«Pâlnia şi Stamate», un romanzo fiume di Urmuz. Uno studio

Urmuz non è semplicemente un anticipatore delle avanguardie europee – come sterilmente credono coloro che hanno ancora oggi una visione anchilosata della filologia e della letteratura –, ma è «veramente uno dei precursori della rivolta letteraria universale» (Ionesco). L’edizione critica curata da Ion Pop, dal titolo Urmuz, Schiţe şi nuvele aproape… futuriste (Bucarest, Editura Tracus Arte, 2012), che comprende uno studio introduttivo corredato di note ai testi urmuziani e una postfazione di Domenico Jacono, rende giustizia a Urmuz e lo legittima a essere in eterno un autentico scrittore. In quest’edizione critica Ion Pop conserva il testo pubblicato da Saşa Pană nel 1970, e fornisce in nota le varianti d’autore ricavate dal «quaderno rosso» della Biblioteca dell’Accademia Romena, dai manoscritti dell’archivio della famiglia Pană e, per alcuni testi di Urmuz, dalle riviste «Bilete de papagal», «Punct» e «Cugetul românesc». Ciò permette al lettore di vedere in presa diretta l’instancabile lavoro di Urmuz, le sue numerose correzioni e cancellature e, soprattutto, il modo in cui lo scrittore, sempre inappagato del risultato raggiunto, scriveva meticolosamente i propri testi.

In generale per l’opera di Urmuz vale lo stesso consiglio che Giorgio Manganelli dà al lettore potenziale che si accinge a sfogliare il suo volume Centuria – il cui sottotitolo è Cento piccoli romanzi fiume. Nella quarta di copertina si trova scritto: «Il presente volume racchiude in breve spazio una vasta e amena biblioteca; esso infatti raccoglie cento romanzi fiume, ma così lavorati in modi anamorfici, da apparire al lettore frettoloso testi di poche e scarne righe. Dunque, ambisce ad essere un prodigio della scienza contemporanea alleata alla retorica, recente ritrovamento delle locali Università. Libriccino sterminato, insomma: a leggere il quale il lettore dovrà porre in opera le astuzie che già conosce, e forse altre apprenderne: giochi di luce che consentono di leggere tra le righe, sotto le righe, tra le due facce di un foglio, nei luoghi ove si appartano capitoli elegantemente scabrosi, pagine di nobile efferatezza, e dignitoso esibizionismo, lì depositate per vereconda pietà di infanti e canuti. A ben vedere, il buon lettore vi troverà tutto ciò che gli serve per una vita di letture rilegate: minute descrizioni di case [...]; ambagi sessuali, passionali e carnali [...]; memorabili conversioni di anime travagliate; virili addii, femminesca costanza, inflazioni, [...] balenanti apparizioni di eroi dal sorriso mite e terribile; persecuzioni, evasioni, e dietro ad una vocale che non nomino, in tralice si potrà scorgere una tavola rotonda sui diritti dell’Uomo. Se mi si consente un suggerimento, – aggiunge ancora Manganelli – il modo ottimo per leggere questo libercolo, [...] sarebbe: acquistare diritto d’uso d’un grattacielo che abbia il medesimo numero di piani delle righe del testo da leggere; a ciascun piano collocare un lettore con il libro in mano; a ciascun lettore si dia una riga; ad un segnale, il Lettore Supremo, comincerà a precipitare dal sommo dell’edificio, e man mano che transiterà di fronte alle finestre, il lettore di ciascun piano leggerà la riga destinatagli, a voce forte e chiara. È necessario che il numero dei piani corrisponda a quello delle righe, e non vi siano equivoci tra ammezzato e primo piano, che potrebbero causare un imbarazzante silenzio prima dello schianto. Bene anche leggerlo nelle tenebre esteriori, meglio se allo zero assoluto, in smarrito abitacolo spaziale». [1]
I consigli di Manganelli vanno presi sul serio e sono forse una valida guida per addentrarsi nell’opera di Urmuz, in particolare in questo «romanzo» intitolato Pâlnia şi Stamate, altrimenti si corre il rischio di schiantare in un imbarazzante silenzio una volta che si è entrati nei «sotterranei del testo» [2].

La prima parte del romanzo di Urmuz

Quando si entra nell’«appartamento ben aerato» con veranda, nella prima parte del romanzo di Urmuz, il lettore incontra «su un tavolo senza gambe», «basato su calcoli e probabilità», un vaso che contiene l’essenza eterna della «cosa in sé». Ecco, nella sua concisione, l’incipit romanzesco che riportiamo dalla nuova edizione stabilita da Ion Pop:

«Un apartament bine aerisit, compus din trei încăperi principale, având terasă cu geamlâc şi sonerie.
În faţă, salonul somptuos, al cărui perete din fund este ocupat de o bibliotecă de stejar masiv, totdeauna strâns înfăşurată în cearceafuri ude... O masă fără picioare, la mijloc, bazată pe calcule şi probabilităţi, suportă un vas ce conţine esenţa eternă a “lucrului în sine”, un căţel de usturoi, o statuetă ce reprezintă un popă (ardelenesc) ţinând în mână o sintaxă şi... 20 de bani bacşiş... Restul nu prezintă nici o importanţă. Trebuieşte însă reţinut că această cameră, vecinic pătrunsă de întunerec, nu are nici uşi, nici ferestre şi nu comunică cu exteriorul decât prin ajutorul unui tub, prin care uneori iese fum şi prin care [3] se poate vedea, în toiul nopţii, cele şapte emisfere ale lui Ptolomeu, iar în timpul zilei doi oameni cum coboară din maimuţă şi un şir finit de bame uscate, alături de Auto-Kosmosul infinit şi inutil...
A doua încăpere, care formează un interior turc, este decorată cu mult fast şi conţine tot ceea ce luxul oriental are mai rar şi mai fantastic... Nenumăratele covoare de preţ, sute de arme vechi, încă pătate de sânge eroic, căptuşesc colonadele sălii, iar imenşii ei pereţi sunt, conform obiceiului oriental, sulemeniţi în fiecare dimineaţă, alteori măsuraţi, între timp, cu compasul pentru a nu scădea la întâmplare [4].
De aici, printr-o trapă făcută în duşumea, se ajunge, din partea stângă, în o subt-pământă ce formează sala de recepţie, iar din partea dreaptă, prin ajutorul unui cărucior pus în mişcare cu manivela, se pătrunde într-un canal răcoros, al căruia unul din capete nu se ştie unde se termină, iar celălalt, la partea opusă, într-o încăpere scundă, cu pământ pe jos şi în mijlocul căreia se află bătut un ţăruş, de care se află legată întreaga familie Stamate...»(pp. 76-77)

«Un appartamento ben aerato, composto di tre vani principali, più una terrazza a vetri munita di campanello. Davanti, il salone sontuoso, la cui parete di fondo è interamente occupata da una biblioteca in quercia massiccia, sempre strettamente avvolta in lenzuola fradice… In mezzo, basato su calcoli e probabilità, un tavolo senza gambe sorregge un vaso che contiene l’essenza eterna della “cosa in sé”, uno spicchio d’aglio, una statuetta raffigurante un pope (di Transilvania) che tiene in mano una sintassi e… 20 soldi di mancia… Il resto non presenta alcuna importanza. Bisogna tuttavia tenere presente che questa camera, eternamente penetrata dalle tenebre, non ha né porte né finestre e comunica con il mondo esterno solo per mezzo di un tubo, che lascia talvolta uscire del fumo, attraverso cui si possono osservare, nel cuore della notte, i sette emisferi di Tolomeo, e, durante il giorno, due uomini discendere dalla scimmia e una successione finita di semi secchi, accanto all’Auto-Cosmo infinito e inutile…
Il secondo vano, che forma un interno alla turca, è decorato con molto fasto e contiene tutto ciò che il lusso orientale ha di più raro e di più fantastico... Gli innumerevoli tappeti pregiati e centinaia di armi antiche, ancora macchiate di sangue eroico, addobbano i colonnati della sala; e le sue immense pareti, in conformità all’usanza orientale, ogni mattina vengono imbellettate e, allo stesso tempo misurate, talvolta col compasso, evitando così il rischio di possibili rimpicciolimenti.
Di qui, per via di un trabocchetto ricavato nel pavimento, si giunge a sinistra in un sotterraneo che forma la sala di ricevimento, mentre sulla destra si entra, grazie a un carrozzino azionato da una manovella, in un fresco canale di cui una delle estremità non si sa dove finisce, mentre l’altra, dalla parte opposta, porta giù, in un vano basso fatto di terra, in mezzo al quale si trova piantato un palo, al quale sta legata tutta la famiglia Stamate...»

Si tratta della descrizione di uno spazio monadico, ricco di dettagli, che presenta le caratteristiche di una scheda mnemotecnica ove si iscrivono i «luoghi» di un sapere di natura libresca, enciclopedica. Il riferimento al «pope (di Transilvania) che tiene in mano una sintassi e... 20 soldi di mancia» è forse un richiamo ironico al parroco erudito, di origine aristocratica, Petru Maior, formatosi al collegio romano «De Propaganda Fide», il quale con le sue opere ha dato un contributo essenziale alla «Scuola latinista di Transilvania». Influenzata dallo spirito illuminista e dal risveglio nazionale, essa ha avuto lo scopo di dimostrare, non senza qualche esagerazione, la continuità dell’elemento latino sul territorio della Dacia e l’unità etnico-linguistica del popolo romeno su basi storiche e filologiche. È inoltre evidente la parodia del pensiero filosofico-economico-storico e scientifico nelle costanti allusioni ad Aristotele («i sette emisferi di Tolomeo»), Leibniz («camera-monade senza porte né finestre»), Kant e Schopenhauer («la cosa in sé»), Marx (il «tavolo» spettrale «senza gambe» del Capitale), Darwin («due uomini discendere dalla scimmia») in uno scenario onirico, di straordinaria densità simbolica, che sembra derivare dalla lettura de L’Interpretazione dei sogni di Freud.

Titolo e genere letterario

Il primo interrogativo che si pone colui che intenda tradurre questo testo di Urmuz in una qualsiasi lingua che non sia il romeno, riguarda il titolo. La seconda domanda concerne il genere, cioè la dicitura «romanzo».
Partiamo dalla prima questione, cioè dal titolo: Pâlnia şi Stamate. Pâlnia significa in romeno «l’imbuto» ed è di genere femminile. Il narratore afferma che è un «simbolo». Il fatto che Pâlnia, con la maiuscola, sia posta nella forma articolata all’inizio del titolo, accanto a Stamate, non esclude di pensare che si tratti, almeno per un istante, di un nome proprio (come gli altri protagonisti dei racconti: Algazy e Grummer, Cotadi e Dragomir, Ismail e Turnavitu), oppure quantomeno di considerarla un sostantivo che possiede alcune qualità del nome proprio. In ogni caso è associato al genere femminile o, se si guarda al contesto narrativo, a una donna nel valore di ricettacolo, come la Chora platonica del Timeo. Difatti, Pâlnia è colei che riceve, cioè una strana entità che riveste l’immagine del suo essere femminile, una parola che si lascia prestare alle proprietà che accoglie il suo nome. Da un altro punto di vista Pâlnia è un oggetto di desiderio, e ciò riguarda specificatamente la questione enigmatica del fantasma sia letterario che soggettivo alle prese con la dimensione significante della parola, intesa come corpo vuoto, che non si lascia completamente riempire da alcun significato definitivo. L’uno non va senza l’altro.
Stamate, di sonorità greca, sembra richiamare lo stàmnos, l’orcio piriforme antropomorfico, ove in epoca antica venivano conservati gli unguenti in un contesto presumibilmente funebre. Il suffisso -ate in romeno trascina con sé tutta una sequenza di supplementi, una catena di metonimie, estremamente suggestive e teoricamente infinite.
La seconda questione riguarda il genere letterario. Pâlnia şi Stamate porta la dicitura «romanzo in quattro parti». Le «quattro parti» fanno riferimento alla tecnica retorica allo scopo di definire i luoghi, le immagini e l’ordine che favoriscono la memoria di fatti e nozioni. Nella prima parte del romanzo si assiste alla descrizione spaziale del luogo dove vengono inventariati gli elementi costitutivi che daranno il via allo sviluppo drammatico dell’evento narrativo. Nella «seconda parte» i personaggi urmuziani vengono dipinti nell’attività quotidiana della loro esistenza. Nella «terza parte» viene introdotto l’elemento perturbante che sconvolge la stasi iniziale per azionare la dinamica drammatica dell’intreccio, e, alla fine, la «quarta parte» si conclude con un mancato happy ending, che stabilisce l’annullamento del protagonista e la sua definitiva scomparsa nel micro-infinito testuale.
Urmuz fa dunque allusione al «romanzo» e quindi alla sua tradizione nella cultura occidentale. Ciò ci induce ad una piccola riflessione preliminare. Se per romanzo si intende una narrazione piuttosto estesa (di solito in prosa di eventi realistici o fantastici, con uno o più personaggi), che implica generalmente una situazione drammatizzata, di cui segue gli sviluppi fino alla conclusione di segno positivo o negativo, ci si rende conto che Urmuz dà un sottotitolo provocatorio al suo testo, nel caso in cui si riferisca solo all’ampiezza materiale della narrazione, considerando la tradizione feuilletonistica dei romanzi di più di mille pagine, di importazione francese, molto in voga in Romania al quel tempo.
Il problema è ancora più complesso, se si vuol dare una più precisa definizione al romanzo in quanto genere. Se per esempio se ne ripercorre la storia nelle sue tappe e progressive ramificazioni, e se si menzionano infine le sue lontane origini, la tradizione del romanzo è fatta risalire alle manifestazioni delle letterature orientali (assiro-babilonese, aramaico, egizia, araba, ecc.). Se, invece, si restringe il campo dal punto di vista tematico, e si considera Pâlnia şi Stamate una narrazione fondata sull’amore contrastato di due o più personaggi, che, attraverso una catena di prove e di eventi, giungono a un lieto epilogo (o tragicomico, come nel nostro caso), è d’obbligo fare riferimento alla produzione letteraria dell’evo antico, a opere esemplari come Gli amori pastorali di Dafne e Cloe di Longo Sofista, o più appropriatamente al libro de L’asino d’oro di Apuleio. Quest’opera, attraverso l’inserzione della lunga favola di Amore e Psiche, si avvicina maggiormente, a livello di archetipo, al «romanzo» in miniatura di Urmuz.

La stratificazione di strutture interpretative

Ma c’è anche un altro aspetto degno di rilievo. Il brano di apertura di Pâlnia şi Stamate («Di qui, per via di un trabocchetto ricavato nel pavimento, si giunge a sinistra in un sotterraneo che forma la sala di ricevimento, mentre sulla destra si entra, grazie a un carrozzino azionato da una manovella, in un fresco canale di cui una delle estremità non si sa dove finisce, mentre l’altra, dalla parte opposta, porta giù, in un vano basso fatto di terra, in mezzo al quale si trova piantato un palo, al quale sta legata tutta la famiglia Stamate...») ha una fonte ben precisa. Riecheggia una descrizione che indica lo scenario del luogo iniziatico relativo al culto di Zalmoxis, rintracciabile nella modalità pitagorica e sullo sfondo del «mito della caverna» di Platone. L’accenno urmuziano è un’allusione ironica al mito identitario dei romeni, e riguarda la religione misterica dei Geti che dimoravano nello spazio geografico dell’attuale Romania prima della dominazione romana.
Secondo la testimonianza di Erodoto (IV, 94-96), «i Geti sono i più valorosi dei Traci e i più giusti», «si credono immortali», «pensano di non morire affatto, e colui che muore raggiungerà Zalmoxis, un essere divino (daimon) » (IV, 93). Riportiamo per intero la lunga citazione di Erodoto, perché così si comprenderà meglio il senso allusivo all’orizzonte dei Misteri e l’azione sovversiva di Urmuz che prova a demistificare il mito delle origini che impronta l’identità nazionale.
«Come ho appreso dai Greci residenti sul Ponto e sull’Ellesponto, – riporta Erodoto – questo Zalmoxis era un uomo che sarebbe stato schiavo a Samo, schiavo di Pitagora figlio di Mnesarco. Poi, divenuto libero, si sarebbe assai arricchito e avrebbe fatto ritorno, da ricco, nel proprio paese. Poiché i Traci vivevano miseramente ed erano poveri di spirito, Zalmoxis, che conosceva il sistema di vita degli Ioni e abitudini più progredite di quelle dei Traci (avrebbe frequentato i Greci, e fra i Greci Pitagora, che non era certo di minore saggezza), si fece costruire una sala di ricevimento, in cui ospitava i cittadini più ragguardevoli; fra un banchetto e l’altro insegnava che né lui né i suoi convitati né i loro discendenti sarebbero morti, ma avrebbero raggiunto un luogo, dove sarebbero rimasti, e avrebbero goduto di un’eterna felicità. Mentre così operava e diceva, si costruiva una stanza sotterranea. E quando la stanza fu ultimata, Zalmoxis scomparve alla vista dei Traci: scese nella dimora sotterranea e vi abitò per tre anni. I suoi ospiti ne sentivano la mancanza e lo piangevano per morto; ma egli dopo tre anni si mostrò ai Traci e in tal modo i suoi insegnamenti risultarono credibili. Questo si racconta che abbia fatto Zalmoxis. Io questa storia della camera sotterranea non la rifiuto, ma neppure ci credo troppo; penso comunque che questo Zalmoxis sia vissuto molti anni prima di Pitagora. Se sia stato un uomo e se ora sia un dio locale per i Geti, chiudiamo qui la questione». [5] (corsivi miei)
A partire da questo brano di Erodoto, secondo Mircea Eliade, i Greci sono stati colpiti dalla similarità tra Pitagora e Zalmoxis. Il fatto di nominare Pitagora come fonte di insegnamento indica che il culto di Zalmoxis comportava la credenza nell’immortalità dell’anima ed alcuni tipi di riti iniziatici. L’andreon dove Zalmoxis riceveva gli «iniziati», parlando loro dell’immortalità dell’anima, richiama la sala dove insegnava Pitagora a Crotone e le relative stanze in cui si celebrava il banchetto di culto. Il fatto di ritirarsi in una camera sotterranea equivale, in forma rituale o simbolica, a una katabasis o a un descensus ad inferos. Inoltre, entrare in una caverna o antro sotterraneo significa stabilire un legame con i morti e attingere le loro forze [6]. Indubbiamente la dimensione ctonia, sotterranea della «sala di ricevimento» urmuziana riproduce surrettiziamente il luogo solenne ove si compiva il «risveglio della gnosi», il ricongiungimento con la divinità creatrice. Da questa prospettiva, Stamate, inteso come orcio piriforme, sembra appartenere alla serie dei soprammobili, degli oggetti atti alla celebrazione del rito iniziatico. Probabilmente Urmuz allude a quel «po’ di essenza» divina, a quella scintilla vitale che è imprigionata dentro l’involucro dello stàmnos e che tenta di ricomporsi con il Tutto. Non lo sapremo mai con certezza. Fatto sta che «la famiglia Stamate è legata al palo», piantata a quei vincoli dell’apparenza, ed osserva ininterrottamente le immagini riflesse, le monadi illusorie «dal tubo di comunicazione» nella stessa condizione spirituale degli abitanti platonici del «mito della caverna».

Come si vede, le pagine scritte da Urmuz pretendono dal lettore uno sforzo di concentrazione e un gran potere di astrazione. Nel senso che l’esempio della scrittura di Urmuz richiede di imparare di più, di comprendere tutto l’orizzonte enciclopedico della sua opera. Tuttavia, allo stesso tempo, l’opera di Urmuz esige anche un percorso di lettura di segno opposto, cioè richiede di disimparare i correnti riferimenti interpretativi alla sua opera in modo da riuscire ad aprirsi all’esperienza dell’enigma, alla cruda forza della sua scrittura e di ascoltare il suo discorso in maniera non solo critica o erudita, ma anche etica. E questo non è un problema da poco.
Come già aveva evidenziato per primo Eugène Ionesco, esiste in Urmuz, come in Kafka (e in Jarry), un’impressionante stratificazione di strutture interpretative. Per quanto ci riguarda le consideriamo tutte valide, ma ne segnaliamo solamente tre, soprattutto in relazione ai punti di contatto tra la scrittura di Urmuz e quella di Kafka, in linea anche con la tradizione esegetica della ricezione avanguardista delle Pagine bizzarre: l’interpretazione teologica (l’ansiosa ricerca del Dio assente, o per lo meno, di ciò che non si lascia cogliere empiricamente dal soggetto); quella sociale e critica (la messa in scena parodistica dei dispositivi per molti versi inquietanti del sistema ideazionale dominante – e insieme alienante per il soggetto della scrittura – come il darwinismo, il militarismo, il fattore identitario e nazionalistico, il positivismo scientifico, il ruralismo contadino di matrice letteraria autoctona e tradizionale, l’economicismo e il burocratismo, in particolare, nelle sue forme legate al versante perverso della legge); e l’interpretazione psicologica e autobiografica (il complesso familiare, l’irrisolto Edipo, che hanno impedito all’autore di queste «antiprose» di intraprendere una «normale» relazione con l’altro sesso e lo hanno portato, come in una sorta di fatalità non certo disattesa, al gesto estremo del suicidio con un colpo di pistola alla testa).
Per uscire da quest’impasse condizionante del lascito esegetico che grava sull’immagine di Urmuz è necessario tuttavia anche ridimensionare la portata della tradizione apologetica del surrealismo romeno (che ha fatto di lui un idolo esemplare) e l’esperienza citazionista della scrittura postmoderna della generazione degli anni ’80 in Romania, sperimentale o neoavanguardistica [7].
Il lettore, come forse si è già detto, è invitato dall’opera di Urmuz in un certo senso a riconquistare quello stupore infantile, quella prima ingenua impressione di lettura, quella specie di meraviglia, che può far pensare, forse, a una «buffoneria letteraria», senza per questo inserirla, come fece George Călinescu, in un paradigma interpretativo di tipo impressionistico, intuitivo e normativo [8]. Questa attitudine critica sarebbe un ennesimo tentativo di rimuovere il crudo impatto evocativo della scrittura di Urmuz forzandola in una categorizzazione già data, e del resto anche normalmente riconosciuta. Essa è poco adeguata ad accogliere la portata singolare dell’evento e il dettato poetico dell’opera nel suo complesso, e a restituirla alla sua difficoltà intrinseca, che è fondamentalmente di ordine strutturale.

La «cosa in sé» di Urmuz

Accostarsi alla «cosa in sé» di Urmuz, al di là del riferimento alla filosofia di Kant e di Schopenhauer, implica vedere in essa un oggetto del tutto particolare (non solo generale). In Pâlnia e Stamate la «cosa in sé» è un oggetto-non oggetto, cioè è come l’Odradek di Kafka: 1) è un oggetto che attraversa le generazioni e le costellazioni familiari come un lascito e una tradizione, ma insieme è un oggetto svincolato dal ciclo delle generazioni, quindi non è un possedimento, un bene interscambiabile; 2) è un oggetto che ha le caratteristiche di essere immortale, quindi destinato necessariamente a non morire del tutto, o quasi; 3) è un oggetto eterno, al di là del tempo e della storia, ma che si può individuare nello spazio, cioè in quello spazio che lascia le cose raccogliersi nel loro accadere; 4) è un oggetto al di là delle finitezza umana, non sessuato e che quindi va oltre la differenza dei sessi.
La «cosa in sé» di Urmuz sembra essere l’incarnazione di ciò che Jacques Lacan chiamò la jouissance, ovvero ciò che non serve a nulla [9]. La rappresentazione di questa jouissance la troviamo metonimicamente nella descrizione dell’ambiente che fa da sfondo alla figura della «cosa in sé», posta in primo piano. Essa mette in scena un eccesso immortale (cioè non ancora morto o duro a morire) che si irradia propagandosi in tutte le pagine di questa singolare scrittura. La «statuetta del pope» transilvano con la «sintassi» (al di là dell’allusione a Petru Maior) raffigura ciò che persevera come una legge senza propriamente esistere (e in Kafka essa ci rende colpevoli senza sapere di cosa siamo colpevoli, oppure come suggerisce Cioran, colpevoli per il fatto solo di esistere). «L’Auto-Cosmo infinito e inutile» funziona come una specie di cattivo infinito hegeliano senza risoluzione e conciliazione finale. Esso sembra semplicemente trascinare alla deriva, in una sorta di alienazione permanente per il soggetto, e quindi la sua funzione è del tutto vana. Lo spazio interno che presidia la «cosa in sé» suggerisce una struttura monadica, alla Leibniz, senza «porte né finestre». La «biblioteca» si presenta come la forma assoluta dell’infinito nel campo del grande Altro, metafora del mondo e delle lingue scritte in cui sono custoditi gelosamente i saperi dell’umanità. L’allusione urmuziana si coglie se ci riferiamo alla Biblioteca di Alessandria, che fu incendiata dal califfo in modo irrimediabile, ed è forse proprio per questo motivo che nel testo viene ricoperta da «lenzuola fradice». La biblioteca, dunque, è leibnizianamente la metafora del mondo, in essa sono conservati i saperi dell’umanità, nei libri, negli inventari, nei cataloghi che fungono da supporto alla memoria.

Leggendo Pâlnia şi Stamate si ha come l’impressione che il discorso filosofico («la cosa in sé»), religioso («il pope»), il rituale magico-terapeutico («spicchi d’aglio»), il primato dell’economico («20 soldi di mancia»), le leggi del linguaggio («la sintassi») oppure quelle evolutive della scienza («gli uomini discendere dalla scimmia») parassitino e sfruttino la pura pulsione della «cosa in sé», tentando, nel vano dell’appartamento, di impedire lo scoppio di un incendio, imprevedibile ma pur sempre incombente. Il sapere difende il luogo dalla forza della vita, dal reale pulsionale, che è sia biologico che rappresentazionale, secondo il concetto fondamentale della psicanalisi creato da Freud. Questo niente, che è pur qualcosa, mette in scena l’apparente paradosso dell’essenza eterna della «cosa in sé» in Pâlnia e Stamate. La «cosa in sé», cioè la cieca pulsione della vita (o della morte) che non muore, presenta le due caratteristiche del godimento nel romanzo urmuziano: la «cosa in sé» è ciò che non possiamo mai raggiungere e ottenere, ed è insieme ciò di cui non ci possiamo mai del tutto sbarazzare. I personaggi del «romanzo» di Urmuz non fanno altro che dirci questo, fino allo spasimo e allo sfinimento delle loro assurde azioni.
Il mondo di Urmuz è come se fosse intrappolato nel circolo vizioso della «cosa in sé». Sembra essere un marchingegno barocco fatto appositamente per catturare lo sguardo, una scena allestita per gli occhi curiosi del lettore. Lo strapotere della «cosa in sé» fa sì che i personaggi del «piccolo romanzo fiume» di Urmuz non somiglino al genere umano, anzi essi appaiono chiaramente inumani, più vicini al mondo degli oggetti o degli alieni. I suoi eroi sono una controfigura dell’umanità quando incarnano il loro eccesso inumano, quando somigliano a qualcosa più dell’umano. Come gli umani possono provare odio, amore, amicizia, attrazione sessuale per certi tratti perversa, sembrano imbrigliati nella dialettica hegeliana Servo-Padrone, nel loro disperato bisogno di riconoscimento reciproco, il che li impegna in un’estenuante lotta mortale. Ma in realtà Urmuz ci mostra che le sue creature di inchiostro sono solo dei simulacri, non mancano di nulla o se desiderano qualcosa, la loro è un’alterazione del desiderio, un’inadeguatezza al desiderio che li spinge e li fa divenire sempre altri, costantemente altri, in una continua metamorfosi della loro presunta identità, a dispetto del loro nome, peraltro straniero, quando non sono anonimi. I personaggi di Urmuz, come l’Odradek di Kafka, mettono in scena un universale singolare che denuncia la loro incompletezza, e annunciano il fatto che non sono ancora del tutto morti.
Nel prosieguo del romanzo la «cosa in sé» si esibisce negli ambienti e nei vani descritti in successione dall’autore:
«Il secondo vano, che forma un interno alla turca, è decorato con molto fasto e contiene tutto ciò che il lusso orientale ha di più raro e di più fantastico... Gli innumerevoli tappeti pregiati e centinaia di armi antiche, ancora macchiate di sangue eroico, addobbano i colonnati della sala; e le sue immense pareti, in conformità all’usanza orientale, ogni mattina vengono imbellettate e, allo stesso tempo misurate, talvolta col compasso, evitando così il rischio di possibili rimpicciolimenti».

Per la raffigurazione del «secondo vano» Urmuz impiega la tecnica retorica dell’èkhphrasis, ovvero la descrizione letteraria di opere d’arte di provenienza plastica o pittorica in una «sequenza fluttuante di stasi» [10]. Il quadro descritto, che sembra evocare l’atmosfera degli Interni turchi di Nicolae Grigorescu o de Interiorul oriental di Alexandru Satmary ma anche del Salone Turco del Castello Peleş, si offre allusivamente come il distillato dell’esperienza letteraria della cultura islamica. Se la prima stanza raccoglieva in sé, in chiave parodistica, l’inventario materiale e concettuale dello spirito occidentale, la seconda ne contiene parallelamente l’anima orientale con i suoi emblemi immaginari:
«Di qui, per via di un trabocchetto ricavato nel pavimento, si giunge a sinistra in un sotterraneo che forma la sala di ricevimento, mentre sulla destra si entra, grazie a un carrozzino azionato da una manovella, in un fresco canale di cui una delle estremità non si sa dove finisce, mentre l’altra, dalla parte opposta, porta giù, in un vano basso fatto di terra, in mezzo al quale si trova piantato un palo, al quale sta legata tutta la famiglia Stamate...»
Nel suo folle eccesso, la «cosa in sé» perpetua sé stessa «accanto all’Auto-Cosmo infinito e inutile” nella sala «che forma l’interno alla turca». Questo vano, «con molto fasto» e con «il lusso orientale» e «fantastico» che lo caratterizza, fa sfoggio di sé nei «tappeti pregiati», nelle «armi antiche macchiate di sangue eroico» ed evita il rischio di «possibili rimpicciolimenti», come recita il testo, perché impegna con la sua energia debordante le complicate procedure amministrative e domestiche preposte a prolungare indefinitivamente il lavoro di mascheramento, «in conformità all’usanza orientale», del suo insulso e orribile spettacolo che l’essenza della cosa stessa inscena. Di qui, per la sua via, «un trabocchetto ricavato nel pavimento», si sbuca «a sinistra» «in un sotterraneo che forma la sala di ricevimento», mentre a destra mediante un dispositivo meccanico si arriva «in un fresco canale», anch’esso misterioso perché da una parte non si sa dove porti, ma dall’altra immette giù, «in un vano basso fatto di terra». In mezzo a questo luogo imprecisato, ma ricco di dettagli topografici e topologici, sta la «famiglia Stamate» legata a un palo. Il gioco dei rimandi culturali è interminabile, e il metalinguaggio inventato e costruito da Urmuz si dimostra incapace di sostenere la potenza eversiva della «cosa in sé» e il suo strapotere debordante.

La seconda parte del romanzo

Leggiamo ora la seconda parte del romanzo:

«II
Acest om demn, unsuros şi de formă aproape eliptică, din cauza nervozităţii excesive la care a ajuns de pe urma ocupaţiilor ce le avea în consiliul comunal, este silit să mestece, mai toată ziua, celuloid brut, pe care apoi îl dă afară, farămiţit şi însalivat, asupra unicului său copil, gras, blazat şi în etate de patru ani, numit Bufty... Micul băiat, din prea multă pietate filială, prefăcându-se însă că nu observă nimic, târăşte o mică targa, pe uscat, în vreme ce mama sa, soţia tunsă şi legitimă a lui Stamate, ia parte la bucuria comună, compunând madrigale, semnate prin punere de deget.
Aceste ocupaţiuni îndeajuns de obositoare îi fac, cu drept cuvânt, să se amuzeze, şi atunci, ajungând uneori cu îndrăzneala până la inconştienţă, se uită tustrei cu benoclul, printr-o spărtură a canalului, în Nirvana (care se află situată în aceeaşi circumscripţie cu dânşii, începând lângă băcănia din colţ [11]), şi aruncă în ea cu cocoloaşe făcute din miez de pâine sau cu coceni de porumb. Alteori, pătrund în sala de recepţie şi dau drumul unor robinete expres construite acolo, până ce apa, revărsându-se, le-a ajuns în dreptul ochilor, când cu toţii trag atunci, de bucurie, focuri de pistol în aer.
În ce priveşte personal pe Stamate, o ocupaţie care îl preocupă [12] în gradul cel mai înalt este ca să ia seara, prin biserici, instantanee [13] de pe sfinţii mai în vârstă, pe cari le vinde apoi cu preţ redus credulei sale soţii şi mai ales copilului Bufty, care are avere personală. Acest negoţ nepermis nu l-ar fi exercitat pentru nimic în lume Stamate dacă nu ar fi dus lipsă aproape completă de mijloace, fiind silit chiar să facă armata când era abia în vârstă de un an, numai ca să poată ajuta, cât de curând, pe doi frăţiori nevoiaşi ai săi, cu şoldurile scoase prea mult în afară, cauză pentru care fuseseră daţi afară din slujbă». (pp. 78-79)

«II
Questo degno individuo, untuoso e di forma quasi ellittica, spinto dall’eccessivo nervosismo dovuto alle attività che un tempo svolgeva nell’ambito del consiglio comunale, è costretto, quasi tutto il tempo, a masticare celluloide grezza che poi, ben sminuzzata e insalivata, vomita sul suo unico figlio, grasso, di quattro anni, annoiato di tutto, il cui nome è Bufty... Tuttavia il bambinetto, spinto da un’eccessiva pietà per il padre, fa finta di nulla e trascina una piccola barella sull’asciutto, mentre sua madre, frattanto, sposa tosata e legittima di Stamate, prende parte alla felicità comune componendo madrigali che firma con l’impronta digitale».

Bufty, nome di sonorità inglese, evoca in romeno il regionalismo buft (ventre, pancia) e il familiare e scherzoso buftea (uomo, bambino grasso). Trascina una piccola barella (târăşte o mică targă) è un’espressione fraseologica romena che significa «essere stretto dalla morsa dei soldi». Qui si è preferita la traduzione letterale per mantenere l’effetto straniante del discorso.
«A dire il vero, queste occupazioni piuttosto estenuanti li fanno divertire molto e allora tutti e tre, spinti talvolta dall’ardire che fa loro toccare le soglie dell’incoscienza, arrivano, attraverso una spaccatura del canale, a vedere col binocolo il Nirvana (che è situato proprio nella stessa circoscrizione, a partire dalla drogheria all’angolo), che viene bombardato con pallottoline di mollica di pane o torsoli di granoturco. Altre volte, invece, penetrano nella sala di ricevimento e danno il via a certi rubinetti appositamente costruiti, fino a quando l’acqua, riversandosi, giunge all’altezza dei loro occhi, e allora tutti insieme, colmi di felicità, sparano colpi di pistola in aria.
Per quanto concerne la situazione personale di Stamate, un’attività che lo impegna al massimo grado è quella di scattare la sera, nelle chiese, delle istantanee dei santi più attempati, per poi rivenderle a prezzo ridotto, con lo sconto, alla credula moglie e soprattutto al figlio Bufty, che sembra possedere un patrimonio personale. Per nulla al mondo Stamate avrebbe esercitato questo illecito commercio se non fosse stato quasi completamente privo di mezzi; anzi, fu costretto persino ad ottemperare gli obblighi della leva fin dalla tenera età di appena un anno, solamente per poter sovvenire, al più presto, ai bisogni dei suoi due poveri fratellini, che, per la semplice ragione di avere i fianchi un po’ troppo sporgenti, erano stati sbattuti fuori dal lavoro».
Quest’ultima è un’allusione polemica di Urmuz alla discriminazione sociale degli omosessuali. L’espressione romena cu şoldurile scoase prea mult în afară si può infatti rendere in italiano con il regionalismo «culattone».
Nella seconda parte del romanzo «Stamate», «l’individuo degno», il padre, il marito (lo stàmnos «untuoso e di forma quasi ellittica» che contiene come un vaso la «cosa in sé» e dalla quale è senza tregua e senza riposo animato) è «spinto dall’eccessivo nervosismo» (questa è la cifra del godimento pulsionale, il reale della pulsione: Trieb), cioè «è costretto, quasi tutto il giorno» (a fare cosa?), «a masticare celluloide grezza che poi, ben sminuzzata e insalivata, vomita sul suo unico figlio». Il suo modo di godere, di trasmettere e tramandare le cose, non le parole, assume modalità perverse, quasi sadiche, per non dire persecutorie nei confronti del figlio, l’erede. Una legge imprecisata lo spinge, suo malgrado, a godere e ad esercitare la sua funzione paterna solo in questo modo. E il figlio, un bambino «grasso» di «quattro anni», il cui nome è Bufty, che fa? Anche lui, «annoiato di tutto», è «spinto da un’eccessiva pietà per il padre, fa finta di nulla e trascina una piccola barella sull’asciutto», quindi anche lui, a suo modo gode, gode in maniera diversa dal padre, e il suo godimento si soddisfa idealmente nella noia e nell’indifferenza. Talvolta Bufty prova nei riguardi di Stamate un sentimento di pietà che nasconde la colpa di essere mancante di qualche insegna fallica paterna, nel caso specifico, vive nella ristrettezza economica (trascinare una barella sull’asciutto è, come si è visto, un’espressione idiomatica che significa «essere stretto dalla morsa dei soldi»), cioè soddisfa ossessivamente su sé stesso questa pulsione mortifera e attende di avere anche lui «un patrimonio personale» da spendere o da scambiare nel commercio tra i propri simili, a tempo debito. E la madre («sposa tosata e legittima di Stamate»), che non ha neppure un nome, che fa? Come gode? Diciamo che lei è al servizio del suo godimento femminile («non tutto fallico»), è sottoposta alla sua legge di madre-moglie-donna, nel caso specifico è una legge e un desiderio altro che mancano di nome e si esprimono in una logica di godimento mistico-poetico-musicale molto vicino alla vera natura della «cosa in sé», quindi del tutto diversa dal godimento esclusivamente «fallico» manifestato da Bufty e da Stamate. Recita il testo: «prende parte alla felicità comune componendo madrigali che firma con l’impronta digitale».
Che razza di felicità comune è mai questa? E in che senso intendere questo comune, questo «come-uno» familiare senza comprendere i molti del godimento soggettivo? E poi, quale enigma si cela dietro «i colpi di pistola» sparati «in aria» (al di là della citazione da Il Signor Leonida alle prese con la reazione di Caragiale) e quale gioia indicibile si ricava dall’apertura di certi «rubinetti appositamente costruiti» (che è forse un richiamo alla gioia del Piccolo Hans di Freud)? Lasciamo per ora aperte queste domande.

La tematica della famiglia

Prima di riprendere la lettura della «terza parte» del piccolo romanzo fiume di Urmuz, è opportuno evidenziare alcuni aspetti degni di interesse rilevati da Nicolae Balotă, specialista della letteratura dell’assurdo, che ha studiato in maniera molto approfondita le tematiche della famiglia e della legge nell’opera di Urmuz [14]. I capitoletti critici intitolati Il dramma familiare e Il processo alla Legge individuano con sottigliezza psicologica le trame inconsce, che adombrano i percorsi esistenziali dell’autore, gli avvenimenti biografici, trasfigurati nella verità della lettera. Balotă scorge, attraverso le testimonianze di Eliza Vorvoreanu, delle tracce autobiografiche che si rivelano nelle commessure interstiziali della scrittura.
Prendiamo per esempio la famiglia Stamate. Essa si vede costretta a un palo in una condizione ctonia, sotterranea, senza alcuna possibilità di comunicazione con l’esterno (se non tramite la dotazione di un tubo-telescopio), in una situazione, si può dire, di clôture esistenziale. È evidente che la nozione stessa di famiglia si traduce come l’allegorizzazione di un luogo chiuso, statico, oscuro e morboso, considerata la contigua promiscuità dei suoi appartenenti. Il nucleo familiare assume, in abstracto, una qualità quasi monadica, un’espressione figée, emblematica, che trova una certa risonanza anche nell’uso straniante dei nomi propri dei soggetti che lo compongono.
I personaggi in questione sono tre, un bel triangolo edipico che struttura il «romanzo familiare»: Stamate, il padre, Bufty, il figlio, e la madre, senza nome, consorte di Stamate. Nella seconda parte del romanzo si assiste alla loro descrizione «realistica». Notiamo che Stamate, per compensare al suo snervante lavoro burocratico («nell’ambito del consiglio comunale»), compie un inquietante rituale a spese del «suo unico figlio», «rigurgitando celluloide grezza» su di lui. In pratica esercita il suo potere autoritario e prevaricante sulla monotona esistenza blasée, un po’ annoiata di Bufty, il quale, a sua volta, «per eccesso di pietà filiale, fingendo di non accorgersi di nulla», letteralmente: «trascina una barella», cioè non combina niente, si trastulla giocando con le parole, allo stesso modo di Urmuz bambino che ludicamente associava le parole tramite la suggestione sonora che evocavano alla sua mente. Anche la madre di Urmuz, come la moglie di Stamate, era una pianista di talento, e ironicamente nel testo, «compone madrigali, firmati con l’impronta digitale». Come afferma Balotă si assiste allo «sdoppiamento dell’esistenza familiare», e la «metafora ironica della famiglia unita» si traduce nei vincoli che li vede «legati al palo». Sempre secondo il critico romeno, Pâlnia şi Stamate non è l’unico testo dove il «Padre rappresenta l’autorità nell’atto di lanciare interdizioni, verso cui il Figlio può esercitare la sua rivolta», e cita molti altri episodi narrativi per avvalorare l’argomentazione secondo la quale i testi urmuziani riflettono un conflitto familiare, motivato dal fatto che il padre del soggetto biografico aveva impedito allo scrittore di studiare la musica, costringendolo alla carriera burocratica, «seria», di avvocato [15].
Ciò che preme tuttavia sottolineare al di là della pertinenza di quest’analisi psicologica, è che Urmuz è il primo ad essere cosciente della componente autobiografica dei suoi testi, e che quindi non è più possibile aspettarsi una certa «innocenza» nella pratica compositiva dello scrittore. Le opere di Urmuz dimostrano una precisa, quasi ossessiva, lucidità e consapevolezza critica delle tematiche freudiane. I riferimenti alla pâlnie («imbuto») o alla umbrelă («ombrello») in Fuchsiada, come segni dell’invaginazione o pseudo-attributi e luoghi di godimento differito, giocano un ruolo strutturante nella dinamica della narrazione, e presentano mal celate allusioni alla simbologia freudiana, codificata ne L’Interpretazione dei Sogni.

Leggendo il passo seguente alla descrizione dei personaggi, si ha modo di vedere che «le occupazioni stanchevoli» che animano il conseguimento del piacere, hanno di mira la «felicità comune», quindi sono un piacere che va al di là del principio piacere, cioè mera jouissance. Questa «felicità comune», ci fa vedere Urmuz, per l’essere umano non è una gran bella cosa. Infatti, tornando alla famiglia Stamate, queste occupazioni piuttosto stanchevoli, che li fanno divertire molto, spingono tutti e tre alla temerarietà, talvolta sfiorando l’incoscienza, cioè arrivano a vedere col binocolo, attraverso una fenditura del canale, nel «Nirvana» (situato nella stessa loro circoscrizione, a partire dalla drogheria all’angolo con l’Infinito). Cos’è questo Nirvana che compare all’improvviso e assume con Urmuz la valenza di nome proprio?
Il Nirvana è un termine sanscrito con cui nel buddhismo tradizionale si indicava una delle quattro via di salvezza consistente nell’ottenere l’estinzione delle passioni e la cessazione della sofferenza inerente alla volontà di vita. Nel pensiero occidentale questo concetto è stato ripreso da Schopenhauer, che Freud riconosce come suo precursore, per indicare la negazione della volontà di vivere la cui esigenza scaturisce dalla conoscenza della natura dolorosa e tragica della vita. A partire da qui, Freud afferma che «l’aver conosciuto come tendenza dominante della vita psichica, e forse della vita nervosa in genere, lo sforzo che si esprime nel principio di piacere, sforzo inteso a ridurre, a mantenere costante, a eliminare la tensione interna provocata dagli stimoli (il “principio del Nirvana”, per usare un’espressione di Barbara Low), è in effetti uno dei più forti motivi che ci inducono a credere nell’esistenza delle pulsioni di morte» [16]. Dunque questa «felicità comune» che condurrebbe la famiglia Stamate a guardare nel Nirvana, in realtà li spinge diritti alla morte. Urmuz sa molto bene quello che scrive, non è innocente. Ha letto Freud, Schopenhauer ed Eminescu.
Sappiamo, inoltre, che questo «Nirvana» di Urmuz ha anche la possibilità di venir bombardato con pallottoline di mollica di pane o con torsoli di granoturco dai componenti della famiglia Stamate. E, altre volte, sempre per conseguire la cosiddetta «felicità comune», i personaggi urmuziani penetrano nella sala di ricevimento e danno il via a certi rubinetti appositamente costruiti, fino a che l’acqua, riversandosi, arriva all’altezza dei loro occhi. A quel punto, tutti insieme sparano, per la felicità, colpi di pistola in aria. Insomma fanno tutte queste attività per tentare di ridurre o al limite di azzerare la quantità di eccitazione proveniente sia dal mondo esterno che dal mondo interno. Ma questo è possibile farlo solo ricorrendo alle parole che si combinano scegliendo il regime flessibile dell’enunciazione in alternativa a quello rigido della dimostrazione e dell’enunciato. In altri termini, con Urmuz, direbbe Ionesco, «il linguaggio deve quasi esplodere, o distruggersi, nell’impossibilità di contenere i significati» [17]. Pertanto, i richiami sessuali alla spartură a canalului («fenditura del canale») al ruolo accessorio dei «rubinetti» nella «sala di ricevimento», ecc., che contribuiscono alla «felicità comune» non hanno una pregnanza simbolica in senso meramente psicologico o ermeneutico, cioè in termini di enunciati e di dimostrazioni, ma vanno letti come luoghi della parola, ossia crocevia di significati, tracce mnestiche della memoria culturale dell’autore-lettore di testi che si avvale del potere simbolico del linguaggio. Non di meno, il clin d’oeil caragialiano ai «colpi di pistola in aria» attesta la fedeltà espressiva alla tradizione romena dell’assurdo [18].
Si vuole semplicemente far notare che la cultura dell’autore, «il suo patrimonio personale», agisce come medium speculare, «binocolo» che si adopera come filtro della realtà. Gli eventi autobiografici del soggetto narrante si inseriscono nel «macro processo di intertestualizzazione» (Kristeva), per essere riproposti nella forma simbolica della scrittura [19]. Seguendo questa linea di pensiero, qualsiasi referente di tipo biografico, letterario, burocratico, ecc., ridotto a effetto di linguaggio, funziona semioticamente come condizione di lettura nella trama testuale. I luoghi di iscrizione urmuziana si aprono come un «palinsesto» (Genette) [20]; giocano il ruolo di maschera, di veicolo significante, collocandosi nel linguaggio, inteso come correlazione di testi, come scrittura-lettura che va di pari passo con la logica assoluta della passione letteraria.
A questo punto possiamo dire che Urmuz inscena un’azione decostruttiva riguardo al materiale della tradizione attraverso il gioco allusivo, la convenzionalizzazione retorica di ogni discorso. Ovvero, per dirlo ancora con la Kristeva, Urmuz è più o meno consapevolmente preso nella «pratica significante» che soggiace a qualsiasi costituzione del testo e al processo di allegorizzazione della lettura che da esso deriva. Inoltre, il richiamo ironico al «Nirvana» di matrice schopenhaueriana, conferma la visione parodistica, di un «mondo come volontà di rappresentazione», ad opera di uno scrittore-lettore che si muove disinvoltamente ai margini del sapere enciclopedico nel tentativo impossibile di formalizzare la cultura occidentale.
In questa prospettiva Pâlnia şi Stamate indica l’altra faccia, l’altra «metà della cosa in sè» kantiana della «prima parte del romanzo», rivelando che «la bella apparenza» dell’arte richiede la precisione ossessiva «col compasso», la lucidità d’espressione dell’autore alle prese con la costruzione del testo. In questo senso Marin Mincu poteva scrivere senza esitazione che Urmuz è un om de texte, un operatore testuale avant la lettre, che convoglia nel movimento della narrazione il gioco combinatorio, l’equivoco dei livelli semantici, mediante la ridondanza, cioè quella ricchezza connotativa e connotante del messaggio comunicativo che sta alla base del discorso poetico [21].

La tematica della legge e i valori burocratici

Un altro aspetto che la scrittura urmuziana prende di mira sono i valori burocratici, o meglio, come afferma Balotă, il processo alla Legge. Dalle notizie biografiche che già conosciamo, è noto che l’autore ha svolto la professione di giudice in provincia, prima di esercitare quella di cancelliere e copiatore di incartamenti presso l’Alta Corte di Cassazione di Bucarest. Secondo la testimonianza della sorella sembra che Urmuz fosse un giudice molto severo che riconosceva intuitivamente la finzione recitativa, e ai suoi occhi, patetica, di alcuni imputati, i quali mettevano in scena con istrionica maestria, nel teatro del tribunale, la loro pretesa innocenza. La sorella era alquanto sorpresa dall’atteggiamento apparentemente crudele del fratello, poiché nella vita di tutti i giorni, in ambito familiare, si presentava di indole buona, conciliante e molto affettuoso. Indubbiamente l’attività giudiziaria della prassi quotidiana ha avuto modo di riflettersi nella dinamica compositiva dei suoi testi, lasciando strascichi significanti, tarli burocratici, appartenenti al codice linguistico del fòro. In tale contesto, Nicolae Balotă afferma che la «sfera della Legge ricopre la figura autoritaria del Padre. L’autorità del Padre è il simbolo di tutte le autorità» [22]. E si annoverano «numerosi indizi – scrive sempre il critico romeno – della rivolta, della sovversione del Figlio contro le Leggi e contro il Padre» [23]. Pertanto le prose urmuziane si possono leggere anche come «piccoli processi», spogliati dalla loro portata tragica e solenne, che manifestano un umorismo nero quasi kafkiano. Tutti i testi urmuziani sono impregnati di terminologia burocratica ed è quasi impossibile ripercorrerli singolarmente dal momento che contribuiscono alla configurazione di uno stesso sviluppo narrativo, che dà luogo alla interpretazione su accennata da Balotă.
È evidente che nel fòro interiore della scrittura si attualizza un conflitto edipico, instaurato dalla figura paterna, in cui il ruolo di figlio represso dal padre gioca una parte del tutto particolare nella sceneggiatura del «romanzo» personale. Ma quest’aspetto riguarda solo l’immaginario e non l’aspetto strutturale e simbolico del processo compositivo dell’opera di Urmuz. Il processo e La colonia penale di Kafka hanno molti punti di contatto con le prose urmuziane, sia dal punto di vista tematico che autobiografico; ma ciò che non bisogna perdere di vista, è che, nella trama testuale, le ossessioni personali degli autori, come specchio di traumi, sconfitte e angosce, vanno lette anche in chiave di finzione, e spesso producono effetti comici che danno luogo a risultati originali elaborando il materiale onirico che emerge dall’inconscio. Si vuole semplicemente constatare che l’uso di determinate terminologie, «idioletti», come li chiama Barthes, non necessariamente appartenenti alla sfera letteraria propriamente detta, scatenano improvvise invenzioni umoristiche, «divertenti» percorsi di lettura, eludendo le catene repressive del Super-Io e facendo zampillare le risorse dell’Es [24].

La terza parte del romanzo

È giunto il momento di iniziare a leggere la terza parte del romanzo:

«III
Într-una din zile, lui Stamate, ocupat fiind cu obişnuitele sale cercetări filozofice, i se păru, o clipită, că a pus mâna şi pe cealaltă jumătate a „lucrului în sine” [25], când fu distras de o voce femeiască, o voce de sirenă, ce mergea drept la inimă şi se auzea în depărtare, pierzându-se ca un ecou.
Alergând de urgenţă la tubul de comunicaţie, Stamate, spre marea lui înmărmurire, văzu cum, în aerul cald şi îmbălsămat al serii, o sirenă cu gesturi şi voce seducătoare îşi întindea corpul lasciv pe nisipul fierbinte al mării... În luptă puternică cu sine, pentru a putea să nu cadă pradă tentaţiei, Stamate închirie atunci în grabă o corabie şi, pornind în larg, îşi astupă urechile cu ceară împreună cu toţi matrozii...» (p. 79)

«III
Un giorno, a Stamate, mentre era dedito alle sue consuete ricerche filosofiche, parve, per un istante, di aver messo la mano sull’altra metà della “cosa in sé”, quando all’improvviso venne distratto da una voce femminea, una voce di sirena che puntava dritto al cuore e si sentiva in lontananza, prima di perdersi come un’eco.
Precipitandosi al tubo di comunicazione, Stamate vide, con sua grande meraviglia, nell’aria calda e imbalsamata della sera, una sirena dalla voce e dai gesti seducenti distendere il suo corpo lascivo sulla sabbia rovente del mare... Ingaggiando allora una lotta furibonda con se stesso per non cadere facile preda della tentazione, Stamate noleggiò in tutta fretta una nave e, nel prendere il largo, si tappò le orecchie di cera insieme a quelle di tutti i marinai...»

È un’allusione ironica all’Odissea (XII). Urmuz offre un intreccio tra oralità e scrittura nella variazione della metafora: Stamate non si fa più legare all’albero della nave per ascoltare il canto delle sirene, ma si tappa anche lui le orecchie con la cera come i suoi marinai. La stessa cosa accade ne Il silenzio delle Sirene di Kafka. Ecco il mirabile testo:

«Per dimostrare che anche mezzi insufficienti, persino puerili, possono procurare la salvezza:
Per difendersi dalle Sirene, Ulisse si empì le orecchie di cera e si fece incatenare all’albero maestro. Qualcosa di simile avrebbero potuto fare beninteso da sempre tutti i viaggiatori, tranne quelli che le Sirene adescavano già da lontano, ma in tutto il mondo si sapeva che ciò era assolutamente inutile. Il canto delle Sirene penetrava dappertutto, e la passione dei sedotti avrebbe spezzato altro che catene e alberi maestri! Ma non a questo pensò Ulisse, benché forse ne avesse sentito parlare. Aveva piena fiducia in quella manciata di cera e nei nodi delle catene e, con gioia innocente per quei suoi mezzucci, navigò incontro alle Sirene.
Sennonché, le Sirene possiedono un’arma ancora più terribile del canto, cioè il loro silenzio. Non è avvenuto, no, ma si potrebbe pensare che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma certo non dal loro silenzio. Nessun mortale può resistere al sentimento di averle sconfitte con la propria forza e al travolgente orgoglio che ne deriva.
Di fatti all’arrivo di Ulisse le potenti cantatrici non cantarono, sia credendo che tanto avversario si potesse sopraffare solo col silenzio, sia dimenticando affatto di cantare alla vista della beatitudine che spirava il viso di Ulisse, il quale non pensava ad altro che a cera e catene.
Egli invece, diremo così, non udì il loro silenzio, credette che cantassero e immaginò che lui solo fosse preservato dall’udirle. Di sfuggita le vide girare il collo, respirare profondamente, notò i loro occhi pieni di lacrime, le labbra socchiuse, e reputò che tutto ciò facesse parte delle melodie che, non udite, si perdevano intorno a lui. Ma tutto ciò sfiorò soltanto il suo sguardo fisso alla lontananza, le Sirene scomparvero, per così dire, di fronte alla sua risolutezza, e proprio quando era loro più vicino, egli non sapeva più nulla di loro.
Esse invece, più belle che mai, si stirarono, si girarono, esposero al vento i terrificanti capelli sciolti e allargarono gli artigli sopra le rocce. Non avevano più voglia di sedurre, volevano soltanto ghermire il più a lungo possibile lo splendore riflesso dagli occhi di Ulisse.
Se le Sirene fossero esseri coscienti, quella volta sarebbero rimaste annientate. Sopravvissero invece, e avvenne soltanto che Ulisse potesse scampare.
La tradizione però aggiunge qui ancora un’appendice. Ulisse, dicono, era così ricco di astuzia, era una tale volpe, che nemmeno il Fato poteva penetrare nel suo cuore. Può darsi – benché ciò non riesca comprensibile alla mente umana – che realmente si sia accorto che le Sirene tacevano e in un certo qual modo abbia soltanto opposto come scudo a loro e agli dèi la sopra descritta finzione [26].

Rispetto alle Sirene di Kafka, la sirena di Urmuz esibisce un comportamento diverso di fronte agli occhi di Stamate-Odisseo:

«Sirena deveni însă tot mai provocatoare... Ea îl urmări pe întinsul apelor, cu cântări şi gesturi perverse, până ce o duzină de Driade, Nereide şi Tritoni avură tot timpul să se adune din larguri şi adâncuri şi să aducă pe o superbă cochilie de sidef o inocentă şi decentă pâlnie ruginită.
Planul de seducţiune al seriosului şi castului filozof putea fi astfel considerat ca reuşit. Abia avu el timpul să se furişeze la tubul de comunicaţie, când zânele mării îi şi depuseră, graţios, pâlnia în preajma locuinţei sale, apoi, uşoare, zglobii, în râsete şi chiote nebune, dispărură cu toate pe întinsul apelor.
Confuz, înnebunit, dezagregat, Stamate abia putu să apară cu căruciorul prin canal... Fără a-şi pierde însă cu totul sângele rece, azvârli el de câteva ori cu ţărâna asupra pâlniei şi, după ce se ospăta cu puţină fiertură de ştevie, se aruncă, din diplomaţie, cu faţa la pământ, rămânând astfel în nesimţire timp de opt zile libere, termenul necesar ce, după procedura civilă, credea dânsul că trebuia să treacă pentru a putea fi pus în posesiunea obiectului» [27].(p. 80)

«Ma la sirena divenne sempre più provocante... Si mise a inseguirlo sulla distesa delle acque, con canti e gesti perversi, tant’è che una dozzina di Driadi, Nereidi e Tritoni ebbero tutto il tempo di venirsene dal largo e risalire insieme dagli abissi marini per portare, su una superba conchiglia di madreperla un innocente e decente imbuto arrugginito».

Ritorna il gioco dell’èkphrasis con il dipinto di Botticelli la Nascita di Venere. Al posto della Venere Urania come nella Fuchsiade appare ironicamente l’imbuto, un nome che non è un nome, un «simbolo».
«Il piano di seduzione del casto e serio filosofo poteva dunque considerarsi riuscito.  Ebbe giusto il tempo di infilarsi furtivamente nel tubo di comunicazione per accorgersi che le fate del mare gli avevano già deposto con grazia l’imbuto vicino alla sua dimora, e poi vederle tutte insieme, leggiadre, vivaci, sparire tra strilli e folli scoppi di risa, scomparire nell’immensità delle acque.
Confuso, impazzito, ridotto a pezzi, Stamate ebbe appena la forza di riapparire col carrozzino sul canale... E senza perdere il sangue freddo, si mise a gettare qualche manciata di terra sull’imbuto e una volta rinvigorito con un po’ di decotto di acetosella, si prosternò diplomaticamente con la faccia a terra, rimanendo così in uno stato totale di incoscienza, tempo otto giorni festivi, termine necessario, come egli credeva, per entrare in possesso dell’oggetto, secondo la procedura civile».
Stamate è confuso e impazzito come l’amante neoplatonico, ridotto a pezzi come lo stàmnos, il recipiente funebre antropomorfo. I livelli della narrazione sono determinati dall’uso degli aggettivi che caratterizzano la figura di Stamate.
La domanda che ci possiamo fare ora è la seguente: come si fa ad «entrare in possesso dell’oggetto»? La risposta giusta è dell’ordine dell’impossibile, cioè la risposta sarebbe che si entra in possesso dell’oggetto solo grazie alla magia del fantasma, ossia solo grazie al potere evocativo della parola. Immaginiamo, come ci spinge a fare Urmuz, una relazione affettiva con qualcuno da cui siamo terribilmente attratti. Supponiamo che questa persona – perché di questo si tratta, non di semplici oggetti – sia l’oggetto reale verso il quale si orienta la pulsione sessuale. Stamate (cioè l’Io di Stamate) frequenta questa persona fino a incorporarla a poco a poco al suo interno e a trasformarla in una parte di sé. Mentre la creatura amata è all’interno, cioè è al nostro interno (all’interno di Stamate, di Urmuz o di chiunque altro) la trattiamo con un amore ancora più intenso di quello che avvertiamo quando era reale. Perché? Perché è divenuta una parte dell’Io. Stamate la ama in quanto sé stesso. Amare l’altro è sempre amare sé stessi. È a questo punto che la persona amata cessa di essere all’esterno di Stamate e vive in Stamate in forma di oggetto fantasmato che ravviva costantemente le sue pulsioni sessuali, che sono sia erotiche che conoscitive. Perciò, la persona reale esiste ormai per Stamate soltanto nella forma di fantasma, perfino se per un altro verso Stamate continua a riconoscerle un’autonoma esistenza nel mondo. Di conseguenza, quando noi amiamo, noi amiamo sempre un essere misto fatto simultaneamente della stoffa del fantasma e della persona reale esistente al di fuori di noi. La relazione amorosa, come quella dell’amicizia, nelle «novelle»di Urmuz,è dunque fondata su un fantasma che appaga la sete della pulsione e che procura un piacere parziale che possiamo definire in senso molto ampio «sessuale», includendo in questo campo anche il sesso delle creature di inchiostro di Urmuz. La questione però è che noi ameremo o odieremo il nostro prossimo secondo l’atteggiamento d’amore o di odio che abbiamo verso il suo doppio fantasmato e che ormai si trova al nostro interno dipinto sulle pareti del cuore, come dicevano i poeti siciliani e i «fedeli d’amore». Tutte le relazioni affettive, le nostre e quelle degli altri si adattano strettamente allo stampo del fantasma [28]. Questo fantasma mobilita l’attività delle pulsioni sessuali e procura piacere, ma, come vedremo con Stamate, anche dispiacere. Anzi, con Stamate, assisteremo in presa diretta all’attraversamento di questo fantasma. Se il lettore di Urmuz ne trarrà piacere o dispiacere sarà solo merito suo… o forse del suo fantasma. Leggiamo:

«După această trecere de timp, reluându-şi ocupaţiunile cotidiane şi poziţiunea verticală, Stamate se simţi cu totul renăscut. Niciodată nu cunoscuse el până atunci divinii fiori ai dragostei. Se simţea acum mai bun, mai îngăduitor, şi turburarea ce o încerca la vederea acestei pâlnii îl făcea să se bucure şi totodată să sufere şi să plângă ca un copil...
O scutură cu un otrep şi, după ce îi unse găurile mai principale cu tinctură de iod, o luă cu sine şi, cu legături de flori şi dantele, o fixă alături şi paralel cu tubul de comunicaţie, şi, tot atunci, pentru prima oară, istovit de emoţie, trecu printr-însa [29], ca fulgerul, şi îi fură o sărutare.
Pentru Stamate, pâlnia deveni de atunci un simbol. Era singura fiinţă de sex femeiesc cu un tub de comunicaţie ce i-ar fi permis să satisfacă şi cerinţele dragostei, şi interesele superioare ale ştiinţei. Uitându-şi cu totul sacrele îndatoriri de tată şi de soţ, Stamate începu să-şi taie în fiecare noapte, cu foarfecă, legăturile ce-l ţineau ataşat de ţăruş şi, spre a putea da frâu liber dragostei sale neţărmurite, începu să treacă din ce în ce mai des prin interiorul pâlniei, făcându-şi vânt în ea de pe o trambulină construită expres şi coborându-se apoi în mâini, cu o iuţeală vertiginoasă, pe o scară mobilă de lemn, la capătul căreia îşi rezuma rezultatul observărilor sale în afară». (pp. 80-81)

«Dopo che fu decorso questo lasso di tempo, Stamate riprese le sue attività quotidiane e la posizione verticale, sentendosi come completamente rinato. Mai prima di allora aveva conosciuto i divini brividi dell’amore. Si sentiva ora migliore, più tollerante, e il turbamento che provava alla vista di questo imbuto lo faceva gioire, e allo stesso tempo piangere e soffrire come un bambino...
La lucidò con un cencio e, dopo averle unto i fori principali con tintura di iodio, la prese con sé e la fissò con ghirlande di fiori e merletti, vicino e parallelamente al tubo di comunicazione; e fu allora che, per la prima volta, affranto dall’emozione, la traversò come un fulmine, e le carpì un bacio».

Il simbolo de «L’imbuto»

Anche se Pâlnia, «L’imbuto», è maschile in italiano si è preferito, nella traduzione, conservare il femminile del romeno: «la lucidò» invece che «lo lucidò». Ormai si comprende che Pâlnia è una metonimia che garantisce il passaggio da un genere all’altro, da una storia ad un’altra, da un libro ad un altro, da un’entità femminea a un’altra. Essa designa semplicemente l’oggetto d’amore fantasmato, il punto in cui l’immagine o il fantasma comunica con l’intelligenza scrittoria dell’autore. Il suo nome è un nome giusto conforme alle sue proprietà estetiche secondo l’indicazione data Urmuz. Il nome è una «forma senza fondo» (Maiorescu), anzi è un dire la forma, una dare luogo attraverso la forma a ciò che si annuncia nel nome. Il cancellarsi dell’articolo dovrebbe sospendere per un istante la referenzialità all’imbuto e offrirsi nella sua differenza significante. Pâlnia nella narrazione non ha alcuna determinazione propria e neanche alcuna identità a sé. È come se il referente della sua referenza non esistesse. Pâlnia vive solo nella regolarità della sua designazione, nell’ordine del proprio discorso. Questa è la sua realtà, una realtà fatta di parola, come dice Urmuz, un «simbolo».
«Per Stamate, l’imbuto divenne da allora in poi un simbolo. Era il solo essere di sesso femminile che gli avrebbe consentito di soddisfare insieme le richieste dell’amore e gli interessi superiori della scienza. Ormai completamente dimentico dei sacri doveri di padre e di marito, Stamate iniziò ogni notte a recidere, con le forbici, i vincoli che lo tenevano attaccato al palo e, per poter dare libero sfogo al suo amore illimitato, incominciò a passare sempre più spesso all’interno dell’imbuto, prendendo lo slancio da un trampolino lì appositamente costruito; poi si mandava giù, a velocità vertiginosa, con le mani, su una scala di legno mobile, ai piedi della quale riassumeva, una volta uscito fuori, il risultato delle sue osservazioni».
Ciò che si può ora notare è che Urmuz ha architettato non solo per il suo eroe, ma soprattutto per il suo lettore, un «piano di seduzione», una trappola testuale che fa leva sui fantasmi di ciascuno. Il lettore modello di Urmuz deve essere un lettore consapevole e accorto che sappia cogliere le sottili allusioni inscritte e condensate nella concisione straordinaria degli enunciati narrativi. Le Pagine bizzarre sono in un certo senso omologhe ai sogni trascritti da Freud. Rispondono alle stesse regole del gioco: «condensazione» e «spostamento», ossia sono figure retoriche come la metafora e la metonimia. L’interpretazione dei simboli fa parte del processo stesso dell’allegorizzazione e quindi dell’atto della scrittura testuale.
Nella «terza parte del romanzo» il filosofo Stamate cerca di spingere lo sguardo sulla faccia nascosta della «cosa in sé», ovvero cerca kantianamente di sforzare la vista oltre il limite, in quello spazio a-spaziale, in quella soglia invalicabile che contraddistingue il compito etico della filosofia: lo straordinario sforzo del pensiero di varcare il non-finito nella prospettiva estetica indicata da Kant. Il tutto è organizzato con i mezzi della prosa aritotelico-galileiana che delimitano l’immagine di lettura nei suoi schemi propri che sono quelli visivi, e che localizzano l’attenzione cognitiva sull’organo che produce la vista, cioè l’occhio.  Ma il «casto e serio filosofo», recita il testo, viene distratto dalla voce, dall’eco della sirena, attraverso la melodia sonora del canto. Come voleva la tradizione rapsodica, Stamate è ancora incantato e sedotto dalla viva voce, dalla presenza a se stessa della phoné. Seguendo lo schema percettivo del «romanzo», il lettore, invece, viene attratto dalla sequenza visiva dei «gesti perversi e lascivi» della ninfa marina, cioè dalla compenetrazione simultaneamente emotiva e cognitiva della «visione» che si è prodotta dopo la rivoluzione della scrittura scientifica, della carta stampata, della potenza della protesi in epoca moderna, all’insegna di Galileo. Infatti, la risposta immediata del filosofo Stamate, come quella del lettore di Urmuz, è di andare a vedere nel «tubo-telescopio» «di comunicazione» il «nuovo» paesaggio conoscitivo messo in campo dal mezzo tecnico della scrittura, cioè: «una sirena dalla voce e dai gesti seducenti [che] distende il suo corpo lascivo sulla sabbia rovente del mare». 
La costruzione della sequenza narrativa sfrutta al massimo la tradizione letteraria della classicità: dal mito di Narciso di tradizione ovidiana (autorispecchiamento simbolico dell’eroe mitologico nella poesia, voce femminea di una ninfa che si disperde nelle lontananze in un’eco) a quello omerico di Ulisse. Ma prima di soffermarci su quest’altro aspetto, è degno di nota osservare ancora come il personaggio urmuziano ingaggi una furente lotta con se stesso per non cadere facile preda della tentazione erotico-conoscitiva che è indotta, sia da una percezione visiva che da una uditiva.

Tornando più da vicino al testo di Urmuz, possiamo notare come Stamate-Ulisse non si faccia più legare all’albero della nave per ascoltare il canto delle sirene, come voleva l’Odissea, ma si tappi anche lui le orecchie con la cera insieme ai suoi marinai. Si può dire, quindi, che, con il mutamento delle leggi compositive avvenuto nel corso dei secoli, Urmuz è consapevole di adoperare non solo tecniche di comunicazione diverse rispetto a quelle della tradizione orale, ma soprattutto mostra che anche i motivi consacrati dalla tradizione letteraria hanno subito uno slittamento di natura semantica lungo la loro trasmissione storica. La riscrittura effettuata da Urmuz rispetto all’originale non è semplicemente un travisamento, un’infedeltà, o una dissimulazione, ma è, come si è visto con Kafka, il prodotto di una retorica, di un lavoro di traslazione da un dispositivo comunicativo a un altro. La metafora proveniente dall’Odissea si scioglie nei suoi elementi metonimici per dar vita alle avventure di Pâlnia e Stamate lasciando una traccia di questo processo di traduzione, supplemento, restituzione arguta di un evento che si è prodotto e che ha segnato una svolta «bizzarra» a tutta la vicenda di Stamate: il passaggio da una pratica comunicativa di trasmissione e conservazione del sapere ad un’altra. Questo è uno degli aspetti della retorica letteraria di Urmuz: la metafora di Ulisse si è sciolta nella metonimia di Stamate. E Stamate non è più un eroe «orale», ma un personaggio effetto della scrittura che convoglia l’attenzione del lettore entro schemi puramente visivi, nella cultura dello sguardo, dell’occhio vivente.
Il mutamento operato da Urmuz ha comportato anche uno slittamento di prospettiva, un esito che è a dir poco sorprendente. Cerchiamo ancora di chiarire questo momento di «stupore». Sempre nel testo il lettore tradizionale di romanzi si aspetterebbe forse di veder emergere da questo paesaggio post-mitologico, su «una superba conchiglia di madreperla», La Venere di Botticelli, la Venere Urania del famosissimo manifesto del rinascimento pittorico fiorentino (come compare esplicitamente nella Fuchsiade); invece il lettore (e anche Stamate), nel ricco gioco delle allusioni e dei rimandi figurativi, si trova davanti agli occhi «un innocente e decente imbuto arrugginito», «un simbolo», scrive argutamente l’autore: «il solo essere di sesso femminile che gli avrebbe consentito di soddisfare insieme le esigenze dell’amore e gli interessi superiori della scienza».
In realtà Pâlnia, anche se si può presentare come una creatura fatta a immagine sessuale della donna, proprio per il suo carattere di simbolo della conoscenza perfetta, di amorosa congiunzione con la sua immagine, diventa per Stamate il luogo dell’impossibile unione sessuale. Un’unione impossibile ma che grazie alla letteratura di Urmuz diventa paradossalmente possibile con un’imago della mente trasformata in oggetto d’amore fantasmato. Tuttavia, finita l’allucinazione e rotto l’incanto, Urmuz testimonia l’infrangersi del sogno rinascimentale del neoplatonismo pittorico di Botticelli e di tutta una tradizione che in epoca moderna con la rivoluzione scientifica è venuta a cadere: «Le grandi felicità sono sempre di breve durata».

La quarta parte del romanzo

Con questa constatazione di tipo realistico, «Le grandi felicità sono sempre di breve durata»,  inizia la quarta e ultima parte del romanzo:

«IV
Fericirile mari sunt totdeauna de scurtă durată [30]... într-una din nopţi, Stamate, venind spre a-şi face obişnuita-i datorie sentimentală, constată cu uimire şi dezamăgire că, din cauze încă nepătrunse, orificiul de ieşire al pâlniei se strâmtase într-atâta, încât orice comunicaţie prin el era imposibilă [31]. Nedumerit şi totuşi bănuitor, se puse la pândă, şi a doua noapte, necrezându-şi ochilor, văzu cu groază cum Bufty, urcat sus, gâfâind, fusese lăsat să intre şi să treacă [32]. Pietrificat, Stamate abia avu puterea să se ducă să se lege singur la ţăruş; a doua zi însă luă o hotărâre supremă.
Mai întâi îşi îmbrăţişa soţia devotată şi, după ce-i dădu în grabă o vopsea, o cusu într-un sac impermeabil, în scopul de a păstra mai departe, intactă, tradiţiunea culturală a familiei. După aceea, în mijlocul unei nopţi reci şi întunecoase, luă el pâlnia şi pe Bufty şi, aruncându-i într-un tramvai, ce tocmai trecea la întâmplare, le făcu vânt cu dispreţ în Nirvana [33]. Totuşi, mai târziu, sentimentul patern învinse, şi Stamate, graţie calculelor şi combinaţiilor sale chimice, reuşi să facă cu timpul, prin puterea ştiinţei, ca Bufty să ocupe acolo un post de subşef de birou.
Cât despre eroul nostru, Stamate, pentru ultima oară cătând prin tubul de comunicaţie, mai privi o dată Kosmosul cu ironie şi indulgenţă. Suindu-se apoi pentru totdeauna în căruciorul cu manivelă, luă direcţia spre capătul misterios al canalului şi, mişcând manivela cu o stăruinţă crescândă, aleargă şi astăzi, nebun, micşorându-şi mereu volumul, cu scopul de a putea odată pătrunde şi dispărea în infinitul mic [34]». (pp. 81-83)

«IV
Le grandi felicità sono sempre di breve durata... Una notte, Stamate, venuto per compiere il suo consueto dovere sentimentale, constatò con sorpresa e delusione che, per cause ancora sconosciute, l’orifizio d’uscita dell’imbuto si era ristretto a tal punto, che ogni sua comunicazione era diventata impossibile. Perplesso, e non di meno sospettoso, si mise in agguato, e la notte seguente, non credendo ai suoi occhi, con orrore vide come Bufty, ansimante, issatosi su, aveva ricevuto il permesso di entrare e di passarvi. Impietrito, Stamate ebbe appena la forza di andare da solo a legarsi al palo; ma, il giorno dopo, prese una suprema decisione.
La prima cosa che fece, fu di abbracciare la moglie devota e, dopo averle dato in fretta e furia una mano di vernice, la cucì all’interno di un sacco impermeabile per serbare più intatta nel tempo la tradizione culturale della famiglia. Poi, nel cuore della notte fredda e buia, raccolse l’imbuto e Bufty e, buttandoli su una vettura pubblica che proprio lì, per caso, in quell’istante stava passando, li scagliò con disprezzo nel Nirvana. Purtroppo, più tardi, il sentimento paterno prevalse, e Stamate, grazie ai suoi calcoli e alle sue combinazioni chimiche, riuscì ad ottenere che nel tempo, grazie ai prodigi della scienza, Bufty occupasse laggiù un posto di vicecapo ufficio».

Si è capito ormai che la sola scienza che interessa Urmuz è la «chimica» della mente e non quella della scienza esatta.

«Quanto al nostro eroe, Stamate, interrogando con lo sguardo per l’ultima volta il tubo di comunicazione, guardò di nuovo il Cosmo con ironia e indulgenza.
Poi, salendo per sempre sul carrozzino a manovella, si diresse verso l’estremità misteriosa del canale e, girando la manovella con crescente ostinazione – ancora oggi lo si vede correre follemente –, riduce senza posa il suo volume, nella speranza di poter finalmente penetrare e scomparire nell’infinitamente piccolo».

La chiusa del romanzo con infinitul mic è indubbiamente di memoria pascaliana. È un richiamo riconducibile all’antitesi di Pascal tra esprit de géometrie e esprit de finesse. Il primo si muove solo tra figure finite e determinate; il secondo riguarda l’intuito, il sentimento incerto e oscillante di fronte alle cose del mondo. L’uomo per Urmuz si troverebbe dunque come sospeso tra due infiniti: quello infinitamente grande e quello infinitamente piccolo, un universo doppiamente infinito e inconoscibile, che le esistenze dei personaggi di Urmuz sembrano percorrere ancora oggi sotto i nostri occhi.
Riprendiamo ancora una volta la questione sollevata da Urmuz da un’altra prospettiva, quella dell’amore di sapere. Abbiamo visto che nella terza parte del romanzo, Stamate si comporta in conformità al suo ruolo di filosofo neoplatonico, come se in realtà stesse contemplando, estasiato, La nascita di Venere di Botticelli, quella – come riporta la Fuchsiade – nata «dalle bianche spume del mare». «Confuso», appena la vede, è come impazzito, e dopo un breve periodo di iniziazione e di digiuno, si sentirà «completamente rinato». Per la prima volta conosce «i divini brividi dell’amore», si libera dai «vincoli che lo tenevano attaccato» e darà poi liberamente «sfogo al suo amore illimitato». Stamate è dunque l’autentico filosofo del neoplatonismo fiorentino che si appresta a raccontare per signa la fenomenologia del suo innamoramento [35]. La quadripartizione dei vani che compongono l’ambientazione del «romanzo», compreso «il tubo di comunicazione», suggerisce, analogicamente, le celle del cuore che ricevono tutte le correnti visive trasmesse dall’occhio. Stamate per guadagnarsi da vivere «scatta delle istantanee» nei luoghi di culto, cioè produce nella mente dei fantasmi comprensibili (phantasai kataleptiche) che il cuore, avvolto dallo pneuma, imprime in forma di immagini come una «pintura» [36]. Allo stesso modo Stamate, mediante la tecnica dell’èkphrasis, cattura il quadro di Botticelli fissandolo nello pneuma, «vicino e parallelamente al tubo di comunicazione». Il contatto avviene in una porzione di spazio che ha come vertice l’occhio e come base l’orizzonte visibile, riattualizzando quindi la forma conica dell’imbuto. Da lì, l’eroe urmuziano riesce a vedere «la sirena seducente e perversa», «le fate del mare», insomma tutti quei luoghi erotici della seduzione che troveranno spazio nella sua immaginazione e che si tradurranno in linguaggio fantastico o fantasmatico.
Come la «navicella dell’ingegno» del Purgatorio di Dante troverà la sua rappresentazione nel «carrozzino a manovella» urmuziano, così i dati forniti dall’immaginazione e dalla ragione si potranno cogliere e forse intendere attraverso la logica dei fantasmi che si sono sedimentati e stratificati nella memoria culturale di Urmuz. Purtroppo, come recita la «IV parte del romanzo»: «le grandi felicità sono sempre di breve durata», poiché il figlio Bufty – xenonimia di risonanza inglese, come si è visto, che cela in romeno il termine scherzoso di buftea (bambino grasso), oppure il regionalismo buft (pancia, ventre di uomo o animale) – introducendosi più volte nel medium conoscitivo ed erotico, ha ridotto così tanto l’orifizio d’uscita dell’imbuto, da rendere impossibile ogni comunicazione. Ecco così infrangersi, come in Fuchsiade un altro sogno di memoria botticelliana. «Il casto e serio filosofo» non potrà più «soddisfare insieme le richieste dell’amore e gli interessi superiori della scienza». Non gli resterà altro che disperdersi nelle correnti pneumatiche col suo «carrozzino a manovella», «ridursi di volume» – giù «alla destra» del cuore – e sprofondare sempre più «verso l’estremità misteriosa del canale».

Il desiderio di Stamate si pone dunque come desiderio di sapere che tende oltre il sapere. Stamate come Socrate è dominato da quella passione della verità che non è meno mortale di quella di Narciso. Urmuz, lettore molto attento di Freud, attraverso i protagonisti delle Pagine bizzarre, mette in discussione tutto il sapere della tradizione filosofica occidentale per far sì che l’uomo si renda disponibile ad accogliere il fatto che la verità è sempre altra e che il sapere dell’Io è limitato. Questa verità altra si mostra a Stamate seguendo le tracce, gli scarti, i vuoti in cui si rivela il nome di Pâlnia. Pâlnia è una formazione dell’inconscio. Rotto il suo incantesimo, la verità appare, con tutta la problematica filosofica che le è propria, come il momento centrale dell’interpretazione. Pâlnia rappresenta in queste pagine di Urmuz il suo «niente» di sessuale. Se Pâlnia sembrava avere il suo centro nella scoperta della sessualità di Stamate, ora ciò che conta è l’Altro che parla in queste scritture di Urmuz. Lo scandalo che apre Pâlnia non è tanto la promozione sessuale del filosofo quanto l’abisso che ha aperto al pensiero e quanto poi questo pensiero si faccia sentire dall’abisso. Pâlnia è un oggetto perduto, non è l’oggetto genitale, ma è un qualcosa che va al di là dell’oggetto stesso, di questo oggetto di cui Stamate porta un’infinita nostalgia e che lo riguarda da vicino e che è lo stesso che i filosofi greci hanno chiamato Eros. Pâlnia dunque raffigura l’oggetto del desiderio. Esso è il fantasma che orienta il desiderio di Stamate, è il centro di gravità verso il quale tende la spinta desiderante del soggetto. Si tratta di un’eccedenza che non si presenta se non in maniera velata. Quello che fa Pâlnia è semplicemente vivificare il desiderio di Stamate, sottraendosi alla rappresentazione. È un’istanza dinamica e fantasmatica, e come dice Urmuz è soprattutto un simbolo perché funge da supporto a ciò che costitutivamente manca. Pâlnia è essenzialmente voce e sguardo, un oggetto pulsionale, da sempre perduto, che affonda abissalmente in un nome.



Giovanni Rotiroti
(n. 2, febbraio 2014, anno IV)

NOTE

1. G. Manganelli, Centuria. Cento piccoli romanzi fiume, Milano, Adelphi, 1995.
2. Prendo in prestito il termine «sotterranei del testo» da Ana Olos, nom de plume urmuziano Anagaia, straordinaria lettrice di Pâlnia şi Stamate, che si è avventurata coraggiosamente nell’attraversamento immaginario e fantastico dell’imbuto del romanzo Pâlnia e Stamate, privilegiando una lettura di stampo esoterico, occultistico e massonico in riferimento al contesto storico-sociale romeno al tempo in cui viveva Urmuz. Anagaia, În subteranele textului. «Pâlnia şi Stamate» (Introducere în urmuzologie II), Baia Mare, Editura Umbria, 1999. Segnalo anche due studi su Urmuz che ho molto apprezzato: Mircea Ţuglea, Urmuz sau impasul non-comunicării, in Paul Celan şi avangardismul românesc, Constanţa, Pontica, 2007, pp. 26-52 e Corin Braga, Urmuz. Mecanismele onirice ale prozei absurde, in Psihobiografii, Bucarest, Polirom, 2011, pp. 29-45.
3. «prin care <adeseori> uneori iese fum şi <duhoare miasmatică> miasme puturoase şi prin care în timpul zilei se poate vedea forma pământului sub Fenicieni, iar în timpul nopţei: prima tăcere, Auto-Kosmosul şi infinitul mare alături de cel mic...», Urmuz, Schiţe şi nuvele aproape… futuriste, cit., p. 76 nota 7.
4. «Sute de covoare de preţ, <ţesute cu azurul cerului de Bosfor>, nenumărate arme vechi, încă pătate de sânge eroic, bogate ghirlande de roze, mirth şi temenele căptuşesc şi ornează imensele colonade <ale sălii>, iar în mijlocul sălii, pe un piedestal de fildeş, o casetă de aur se află închisă cu mai multe chei secrete. – În ea se găseşte hatâr şi tembelism „vechi şi veritabil”. // E de reţinut că pereţii acestei încăperi nu au fost nici zugrăviţi nici tapetaţi, căci, conform obiceiului oriental, ei sunt sulemeniţi în fiecare dimineaţă, iar la fiecare interval de oră sunt măsuraţi cu compasul, căci aceşti pereţi scad mereu.», Ivi, p. 77 nota 9.
5  Erodoto, Le Storie. Libri III-IV, Introduzione, traduzione e note di Fulvio Barberis, Milano, Garzanti, 1989, pp. 245-247.
6. M. Eliade, De Zalmoxis à Gengis-Khan. Études comparatives sur les religions et le folklore de la Dacie et de l’Europe Orientale, Paris, Payot, 1970.
7. Su quest’ultimo aspetto si veda di Marin Mincu, Eseu despre textul poetic II, Bucarest, Cartea Românească, 1986.
8. G. Călinescu, Principii de estetică, Bucarest, Editura pentru Literatura, 1968.
9. Sulla jouissance si veda la voce godimento nel Dizionario di psicanalisi, a cura di R. Chemama e B. Vandermersch, Roma, Gremese Editore, 2004, pp. 141-145.
10. R. Barthes, La Retorica Antica, Milano, Bompiani, 1972.
11. «... cu dânşii, colţ cu Infinitul – şi aruncă...», Urmuz, Schiţe şi nuvele aproape… futuriste, cit., p. 78 nota 18.
12. «În ce priveşte pe Stamate, o ocupaţie ce o exercită exclusiv şi care îl preocupă...», Ibidem nota 20.
13. «... este ca, asistând seara pe la diferite biserici la slujba religioasă a vecerniei, să ia acolo, pe furiş, diferite instantanee...», Ivi, p. 79 nota 21.
14. N. Balotă, Urmuz, Cluj, Editura Dacia, 1970, pp. 102-108 e pp. 123-126.
15. N. Balotă, Urmuz, cit., pp. 123-126.
16. S. Freud, Al di là del principio di piacere, in Opere, vol. IX, Torino, Boringhieri, 1977, p. 241.
17. E. Ionesco, Note e contronote. Scritti sul teatro, traduzione di Gian Renzo Morteo e Giovanni Moretti, Torino, Einaudi, 1965, p. 31.
18. Infatti, da questo punto di vista, il riferimento di Urmuz alla pièce teatrale di Caragiale (1880) Conul Leonida faţa cu reacţiunea (Il signor Leonida alle prese con la reazione) inscena «l’assurdo dei contenuti» (Mincu) in quanto l'azione drammatica si svolge in un dialogo animato e comico tra marito e moglie, impauriti, che congetturano, chiusi al buio all'interno della propria camera da letto, sulle cause dei «colpi di pistola» o d'arma da fuoco che si sentono all'esterno, nel timore di una rivoluzione e delle possibili conseguenze in cui i coniugi potrebbero incappare. Il dialogo coniugale, nella climax della narrazione, diventa sempre più assurdo e sconnesso, proprio come nelle migliori scene ioneschiane nella loro dinamica ma non nella loro espressione discorsiva. E alla fine, il tutto si rivela in un terribile malinteso, risolto dalla serva che svela il «mistero» dei «colpi di pistola in aria»: si era trattato del festeggiamento popolare dell'ultima di Carnevale, a casa del droghiere, all’angolo della strada.
19. Julia Kristeva, La rivoluzione del linguaggio poetico. L’avanguardia nell’ultimo scorcio del diciannovesimo secolo: Lautréamont e Mallarmé, Venezia, Marsilio, 1979.
20. Gérard Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Torino, Einaudi, 1997.
21. M. Mincu, Ion Barbu. Eseu despre textualizarea poetică, Bucureşti, Cartea Românească, 1981, pp. 282-283.
22. N. Balotă, Urmuz, cit., p. 124.
23. Ibidem.
24. Renato Barilli, Comicità di Kafka, un’interpretazione sulle tracce del pensiero freudiano, Milano, Bompiani, 1982.
25. «Într-o zi, după apusul soarelui, Stamate fiind adâncit în cercetările astronomice şi filosofice ce făcea asupra Kosmosului şi Auto-Kosmosului prin tubul de comunicaţie, i se păru o clipită că percepuse tocmai miezul ce se află ascuns sub coaja sâmburelui „lucrului în sine”, când fu distras...», Urmuz, Schiţe şi nuvele aproape… futuriste, cit., p. 79 nota 25.
26. F. Kafka, Racconti, a cura di E. Pocar, Milano, Mondadori, 1970, pp. 428-429.
27. «Alergând la spărtura Canalului ce dă în Nirvana, Stamate fu reţinut acolo de farmecul irezistibil al melodiei, până ce o Comisiune Tehnică a Serviciului hidraulic, însoţită de lucrători, avu tot timpul să spargă unul din pereţi şi să construiască acolo un lac cu ţărmi înverziţi, iar pe lac apăru înspre seară, trasă de o graţioasă lebădă albastră, o triremă în formă de cochilie, care aducea cu ea, îmbrăcată în flori, o superbă pâlnie ruginită. // Stamate, fără a-şi pierde sângele rece, azvârli de câteva ori cu ţărână asupra pâlniei şi, după ce deshămă animalul spre a-l ospăta cu fiertură de ştevie [le ultime quattro parole sono aggiunte a matita sopra il rigo], se aruncă, din diplomaţie, cu faţa la pământ şi rămase astfel în nesimţire timp de opt zile libere, termenul necesar ce, credea dânsul, că, după procedura civilă, trebuia să treacă pentru a fi pus în posesiunea acelor obiecte.», Urmuz, Schiţe şi nuvele aproape… futuriste, cit., p. 80 nota 26.
28. Sulle questioni riguardanti il fantasma dal punto di vista psicanalitico, si veda J.-D. Nasio, Le Fantasme. Le plaisir de lire Lacan, Paris, Petite Bibliotèque Payot, 2005.
29. «Din acest moment, Stamate, uitându-şi cu încetul sacrele îndatoriri de tată şi de soţ, începu să părăsească în fiecare noapte familia, trăindu-şi legăturile ce îl ţineau ataşat... iar, spre a-şi putea da întreaga libertate dragostei... să treacă regulat şi din ce în ce mai des... făcându-şi vânt într-însa...», Urmuz, Schiţe şi nuvele aproape… futuriste, cit., p. 81 nota 29.
30. «Fericirea e, însă, cum a spus odată poetul, vis amăgitor», Urmuz, Schiţe şi nuvele aproape… futuriste, cit., p. 81 nota 32.
31. «În o bună zi pâlnia, sex femeiesc capricios, neînţeles şi nestatornic, aflând de existenţa unui Bufty cu avere, încetă subit de a mai iubi pe sentimentalul Stamate şi într-una din nopţi, când eroul nostru reapăru spre a-i da obicinuita dovadă de iubire, constată cu surprindere şi dezamăgire că orificiul de ieşire... orice comunicaţie printr-însul...», Ibidem nota 33.
32. «...Stamate se aşeză la pândă şi într-o noapte văzu cu groază cum Bufty se căţăra gâfâind şi se agăţa cu disperare de marginile pâlniei, căznindu-se să intre şi să treacă. Dresă numai un Proces verbal şi se duse de se legă liniştit de ţăruş, dar a doua zi luă o hotărâre supremă.», Ibidem nota 34.
33. «După aceea, luă uşor de o ureche pe Bufty şi, ca să scape de el, îl întrebă dacă nu e dispus să primească undeva un loc în diplomaţie, ceea [ce] copilul, refuzând cu zeflemea, Stamate îl luă atunci cu putere de turul pantalonilor, îl vârî până în fund în pâlnie şi, ducându-i până la spărtura canalului, le dădu la amândoi brânci în Nirvana.», Ibidem nota 37.
34. «După aceea, se sui repede în căruciorul cu manivelă şi, făcându-şi vânt cu frenezie, luă direcţia spre capătul canalului care comunică cu infinitul şi înspre acest infinit şi astăzi aleargă de secole şi va alerga necontenit, mişcând manivela cu o stăruinţă exasperantă, obsedat de ideea fixă de a-i descoperi centrul şi de a ajunge odată la miez...», Ivi, p. 83 nota 39.
35. Su questo tema relativo ai fantasmi di tipo amoroso si veda di I. P. Culianu, Eros e magia nel Rinascimento, Milano, Il Saggiatore, 1991.
36. Come dice il notaio-poeta Giacomo da Lentini della scuola siciliana: «Com’om che pone mente /in altro exemplo pinge / la simile pintura, / così, bella, facc’eo, / che ‘nfra lo core meo / porto la tua figura» (Maravigliosamente, vv. 4-9).