «funesto piano di suicidio», gli occhi e favoriti di Ismail  non fanno altro che riflettere il tratto particolare del desiderio, il suo  essere oggetto scarto tra la domanda d’amore e il bisogno, sempre al di là del  soddisfacimento del bisogno e al di qua della soddisfazione della domanda  d’amore; desiderio che non si appaga mai di niente e che proprio per questo,  appare definibile in negativo, attraverso questo non-appagamento che lo  caratterizza e lo sostiene. Eppure in questo rinvio di significante in  significante che lo rivela e lo nasconde insieme immortalandolo così nella  scrittura, questo desiderio nasconde ancora qualcosa di non appagato né  appagabile, non svanisce, resiste, rimane indistruttibile. Le prose urmuziane rivelano un’ontologia  testuale, una carica profetica. Esse mettono in scena qualcosa di molto  radicale: la dialettica senza fine del desiderio, il desiderio di desiderio  dell’Altro [22]. In questo gioco è la morte che la fa da padrona. Tuttavia, la  morte in quanto tale non deve mai tradursi in realtà effettiva, pena la fine  del gioco [23]. Il riconoscimento della morte come Signore o Padrone assoluto  porta con sé una distanza dalla morte come realtà effettuale, sia dalla morte  del soggetto che non è mai esperita né mai tanto saputa come tale, sia dalla  morte dell’altro, quella morte che il soggetto non può dare all’altro perché  ciò condannerebbe il suo stesso desiderio di riconoscimento. Tenendo presente  l’idea del «riconoscimento», nella sua articolazione con la struttura del «desiderio», si è in grado di comprendere  adeguatamente la dinamica dell’evento scritturale delle Pagine bizzarre di Urmuz.
 La morte è la regola del  gioco ed è, ad un tempo, il patto che precede ogni forma di violenza. La morte  è un maestro assoluto e deve essere posta a debita distanza. La lotta, la  rivalità, la competizione dei personaggi di Urmuz, i quali mettono in scena il  mito della lotta Servo-Padrone, è la cifra dell’aggressività che è insita nel  desiderio di riconoscimento. È una lotta crudele in cui la crudeltà è sempre,  al fondo, umanità, perché chi si colpisce a morte è proprio il simile. Il  simile inteso come propria immagine speculare. Nella lotta Servo-Padrone la  pulsione angosciosa di morte che domina e condiziona il narcisismo, si  manifesta, quando straripa, in quell’aggressione che condanna il desiderio dell’altro  ad una spirale di violenza insensata.
 Freud ha mostrato che il  narcisismo è uno stato che caratterizza l’Io, e, da questo punto di vista, il  narcisismo non è solo amore di sé. L’essere umano per amare l’amato ha bisogno  dell’Io per trasformare l’amato reale in oggetto d’amore. Per far questo  ricorre al fantasma e trasforma l’amato in oggetto fantasmatico, ossia in  un’immagine interiore. La meta ideale dell’amore è quella di fondersi con  l’amato attraverso il fantasma: esperienza puramente illusoria e quindi impossibile  da realizzarsi perché di Due, effettivamente, non si può fare Uno, se non  appunto nel fantasma. A partire da qui si potrebbe aprire nella coppia una  spirale di violenza se l’amore si limitasse a questo [24]. Da questa spirale  violenta il desiderio di riconoscimento non uscirebbe se la morte non fosse  posta a distanza come regola del gioco, se il simbolico, cioè la parola, non  precedesse e fondasse l’immaginario che scatena questa dialettica del  riconoscimento senza fine fino ai suoi esiti più disastrosi. È la morte,  dunque, il Maestro assoluto che il desiderio di riconoscimento trova al fondo  di sé. Ed è ancora la morte che, assunta come regola del gioco, trasposta nel  simbolico, quindi nelle parole, consente al desiderio, che vuole fare uno nel  fantasma, di uscire dalla spirale violenta senza fine del desiderio del  desiderio dell’altro.
 Nel simbolo –  cioè nella parola, nella scrittura, nella letteratura, che permette attraverso  il suo dispositivo di linguaggio di esprimere, in maniera mediata, questo  desiderio di fare uno nell’amore – quindi nel patto simbolico o nella regola  del gioco, il desiderio trova, oltre alla violenza, anche la possibilità di un  accordo col desiderio dell’altro, una possibilità che certo non abolisce del  tutto l’aggressività che rimane al fondo del desiderio, ma che, testimoniandola  (attraverso la scrittura, la parola, la domanda, la cultura, ecc.), le trova  una forma, la disciplina, cioè la educa, la civilizza ne fa qualcosa di  significativo non solo per sé ma anche per gli altri.
 Ciò che rimane  dunque, alla fine, è un accordo tra i desideri, un accordo che è alla cieca,  come quando si dice che l’amore è cieco. E c’è un prezzo che si paga per questa  cecità dell’accordo dei desideri che è l’alienazione strutturale del desiderio  dell’uomo nel simbolico, ossia il tributo soggettivo che si paga alla poesia,  alla cultura, alla letteratura.
 In altri  termini, il desiderio deve trovare un varco nella parola, al limite tradursi in  parola, farsi deportare nella parola, nella domanda d’amore o d’amicizia, nella  sua dimensione misteriosa e mai perversa. Oppure – prima ancora che come  desiderio dell’altro, inteso come proprio simile che può scatenare una  competizione aggressiva o una rivalità infinita che può condurre alla morte  effettiva – questo accordo cieco di desideri si può porre come desiderio  dell’Altro con la maiuscola, cioè del soggetto che si scopre sempre di essere  Altro rispetto a se stesso.
 Il Desiderio del  desiderio dell’Altro significa in fondo amare l’incertezza che è alla base di  ciò che si è, ovvero amare l’enigma che noi siamo a noi stessi, amare il gioco  nella nostra relazione con l’Altro o con gli altri, e la consapevolezza che si  può essere altrimenti da ciò che riteniamo a priori di essere.
 
 Identità e 
      antipersonaggi
 
 Dunque,  ritornando più da vicino a Urmuz, finora si è visto che le coppie delle Pagine  bizzarre (Ismail e Turnavitu, Algazy e Grummer, Cotadi e Dragomir, ecc.), ripropongono  metonimicamente il conflitto hegeliano dell’autocoscienza per il  riconoscimento, nel rapporto Servo/Signore, ovvero il passaggio della coscienza  alla coscienza di Sé. La via che perseguono i personaggi è quella del desiderio  che spinge verso l’alterazione di una presunta o mitica sostanza dell’identità.  Il passaggio è traumatico e si esplica in una lotta all’ultimo sangue, in cui,  nel rapporto dialettico di amore e odio, ciascuna personalità vuole essere  riconosciuta senza tuttavia riconoscere l’altro. È il dramma immaginario  dell’identità. Da qui il desiderio di sopprimere l’altro, della morte  dell’Altro, si traduce inevitabilmente in una mancanza della coscienza di Sé (e  in questo Urmuz dà l’impressione di andare oltre la visione totalizzante di  Hegel in cui nessuno deve morire, pena il fallimento del confronto dialettico).  Urmuz sembra piuttosto riscrivere questo dissidio hegeliano in termini per cui  la dialettica della coscienza di Sé si trasforma nella dialettica infinita del  Desiderio, nel dispiegamento della parola dell’Altro, in una corsa irrefrenabile  fino «all’ultimo osso», che è luogo vuoto e originario della parola. su questa  scia Urmuz sarà seguito in modo singolarmente diverso da Gherasim Luca, Paul  Celan e Nichita Stănescu.
 Da questo vuoto  di parola si dispiega l’infinita corsa dei significanti scritturali che tentano  illusoriamente di colmare il luogo della mancanza, attivando quel processo  compositivo e scritturale che genera di fatto la molteplicità del senso. Si  appaga così, illusoriamente, nel fantasma, quella soddisfazione di quel bisogno,  di quel desiderio, di quella domanda d’amore che i personaggi urmuziani,  inscenando fantasie perverse, tentano disperatamente di scambiarsi tra i  silenzi della scrittura in una prospettiva abissale. Le pagine di Urmuz,  proiettate verso il futuro, desiderano così raggiungere quel vuoto originario  di parola che sta alla base di ogni prodursi del linguaggio, lasciando al  lettore il compito di raccogliere e riesumare i frammenti, i resti, i muti  grafemi, i nomi dimenticati, i reperti di una fantastica Biblioteca di Babele  mai abbandonata.
 A questo punto,  tenendo presente ciò che i testi di Urmuz mettono realmente in gioco, si  potrebbe provare a tracciare una filiazione diretta con una genealogia di  autori-personaggi riconducibili a una particolare tipologia letteraria  novecentesca. In questa prospettiva si può immaginare un grande albero araldico  di personaggi cartacei, o antipersonaggi, in cui gli scrittori, all’inizio del  secolo scorso, hanno rappresentato se stessi eclissandosi nella scrittura [25].
 Se si accoglie  il suggerimento di Eugène Ionesco, secondo cui in Urmuz, come in Kafka e in  Jarry, è in atto un tentativo da parte del soggetto di riappropriarsi della  realtà, instaurando un nuovo rapporto con le cose, – in quanto l’attività  creativa e il creatore stesso non possono essere risparmiati dal processo di  alienazione – lo scrittore, da questo punto di vista, si trova come  invischiato, a causa del loro carattere mercificante, negli oggetti che impiega  per il reperimento di nuovi impasti stilistici: il soggetto diventa in prima  persona vittima del feticismo insito nel suo rapporto alienato con l’oggetto, e  di conseguenza, per superare questa contraddizione, deve cercare di abolirsi  per testimoniare quella crudele e talvolta gioiosa forma di godimento e di  desiderio che dall’opera d’arte promana.
 In altre parole,  si è disposti ad avallare l’ipotesi interpretativa secondo cui le prose  urmuziane si collocano nel «segno di Odradek» – come già aveva osservato Ion  Biberi nel 1937 in accordo con Saşa Pană che aveva tradotto in romeno il  piccolo testo kafkiano – cioè, in quel particolare fenomeno per cui l’opera  d’arte si esplica e si differenzia nei confronti della merce mostrando quella  tendenza irriducibile alla reificazione dell’umano. In un certo senso si tratta  di una dialettica perversa che si poggia su un fondo di tipo sacrificale, ossia di una dialettica  impossibile tra godimento e distruzione del soggetto.
 «La condizione  della riuscita di questo compito sacrificale – scrive Giorgio Agamben – è che l’artista  porti fino alle sue estreme conseguenze il principio della perdita e dello  spossessamento di sé. L’esclamazione programmatica di Rimbaud: je est un  autre deve essere presa alla lettera: la redenzione delle cose non è  possibile che a patto di diventare cosa. Come l’opera d’arte deve distruggere e  alienare se stessa per diventare merce assoluta, così l’artista […] deve  diventare un cadavere vivente, costantemente teso verso un altro, una  creatura essenzialmente non umana e antiumana» [26]. Dunque, l’abolizione del soggetto nel testo non  è altro che una particolare forma di scrittura, una scrittura che può essere  definita, nei termini di Maurice Blanchot, come mortale [27].
  L’abolizione del soggetto nel testo è in fondo  scrittura dell’altro, del morire stesso. Ora, la morte in questione della  scrittura è la morte del soggetto stesso. È il venir meno del soggetto come  identità, interiorità, presenza a sé. È radicale messa in questione della  soggettività. Si tratta dunque di pensare il rapporto con la scrittura come un  rapporto in cui la presunta identità del soggetto che scrive è cancellata, e il  soggetto dello scrivere non è altro che un soggetto che viene meno. Ma è  proprio in forza di ciò che il soggetto, rinunciando alla tentazione di porsi  come un sapere totalizzante e definitivo, è portato a un altro tipo di sapere, un sapere latente e trasformativo, un sapere  dinamico, sempre in movimento, che è differente da ogni sapere. L’abolizione del soggetto nel testo,  teorizzato da Mincu, è, in tal senso, la prova  mortale di una scrittura che si rivela come traduzione sempre in atto. Essa  è teoricamente infinita e può solo trovare qualche punto d’arresto nel fantasma  creato dall’autore, nel tentativo impossibile di colmare le lacune della verità  del desiderio che intimamente lo riguarda.
     
 Giovanni Rotiroti
 (n. 4,   aprile 2014,  anno IV)
 
 
 NOTE
 1. Mi riferisco, in particolare, al volume Ion  Barbu. Eseu despre textualizarea poetică, apparso nel 1981, il quale ha  rappresentato, a quel tempo, la summa teorica dello sperimentalismo e  del testualismo nello spazio culturale romeno.
 2. M. Mincu, Ion Barbu. Eseu despre textualizarea poetică, Bucureşti, Cartea Românească,  1981, pp. 282-283.
 3. M. Mincu, Avangarda Literară Românească, Bucureşti, Cartea Românească, 1983, p. 25.
 4. M. Mincu, Avanguardia romena e  avanguardia europea, in Poesia romena d’avanguardia, a cura di M.  Cugno e M. Mincu, Milano, Feltrinelli, 1980, p. 38.
 5. In tal senso Julia Kristeva, facendo  riferimento al primo insegnamento di Lacan, scrive: «Nelle  sue avanzate più ardite, la psicanalisi attuale, quella lacaniana, propone una  teoria del soggetto come unità scissa, sorta e determinata dal manque (il vuoto, il nulla, lo zero,  secondo la dottrina di riferimento) e in cerca inappagata di un impossibile che  il desiderio metonimico figura. Questo soggetto, che chiameremo “soggetto  unario”, sommesso alla legge dell’Uno che s’invera essere il Nome del Padre,  questo soggetto della filiazione o soggetto-figlio è in effetti il non detto o  se si vuole la verità del soggetto della scienza ma anche del soggetto  assoggettato dell'organismo sociale (della famiglia, del clan, dello stato, del  gruppo). Che ogni soggetto, nella misura che è soggetto d'una società, supponga  questa istanza unaria scissa che Freud ha posto per primo con la topica  Inconscio/Conscio, è ciò che ci dice la psicoanalisi, attirando l’attenzione  verso ciò che costituisce il soggetto, cioè la rimozione originaria. Se questa  rimozione originaria istituisce il soggetto al tempo stesso che istituisce la  funzione simbolica, essa istituisce pure la distinzione  significante/significato nella quale Lacan vede la determinazione di ogni cesura di ordine sociale. Il  soggetto unario è il soggetto che si istituisce da questa cesura di ordine  sociale». J. Kristeva, Il soggetto in processo, in Artaud, verso una  rivoluzione culturale, Bari, Dedalo Libri, 1974, pp. 41-42.
 6. Cfr. M. Mincu, Avangarda Literară  Românească, cit., p. 25.
 7. Sulla  correlazione psicanalitica fra Il Nome del Padre e il desiderio si veda Dizionario  di psicanalisi, a cura di R. Chemama e B. Vandermersch, Roma, Gremese  Editore, 2004, pp. 225-226.
 8. Su questo  particolare aspetto dell’opera di Urmuz mi permetto di rinviare al mio libro, Il  piacere di leggere Urmuz. Indagini psicanalitiche sui fantasmi letterari delle  «Pagine Bizzarre», Università degli Studi di Napoli «L’Orientale», Napoli,  Il Torcoliere, 2010.
 9. In psicanalisi, questo evento, che è  testimoniato dalla clinica, prende il nome di afanisi. Si tratta di una  fantasia di annichilimento dai tratti fortemente angosciosi. Si veda a questo proposito J. Laplanche e J.-B. Pontalis, Enciclopedia  della psicanalisi, Roma-Bari, Laterza, 1990, p. 6.
 10. Das  Ding è «quanto vi è di più intimo per un soggetto, benché a lui estraneo,  strutturalmente inaccessibile, significato come proibito (incesto) e da lui immaginato  come il Bene sovrano», Dizionario di psicanalisi, a cura di R. Chemama e  B. Vandermersch, cit., p. 72.
 11. Si vedano  a questo proposito i lavori di Stefano Agosti, in particolare Critica della  testualità. Strutture e articolazioni del senso nell’opera letteraria,  Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 357-373. Nei libri di Mincu si parla a questo  riguardo di «semiosi infinita».
 12. Questa  novella di Urmuz è stata pubblicata da Arghezi nella rivista «Cugetul  românesc», I, n. 3, 1922, pp. 270-272. Si riporta l’edizione critica stabilita  da Ion Pop: Urmuz, Schiţe şi nuvele aproape… futuriste,Bucarest, Editura Tracus Arte, 2012.
 13. Questa  ipotesi sembra essere confermata dallo stesso Urmuz, quando nel Post scriptum contenuto nel manoscritto  della Biblioteca dell’Accademia Romena, si trova scritto che Ismaïl […] nu a  fost niciodată monument, ci numai personaj istoric,[…]. Cfr. Urmuz, Schiţe şi nuvele aproape…  futuriste, cit., p. 62 nota 36.
 14. Ibidem.
 15. Henri Corbin, Storia della filosofia islamica. Dalle  origini ai giorni nostri, Milano, Adelphi, 1991, p. 233.
 16. Mi riferisco alla celeberrima  battuta dei coniugi Martin ne La  Cantatrice chauve.
 17. Cfr.  Nicolae Balotă, Urmuz, Cluj, Editura  Dacia, 1970, pp. 117-120.
 18. M. Mincu, Avangarda Literară  Românească, cit., p. 25.
 19. «în un  borcan cu o soluţie de ambrozie şi papricaş», Urmuz, Schiţe şi nuvele aproape…  futuriste, cit., p. 58 nota 6.
 20. J. L.  Austin, Come fare cose con le parole, Genova, Marietti, 1987.
 21. Il Fisiologo, a cura di  Francesco Zambon, , Milano, Adelphi, 1975, p. 40.
 22. «Il desiderio – scrive Lacan – è ciò  che si manifesta nell’intervallo scavato dalla domanda al di qua di se stessa  in quanto il soggetto, articolando la catena significante, porta alla luce la  mancanza ad essere insieme all’invocazione a riceverne il complemento  dall’Altro, luogo della parola, e anche il luogo di questa mancanza. In tal  modo ciò che all’Altro è dato di colmare, e che è proprio ciò che non ha perché  anche a lui l’essere manca, è ciò che si chiama amore, ma anche odio e  ignoranza. Ed anche, passioni dell’essere, ciò che è evocato da ogni domanda  aldilà del bisogno che in che in essa si articola, e di ciò il soggetto rimane  tanto più privato quanto più è soddisfatto il bisogno articolato nella domanda.  Più ancora, la soddisfazione del bisogno appare come l’illusione in cui la domanda  d’amore va schiantarsi, rimandando il soggetto al sonno in cui questo frequenta  il limbo dell’essere, lasciandolo partire in esso». J.  Lacan, Scritti, traduzione di Giacomo  Contri, Torino, Einaudi, 1974, p. 623.
 23. Si veda su questo particolare aspetto lo  studio di Marianna Gensabella Furnari, L’oggetto perduto. Desiderio e verità  in Jacques Lacan, Napoli, Giannini Editore, 1985, pp. 85-99.
 24. Nell’amore si tratta in realtà  dell’incontro del Due nell’evento del Terzo, cioè nell’incontro dell’evento simbolico  della morte e della parola che fanno parte costitutiva del gioco irriducibile  del desiderio. In questo senso Lacan diceva che «non c’è rapporto sessuale».  Cfr. Alain Badiou, Elogio dell’amore,  Vicenza, Neri Pozza, 2013, pp. 27-30.
 25. Jarry in Docteur Faustroll, Kafka in Odradek, Urmuz nei vari Stamate, Fuchs, Algazy, Dragomir, ecc., aggiungendo a questo  catalogo Mallarmé in Igitur, Michaux  in Plume, Beckett in Molloy, Calvino in Palomar e così di seguito.
 26. G.  Agamben, Stanze. La parola e il fantasma  nella cultura occidentale, Torino, Einaudi, 1977, p. 59.
 27. Cfr. M. Blanchot, L’Entretien infini, Paris, Gallimard, 1969.
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