Perché amiamo le donne: rileggere Mircea Cărtărescu alla luce di Boccaccio

In un’intervista rilasciata da Mircea Cărtărescu a proposito del suo libro De ce iubim femeile, apparso nel 2004 e tradotto in Italia da Bruno Mazzoni presso la casa editrice Voland, 2009, si legge: «Perché amiamo le donne è una raccolta di venti racconti che avevo scritto per la rivista “Elle”. Ognuno ha come protagonista una donna, ma non si tratta di ritratti di donne, bensì di un ritratto collettivo della femminilità. Il caso ha voluto che li unissi e li pubblicassi in un solo volume, ma è stato un caso incredibilmente fortunato. È stato il mio unico bestseller. Nella sola Romania ho venduto più di 150 mila copie». Alla domanda sul perché uno scrittore serio si sia messo a scrivere per una rivista femminile, Cărtărescu risponde: «È il mio omaggio alla parte migliore del mondo e allo stesso tempo espressione della parte femminile della mia anima. La femminilità non è di assoluto dominio delle donne. Così come la mascolinità non appartiene solo agli uomini. Mi piacciono gli uomini che hanno qualcosa di femminile e donne che hanno qualcosa di maschile. Tra gli artisti spesso si trovano persone del genere».

La grande tradizione inaugurata da Boccaccio

Scrivendo per una rivista femminile e parlando dell’amore per le donne, Cărtărescu sembra in tal modo ricongiungersi con la grande tradizione inaugurata in Europa da Giovanni Boccaccio. La maggior parte delle novelle del Decameron è, infatti, ispirata all’amore e ha come protagoniste le donne. Le giornate III, IV e V ruotano attorno a questo tema. Già dall’Introduzione, Boccaccio si mette esplicitamente dalla parte delle donne associandole all’amore e individuando il suo pubblico privilegiato nella figura delle lettrici. Questo concetto sarà più volte ribadito all’interno dell’opera, soprattutto nella parte relativa all’autodifesa dove l’autore si dimostra fedele al mondo femminile e alla tematica amorosa, nonostante le critiche assai negative che, negli ambienti intellettuali dell’epoca, la diffusione parziale delle novelle aveva generato. La donna non è più vista come quella figura evanescente, eterea della tradizione medievale, vincolata al suo ruolo di mediatrice tra cielo e terra, ma si mostra in una veste laica più concreta e mondana collocandosi più realisticamente tra l’esperienza dello scrivere e l’ispirazione del fare creativo di Boccaccio.
L’amore viene inteso come una forza irresistibile della Natura, che si sottrae all’ideologia religiosa e familiare e alla sua valenza simbolica e idealizzante, codificata dall’esperienza cortese e dal manierismo stilnovistico. L’amore ha a che fare con il suo aspetto naturalistico e non vi è conflitto tra piano spirituale e piano mondano, perché viene progressivamente riabilitato proprio quel tipo di eros e di sessualità, solitamente condannati da una tradizione letteraria misogina. L’inappagamento sessuale femminile o l’adulterio delle donne non sono relegati tout court al mondo peccaminoso e alla sfera puramente fisiologica o istintiva, ma si innalzano a una dimensione psicologica caratterizzata dalla partecipazione passionale dei personaggi fino a spingersi verso l’esperienza radicale del sacrificio, il tutto però sempre calato all’interno di un quadro di riferimento laico e morale.
All’interno di questo grande respiro etico che pervade le trame del libro di Boccaccio, solo l’amore mercenario, per soldi o basato sull’interesse meschino, viene censurato, come anche quello patologico inquinato dalla gelosia, mentre l’amore per diletto e l’amore onesto sono uniti in una medesima categoria assiologia, cioè di valori che reggono l’impalcatura ideale delle giornate dedicate al racconto delle storie.

Se per esempio si prende il tema dell’adulterio, vediamo che Boccaccio guarda con una certa simpatia e complicità quelle donne che, come madonna Sismonda (VII, 8), si sentono trascurate dal marito per seguire i propri affari e tentano di opporsi a questo stato di cose. Oppure, Alatiel (II, 7), che, per aver salva la vita, ha rapporti esclusivamente sessuali con otto uomini nell’arco di quattro anni, e viene restituita ʻvergineʼ al padre che poi la potrà rispedire allo sposo promesso, il re del Garbo. La fascinazione erotica, la partecipazione sensuale, la passività e il mutismo di Alatiel mostrano lo sfondo psicologico e mitico della naturalità della passione amorosa, proveniente dall’irresistibile e fatale bellezza della protagonista. Il polo d’attrazione dell’amore è una forza travolgente che sovverte tutti i principi consolidati dalla tradizione medievale, mette in discussione tutti i tabù relativizzando i valori della castità, della fedeltà coniugale, della continenza erotica. Emblematica in questo senso è la figura di monna Filippa (VI, 7), la quale davanti al tribunale di Prato difende lucidamente le ragioni delle donne anche sotto la minaccia della condanna a morte. Essa rivendica il diritto di disporre del proprio corpo, la piena libertà di vivere la propria passione erotica e contesta radicalmente la validità di una legge che è stata fatta dagli uomini contro le donne.
L’amore attraversa tutti gli strati sociali e colpisce tutti senza distinzioni economiche, culturali, etniche e religiose. Agisce nei conventi, nei castelli, nei palazzi cittadini, in mare e nelle campagne. Ciò non significa semplicemente che l’amore sia sempre e soltanto una forza eversiva che butta all’aria l’ordine sociale, laico o religioso. Il matrimonio, per esempio, non è visto solo come un’istituzione che si oppone all’amore, tutt’altro. Anche se l’autore sembra talvolta difendere l’adulterio, spesso il matrimonio può rappresentare un giusto esito che legittima e consacra l’unione affettiva dei protagonisti. Ciò che il Decameron sembra contestare sono gli aspetti autoritari e repressivi che non permettono una giusta integrazione della donna nell’organismo sociale che si è venuto con gli anni affermando. Senza timore di dire ciò che le donne per «vergogna» tacciono, affiora dunque nel Decameron una moralità laica nuova che si fonda sulla rivendicazione dei diritti della femminilità contro le convenzioni morali e religiose, ipocrite, di stampo maschile. Ma la sfera d’azione della donna è sempre e comunque legata all’ambito erotico; anche quando la donna, come Giletta da Narbona (III, 9), conosce l’arte medica, sa amministrare i possedimenti, viaggia per il mondo, si muove da sola a cavallo, questa viene riconosciuta come moglie dal suo sposo solo quando, non importa come, è diventata la madre dei suoi figli.
Secondo il poeta di Certaldo, l’eros, nella sua concezione naturalistica, è un impulso che proviene dalla Natura e non si può controllare. Bisogna riconoscerlo, distinguerlo dalla sua coloritura patologica e assecondarlo nelle forme diverse con cui si presenta senza opporsi alla sua forza né alle sue leggi. Rispetto alla concezione dell’amore sublime e idealizzato, Boccaccio fa riferimento alle poetiche amorose di Dante, di Cino e soprattutto di Cavalcanti, per il suo aspetto materiale, passionale e carnale. Infatti, in alcune novelle e ballate del Decameron, vengono mostrati anche gli aspetti psicologicamente più devastanti dell’amore nella loro dimensione fantasmatica e forza spiritante.
L’importanza che Boccaccio accorda alla poesia di Cavalcanti consiste nel suo realismo tematico e linguistico capace di dare nuova vita alla concezione d’amore già abbastanza debitrice dei moduli stilnovistici. Nella canzone Donna me prega copiata da Boccaccio insieme al commento del medico Dino del Garbo e alla Vita Nova di Dante (nel manoscritto Vat. Chig. L. V. 176), vengono tematizzati la malattia d’amore, gli spiriti che si indeboliscono, la morte, la conseguenza disastrosa dell’amore, i sintomi somatici come i pallori, tremori, sospiri che ricompaiono dettagliatamente in quasi tutte le settanta novelle che trattano della sindrome amorosa. L’amore è una forza naturale, cioè psicologica e fisiologica, dove protagonisti sono «Amore» e «Fortuna» sia nei loro risvolti positivi che negativi. Il nome di questa sindrome erotico-melanconica è l’amor hereos che era apparentato nei trattati medici del medioevo con la melancholia nigra. Si tratta di una infezione fantastica che indebolisce il corpo, toglie il sonno, dà inappetenza e si traduce nella consunzione fisica e progressiva del malato. Il processo patologico avviene come nell’innamoramento tramite gli occhi che ricevono l’immagine dell’amato o dell’amata. Essa, attraversando il nervo ottico, viene trasmessa allo spirito sensibile che la trasforma in fantasma. Si tratta di una contaminazione pneumatica funesta che coinvolge il soggetto. Il deperimento graduale dell’organismo, il disordine mentale gli fanno accrescere le angosce, alimentando le fiamme della passione che hanno ormai invaso irreversibilmente le facoltà prerazionali della memoria e dell’immaginazione. Ciò forse spiega il perché i giovani della brigata per prevenire la manifestazione e il contagio dell’amor hereos, hanno la tendenza a stare insieme e a raccontarsi le novelle, o a intonare le ballate, solo in loci amoeni, come era prescritto dai medici medievali per il trattamento di questa fatale malattia.
La novella di Lisabetta da Messina (IV, 5) è esemplare in questo senso. Sulla follia della protagonista è costruita quasi tutta la vicenda. La «forza degli occhi» suoi, e non le parole, conquistano l’amante. Lei è fragile, indifesa, innamorata. I fratelli hanno ucciso il suo amante per vendetta, hanno commesso un delitto d’onore eccessivo che si è consumato nell’ambientazione della mercatura siciliana. Il desiderio smisurato di Lisabetta evoca sotto la forma allucinatoria del sogno l’immagine dell’amante che la implora di non accusarlo ingiustamente più con le sue lacrime, e la informa della sua uccisione da parte dei fratelli di lei. La risposta della protagonista a questa visione notturna è la follia. Il gesto quasi rituale della mutilazione del cadavere ormai risponde alla logica dei fantasmi della sua immaginazione devastata dal lutto impossibile e dal dolore. Le lacrime versate sul viso di Lorenzo, i baci e la cura con cui pone poi la testa nel vaso di basilico (pianta dal valore magico) dove la sotterra sono di grandissima tensione emotiva. Silenziosamente Lisabetta piange e con il suo pianto annaffia e dà vita al suo amore perduto. La sua bellezza si «guasta» col passare del tempo, «gli occhi le parevano della testa fuggiti», scrive Boccaccio. Solo «la testa non ancora sì consumata» di Lorenzo, macabramente scoperta e sottratta dai fratelli alla donna, sembra ancora sopravvivere alla morte, alimentata com’è dalla malinconia funebre e amorosa di Lisabetta. La protagonista è ormai lasciata alla solitudine e al silenzio: abbandonata dai fratelli in fuga, «piagnendo si morì».

Cărtărescu e il neosurrealismo romeno

In un tempo come quello nostro, dove tutto si consuma e, consumandosi, tutto si distrugge, un tempo in cui la clinica psicanalitica registra quasi irreversibilmente la disgiunzione di sesso e amore nelle relazioni umane, Mircea Cărtărescu con il suo Perché amiamo le donne, prova a ricostruire, a partire dalle figure femminili del Decameron di Boccaccio, un’alleanza con la tradizione del neosurrealismo romeno che aveva tessuto nel 1947 l’Elogio di Malombra. Riuniti per l’ultima volta, prima che si abbattesse su di loro la mannaia del realismo socialista, Gherasim Luca, Gellu Naum, Paul Păun, Virgil Teodorescu e Dolfi Trost avevano composto insieme direttamente in francese l’Éloge de Malombra, documento nel quale veniva affermata la potenza assoluta dell’amore: «Malombra ou l’amour et rien d’autre». In conformità a questo dettato poetico che vedeva in Malombra l’incarnazione dell’eterno femminino, dopo la Mathilde di Stendhal, la Dora di Freud e Nadja di Breton, il libro di Cărtărescu, Perché amiamo le donne, si propone come una raccolta di ventidue brevi e gustosi racconti a sfondo erotico e passionale, in cui il narratore intende restituire poeticamente uno spaccato interiorizzato del multiforme universo femminile, guardato sotto la lente desiderante dell’immaginario sessuale maschile. La donna, nelle sue molteplici sfaccettature di oggetto prezioso avviluppato dal fantasma, è il vero e proprio soggetto di questo libro. Ogni racconto – uno diverso dall’altro per intensità, stile e modelli culturali di riferimento – presenta la donna come oggetto e ricettacolo del desiderio. Essa è sempre eccedente e sempre sfuggente. Ed è allo stesso tempo vicina e lontana, intima e distante. Il ritmo della scrittura viene scandito da un succedersi di tocchi istantanei e prodigiosi che rivelano insieme i contorni di un’esperienza a carattere mistico-estatico dai tratti talvolta spaesanti.
Da questa prospettiva, tutte le donne dei racconti di Cărtărescu sono riconducibili anamorficamente all’immagine-idolo dell’unica donna che, producendo un effetto di verità nella distanza, rivela, lungo tutti i racconti, le sue policromatiche sembianze vagamente e sensualmente allegoriche. Questa verità nella distanza è marcata dallo scarto temporale dell’evento della sua apparizione e interroga incessantemente il narratore durante tutto il processo affabulatorio nel quale si trova costantemente coinvolto. Il protagonista maschile di questi racconti, post-modernamente autobiografici, volge nostalgicamente lo sguardo all’indietro, agli amori perduti e poi ritrovati nella memoria di un passato sognante che non è mai definitivamente passato. È uno sguardo che va «in là», in quel tempo eternizzato dall’istante, nel suo tratto irrealizzato ma immancabilmente compiuto.
La scrittura di Cărtărescu è attraversata da un’inquietudine erotica, romantica, surreale e visionaria, che talvolta si staglia in un «labirinto di fantasie violente e tenebrose», laddove si vive in «un paradiso infernale», oppure in un luogo elegiaco e voluttuoso che organizza visioni che permettono di mettere piede in quel mondo lontano, abitato da rimembranze e risonanze indefinite e misteriose. «Mi seguiva. Non avevo modo di sfuggire alla gravità dei suoi occhi saturnini. Eravamo in un museo vuoto, soltanto noi due, a rincorrerci tra sarcofaghi. Mi raggiungeva, zoppicando e sollevando una spalla, mi toccava con le sue mani sottili. Appena superava una colonna di granito, mi ritrovavo faccia a faccia con lei, umida e viscerale. La colpivo sulla guancia, la dilaniavo con le unghie. La sventravo con un coltello comparso chissà come nella mia mano. Cadeva e poi si rialzava di nuovo e mi seguiva ancora. Mi sono svegliato a notte fonda, tremando tutto, avvolto da un terrore mai più provato. Ho acceso la luce e l’ho lasciata accesa, leggendo, fino ai chiarori dell’alba» (p. 92). Ci sono molte allusioni all’Inventore della Amore di Gherasim Luca, anche se in Mircea Cărtărescu la prospettiva è completamente rovesciata.
Questa donna – apparsa al protagonista in una Torino impregnata di magia – ha manifestato decisamente il suo tratto spettrale, rivelando la verità soggettiva (il reale del terrore) nel luogo tradizionale della non-verità (la scena del sogno). È proprio l’uomo che crede alla verità della donna, al sogno della donna-verità.

In un altro racconto, invece, la donna appare umoristicamente agli occhi del protagonista in una sorta di visione estatica e voluttuosa, in riva al mare, come una Venere levantina dipinta da un Botticelli trasferito a Bisanzio: «Sarebbe stata l’ideale della bellezza dell’intera umanità, in effetti. Sarebbe stata venduta e comprata, accanto a zafferano, cannella e oricalco, in porti lontani. Con le sue gambe possenti, da divinità che regge un angolo di tempio, con i suoi seni enormi che spingeva in avanti con la stessa fierezza con cui la matrona romana esibiva i propri figli («Ecco i miei gioielli!»), con le sue lunghe chiome da Magdalena del Magdaleiano, con la sua figura crisoelefantina, sarebbe stata l’orgoglio degli harem e la cavalcatrice dei filosofi del mondo. Nuda, diffondeva così tanta luce che tutti gli altri corpi del piccolo golfo assumevano il colore livido dei cadaveri. I suoi seni, te ne accorgevi a prima vista, erano gli unici degni di questo nome: le altre donne avevano sul petto delle mammelle o più semplicemente delle tette. Il suo sedere, con la parte oscura tra le natiche, mostrava di tanto in tanto, con indolenza premeditata, la sua stellina marroncina e l’altra struttura, variamente orlata, simile alla polpa carnosa che fuoriesce dalle valve di una conchiglia marina. Quando si sdraiava, il ciuffetto di fili d’oro, sopra la vulva accuratamente rasata, gettava una luce radente sull’addome, come il cappuccio delle stilografiche della nostra infanzia. E quando si rigirava, a pancia in giù, sopra i glutei, ondeggianti sul cuscinetto triangolare dei lombi, spuntava un tatuaggio con dei draghi» (p. 145).
Ma l’erotismo esuberante che permea la scrittura di Cărtărescu, e che mette in scena la donna come un oggetto di pura fantasia maschile, non deve trarre in inganno. Questa donna, simulacro della verità come luogo della bellezza e della realizzazione nella parola di tutti i desideri più indicibili del soggetto maschile, non si offre mai come oggetto di possesso o di godimento. Non è mai proprietà del maschio, neppure nella finzione. Questa donna è in realtà un godere che altera e sposta il soggetto lungo la trama discorsiva dell’amore. La donna, in questi racconti di Cărtărescu, è come una verità che idealmente illumina il segreto abissale del femminile nella sua infinità velata. Nel suo rivelarsi narrativo è espansione ed esuberanza dell’essere. Essa, racchiudendo nell’orizzonte mitico dell’Uno tutte le donne reali o immaginarie, è un effetto rifrangente del velo, è una verità sospesa che trasfigura e spiritualizza il godimento del soggetto scritturale nella sua articolazione con il desiderio.
Le donne di questi racconti testimoniano la contingenza del rapporto erotico e amoroso nell’après-coup dell’evento di rottura. Sono come dei fermi immagine, delle istantanee prese al volo per essere letterariamente salvate dal loro inesorabile dileguarsi nell’oblio. Sono delle figure erotizzate al massimo che tentano di far accedere il soggetto della finzione al piano trans-immanente dell’evento, senza per questo dover necessariamente far leva sulla forza della seduzione combinata da tecniche sessuali o pornografiche.
Cărtărescu parla delle donne, del suo amore per le donne, rivolgendosi soprattutto alle donne – iscrivendosi così nella tradizione inaugurata da Boccaccio, iniziatore indiscusso del genere del racconto. Parla dell’amore, di quell’amore che si dice e si fa sempre dicendolo, di quell’amore che impedisce alla scrittura di irrigidirsi nell’allestimento del feticcio consumista della donna-oggetto-gadget. Parla dell’amore più privato in forma pubblica: «la nostra coppia», «il nostro amore». «È qualcosa di essenziale di cui si parla troppo poco, sopravvive anche in presenza del più devastante denudamento simbolico» (p. 28).
Il fatto che si ama è una questione privata, ma una coppia che si ama è un affare pubblico, anzi politico. Nessuno è in grado di rivelare il senso delle parole «il nostro amore», «la nostra coppia» al di là dell’orizzonte dello stare segretamente assieme. Nessuno, perché il senso di queste parole è sempre al di là di ciò che si può dire. Questo senso delle parole, del «legame psichico, chiamato amore», risiede unicamente nel fatto di dirle, queste parole. Là c’è già tutto il senso dell’amore, un senso intimo, interiore, che inevitabilmente sfugge a tutti i perché.
Non c’è un solo «Perché amiamo le donne». Questo amore è molto imbarazzante ed è difficile da trattare. Ma c’è qualcosa di quest’amore che si dice, e quel che si dice è il senso del «noi»: «Il nostro amore», «la nostra coppia». Queste parole ci inviano qualcosa del senso del «noi» che si trova nel rapporto d’amore – un qualcosa che si mostra come rapporto con il desiderio nello spazio fulmineo del racconto – la cui verità resta solo nel tempo di un lampo e che le donne, dalla loro alterità, ci portano ad incontrare nel luogo, interrogante ed insieme enigmatico, della parola chiamata «amore».

Giovanni Rotiroti


Elogio di Malombra


Elogio di Malombra
Alone dell’Amore Assoluto
S Surréalisme 1947

Malombra o l’amore e nient’altro.

La convulsione della bellezza, la debolezza del ricordo, il colore del rimpianto, la grazia della vita, la medianicità del gesto, la rarità dell’amore, la follia dei sensi, la bellezza della follia, la tristezza dei laghi, l’influenza lunare, la vita dopo la morte, la nobiltà della lussuria, l’ardore dello sguardo, il ricordo della follia, l’avvenire del passato, il sonnambulismo del pensiero, la morte del paesaggio, l’azione a distanza, il sonno sfiorato, il sogno vissuto, l’orgoglio del sacrilegio, la lussuria dell’isteria, il rifiuto di vivere, l’esibizione di vivere, la bellezza della bellezza: in Malombra.

Mai la difficoltà d’innalzare la rivoluzione all’altezza della poesia ci ha talmente sbalordito, talmente sedotto. Mai è stato così evidente ai nostri occhi che la bellezza folgorante della donna destinata all’amore resti la concentrazione dei più agitati momenti dialettici dell’universo. Mai infine il filo che passa attraverso gli esseri ci è parso più sottile, più fragile se non quand’è passato in questi merletti, questi gesti, questi sguardi, dove la potenza stessa che anima il mondo si era appena deposta nell’ironia di una passione.

Ti ricordi di quella sera, Renato? il lago, i lampioni, i suoni lontani … Ciò che mi accade  è strano, non appartengo a questo mondo. Tu non mi hai capito, tu non mi capisci, perché tu non lo sai. Io oggi parto verso una sorte sconosciuta, sconosciuta lettrice addio.

Così breve che l’occhio ne fu accecato, e tuttavia come uno scorpione nervoso, l’ombra passò attraverso la grigia luce diurna come una ferita, come una rovina, come una cascata addormentata. L’aria riempita di terribili animali e i mari viola fino al lontano aldilà dei limiti rassicurati del globo cullavano le loro appassionanti escrescenze: la follia della bilocazione ne fu spezzata all’istante, in quest’epoca così favorevole ai trionfi dell’immaginazione, e con essa, gli ormeggi che incatenavano la ragione.

La cena su una tavola girevole, l’assassinio senza ferita, la cascata magnetizzata, il mistero della cifra undici, il letto barca e il giglio, i segreti  della tempesta, temporali ovunque, i parchi senza frontiere, le conversazioni sospese.

Le scene ove Malombra si dà, la notte, al suo amante, sul bordo del lago, ove attraversa le acque con l’ostile freddezza per colui che l’attende, ove lei passa all’isteria lucida sotto i venti grigi che spengono le torce, sono il trionfo di ciò che noi conveniamo di chiamare l’amore assoluto.

L’ardore alla ricerca dell’ardente.

Un personaggio, con la mano insanguinata, si gettò in quest’immenso pallore e al di sotto del melanconico sesso scoppiavano le piante foraggère, imbalsamate come le fòladi che l’oceano visita nelle sue consuete occupazioni, tra tante superstizioni, determinismi, errori e sorgenti, tra tante accuse e sintomi di furore. Questa mano è la linfa incendiata, è la sabbia nordica concretizzata in un istante dalle magiche linee degli specchi, nelle loro conversazioni riguardanti gli astri.

- Ti ricordi, di tutto? Di tutto. Non ricordo più niente. Ma so che quest’istante doveva arrivare, Cecilia. In quale mondo hai vissuto: soffoco. Il lago può essere visto solo dall’ala sinistra del castello.

Nell’oggetto Malombra: le interrogazioni sul bordo del lago, i movimenti fragili nelle tenebre, i giochi come provocazione sintomatica, il disgusto di fronte a tutto ciò che non è amore, l’incontro nel presente del passato.

E incapace di muoversi, di parlare, lei giaceva su una lettiera, coperta di merletti e veli. Sul vasto maneggio non c’erano che cavalli ipnotizzati che saltano gli ostacoli, e laghi distesi su migliaia di leghe rendevano i loro colli trasparenti: così vicini ai fuochi dei nostri nervi, la donna li toccava con la punta delle ciglia: entravano nei suoi occhi e scorrevano fuggitivi nelle sue lacrime.

- Cecilia, io Cecilia, sono venuta con il mio amante per vederti morire, per vederti morire, per vederti morire. C’è tanta oscurità nella mia anima, tanta tristezza. Sto per divenire pietra, più fredda della pietra.

Accanto all’amore del cuore, l’amore dei sensi, l’amore relativo, c’è ancora questa sorta d’amore ove assolutamente tutto si ripiega e si concentra, ove la vita non è che il vago ausilio di quest’invincibile passione. Dopo Nadja, Dora, o Mathilde, anche Malombra entra a sua volta nelle regioni eterne dove il desiderio, la poesia, l’azzardo rendono il passaggio della vita alla vita assolutamente dialettico, necessariamente sensibile.

Prima che cali il sipario, l’oscura oppressione doveva annunciare il suo ritorno: ma l’ateismo irriducibile di ogni isterico orrore di vivere respinge l’idea religiosa (che tenta invano d’introdursi surrettiziamente nella passione) – dapprima ridotta in polvere.

L’amore puro dell’essenza assoluta è una coscienza divenuta straniera a se stessa. Resta da vedere più da vicino come si determina ciò di cui è l’altro, e lo si deve considerare unicamente in questo legame con l’altro. Di primo acchito, l’amore puro sembra avere verso di sé solo il mondo dell’effettività, ma essendo esso stesso la fuga di questo mondo, e avendo anche la determinabilità dell’opposizione, l’amore puro reca questa effettività in seno.

Lilium tigrinum non può camminare che su un suolo perfettamente unito, idealmente sulla sabbia fine di un greto. La sua lateralità è insieme sinistra e inferiore, i suoi pensieri amorosi sottolineano l’omologia sconvolgente del Serpente e la cicuta. Il polso è fuggente, le unghie sono blu, lei giace abitualmente di spalle, con la testa riversata e gli occhi chiusi. Quando esce dal suo torpore morale e riapre gli occhi, folgora coloro che la circondano con la loro indifferenza astuta. Nel posto in cui la separazione degli esseri secondo la violenza del desiderio raggiunge i neri segreti dello spagirismo, lo sguardo di questa donna – le cui rare incarnazioni ci guidano ancora verso i precipizi di velluto – colpisce l’amore col suo inalterabile appello.

I nervi trancianti, i gatti scintille, l’emicrania solare, le grida, le braccia girate, l’andatura titubante sulle onde dei cristalli, il balbettamento esplosivo, gli strilli acuti, i sospiri senza fondo, la rabbia occulta, l’orrore di vivere, le grida rauche, le capigliature insanguinate, le vesti tagliate col rasoio, il suicidio esibizione, la velocità degli sguardi folli, l’impostura arrogante, lo scandalo assassino, le grida perdute, gli spasmi voluttuosi – tutto questo e anche il pallore e il silenzio non potranno mai esprimere la sfida intrattabile di tutto ciò che è attraversato solamente dal magnetismo dell’amore eterno.
O Malombra, mal d’ombra.

Questo testo [è] ispirato dal film involontariamente surrealista Malombra


Gherasim Luca, Gellu Naum, Paul Păun, Virgil Teodorescu, Dolfi Trost
Traduzione dal francese di Giovanni Rotiroti


(n. 1, gennaio 2014, anno IV)